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EVENTI

TITOLO

programma commemorazione dei partigiani Luciano Bolis - Luigi Lanfranconi - Eros Lanfranco

 

DATA

20/04/2011

LUOGO

Genova

Circolo Guido Calogero – Aldo Capitini
Genova
Genova 20 aprile 2011
programma commemorazione dei partigiani
Luciano Bolis in piazza De Ferrari preso la targa a lui dedicata ore 18,30
Luigi Lanfranconi in via Roma presso la lapide a lui dedicata ore 18,50
Eros Lanfranco in Largo Eros Lancfranco ore 19,10
Orazione uffficiale del prof Gianni Marongiu


con la partecipazione del
Coro Seduto diretto dal maestro Sergio Mesturini

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Gianni Marongiu
25 aprile 2011
Parole pronunciate in Largo Eros Lanfranco

Opportunamente l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia nella lettera indirizzata ai soci per ricordare il prossimo 25 aprile scrive: “Quest’anno celebriamo il 150° anniversario dell’unità d’Italia e ciò rende ancora più doveroso ricordare i nostri caduti perché è a Loro che l’Italia e noi tutti dobbiamo l’inestimabile merito di avere consentito di congiungere il primo e il secondo Risorgimento”.
E’ una frase che bene interpreta lo spirito con cui molti partigiani parteciparono alla Resistenza e immolarono la vita.
Il 22 gennaio 1945, a Torino poche ore prima di morire fucilato, Pedro Ferrera, partigano della brigata G.L., scriveva ai genitori: “Maggiore sarà la possibilità di reazione al dolore se penserete che il vostro figlio muore come i fratelli Bandiera, Ciro Menotti, Oberdan e Battisti con la fronte rivolta verso il sole ove attinse sempre forza e calore: è morto per la Patria alla quale ha dedicato tutta la sua vita; è morto per l’onore perché non ha mai tradito il suo giuramento; è morto per la libertà e la giustizia che trionferanno un giorno quando sarà passata questa bufera”.
Ebbene ciò che vale per molti partigiani vale proprio per tutto il Partito d’Azione.
Il partito d’azione volle innanzitutto essere un partito e non semplicemente un movimento antifascista perché si volle dare un programma e una struttura per svolgere un ruolo politico nel paese dopo la sconfitta del nazifascismo.
Volle essere d’azione nel senso comune e proprio del termine. Un suo illustrissimo leader disse: “vincere la morte mediante il fare”. “Non dare né ricevere ma fare”.
Storicamente il nome del partito d’azione era altamente evocativo.
Ricordava volutamente il partito fondato da Mazzini dopo il fallimento del tentativo insurrezionale di Milano del 6 febbraio 1853 e sanzionato dal manifesto “Agli italiani” diffuso nel marzo dello stesso anno.
Non nasceva dal nulla, anzi, perché sorse nel luglio del 1942 dalla fusione dei gruppi di “Giustizia e libertà”, del liberal-socialismo di Calogero e di Capitini e di altri allo scopo di combattere il fascismo e di costituire una terza forza tra il socialismo e il liberalismo.
Il programma era condensato nelle due parole “Giustizia e libertà” sotto la cui guida combatterono, per l’appunto, le brigate partigiane di “G L.”
Ciò significava una intransigente difesa della libertà, (A. Monti in un saggio einaudiano del 1945 intitolato “Realtà del Partito d’Azione” scriveva: quello che il Partito d’Azione rivendica dell’eredità del Risorgimento, e senza alcun beneficio d’inventario , è il primo fattore del famoso trinomio, la libertà) delle libertà democratiche ma anche una liberazione dell’uomo dal bisogno, (per dirlo con un termine roosveltiano) insomma una maggiore giustizia: obiettivi che meglio potevano essere tutelati da uno Stato che vedesse riaffermata la propria autonomia, fosse nuovo istituzionalmente e rinnovato nelle sue articolazioni strutturali.
Il Partito d’Azione, per dirla in breve, fu tenacemente e fieramente repubblicano, laico, favorevole alle autonomie locali ed europeista.
Il contributo del Partito d’Azione fu, notevole per quantità e per qualità. E a questo proposito intendo sottolineare che non nel solo nome richiamava un’esperienza risorgimentale .
Degli uomini del Risorgimento ebbe il desiderio e la capacità di esporsi. Altri partiti, che pure dettero un forte contributo alla Resistenza, tesero a salvaguardare il gruppo dirigente, i gruppi dirigenti. Non fu così per il partito d’azione perché i suoi dirigenti dovevano “dare l’esempio” di sapersi esporre ai maggiori pericoli e di sapere anche morire. In questo furono risorgimentali.
E proprio perché furono “risorgimentali” degli uomini del Risorgimento ebbero la passione e la lucidità.
Lo stesso Pedro, in una lettera diversa indirizzata ai compagni del Partito d’Azione, scrisse: “E ora amici cari non mi rimane che salutarvi, augurandovi che le fortune del Partito d’Azione mai disgiunte dalle fortune dell’Italia liberata di domani, possano portare al graduale rinvigorimento della Nazione e alla rieducazione morale del popolo tutto, senza la quale le forze demagogiche che hanno portato l’Italia nostra all’odierna rovina riprenderanno il sopravvento e gli errori si ripeteranno senza fine fino alla reale scomparsa di quella civiltà di cui noi fummo portatori”.
Ecco questo è il messaggio eterno che ci ha lasciato quel partigiano: Ricordatevi, cari amici, che la libertà e la giustizia non si conquistano in un giorno anche importante (il 17 marzo 1861, il 20 settembre 1870, il 25 aprile 1945) per sempre, ma si conquistano giorno per giorno, giorno dopo giorno, ogni giorno.
E credo di poter concludere che la realtà dei nostri giorni conferma la verità del testamento morale che vi ho letto.

Gianni Marongiu
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LUCIANO BOLIS
Testo della targa posta in Piazza De Ferrari sotto i portici dell'Accademia

LUCIANO BOLIS
(1908 - 1993)
"IN QUESTA PIAZZA, IL 6 FEBBRAIO 1945,
FU ARRESTATO DAI FASCISTI.
TORTURATO, TENTÒ IL SUICIDIO PER NON RIVELARE I NOMI DEI COMPAGNI.
DEDICÒ LA VITA ALLA CAUSA
DELLA PACE E DELL’UNITÀ EUROPEA."
MOVIMENTO FEDERALISTA EUROPEO
GENOVA, 7 FEBBRAIO 1998

Cenni biografici
Alcuni brani tratti dal libro "Il mio granello di sabbia"

Nato a Milano il 17 aprile 1918 Luciano Bolis iniziò la frequentazione degli ambienti antifascisti già quando era studente di Lettere e Filosofia presso l’Università di Pavia. Conseguita la laurea entrò in contatto con Ugo La Malfa e Ferruccio Parri. Nel 1942 fu arrestato e condannato dal Tribunale Speciale a due anni di reclusione per attività clandestina. Grazie ad un’amnistia venne però liberato dal penitenziario di Castel Franco d’Emilia il 28 agosto 1943 insieme a Vittorio Foa. Dopo aver riparato in Svizzera rientrò in Italia nel settembre del 1944 per partecipare alla Resistenza con il nome di battaglia di Fabio. Venne quindi arrestato a Genova dai fascisti nel febbraio 1945 allorché ricopriva la carica di Segretario dell’Unione Ligure del Partito d’Azione e di Ispettore Regionale delle formazioni di Giustizia e Libertà. Tradotto alla Casa dello Studente e alla caserma delle Brigate Nere subì orribili torture e tentò il suicidio, tagliandosi polsi e gola, per non rivelare il nome dei compagni. Fu trovato in fin di vita dai suoi aguzzini e ricoverato all’Ospedale di San Martino. Una rocambolesca azione partigiana, nella quale rivestì un ruolo importante la futura moglie Ines, portò alla sua liberazione. Nel dopoguerra ricoprì dapprima importanti cariche nel PdA, sia a livello regionale che nazionale, quindi fu tra i fondatori dell’Istituto Storico della Resistenza in Liguria e suo direttore fino al 1953. Egli dedicò però soprattutto la sua vita alla causa federalista europea, ricoprendo cariche di primo piano nel Movimento Federalista Europeo (vice segretario nazionale e poi segretario aggiunto) nell’UEF, nell’AICCRE, nell’AEDE e nell’Associa-zione Stampa e Giornalisti Europei. Per quindici anni è stato inoltre un alto funzionario del Consiglio d’Europa. E’ scomparso a Roma il 20 febbraio 1993. 

Luciano Bolis (nella foto a destra) durante una manifestazione del Movimento federalista Europeo al confine italo francese.
  
DAL LIBRO "IL MIO GRANELLO DI SABBIA",
Luciano Bolis, Einaudi, 1946
[...] La decisione era presa: non già veramente l'estrema di uccidermi, ma quella di prepararmi materialmente e spiritualmente a darmi la morte, qualora gli avvenimenti avessero preso una piega tale da richiedere il gran passo. Sentivo infatti di poter sopportare ancora un giro di vite alla serie delle mie torture, ma non di più. La preparazione materiale fu presto fatta. Col pretesto di prendere fazzoletti dalla valigetta che mi era stata sequestrata al momento dell'arresto, riuscii a sottrarre il pacchetto delle lamette Gilette: ne nascosi una nel sapone, un'altra nell'impiantito e una terza in una cucitura dei pantaloni. Non potrò mai descrivere l'ondata impetuosa di sensazioni che mi travolse quando, riuscitami questa preliminare operazione, io mi sdraiai nuovamente sul tavolaccio: fu una sensazione acutissima e complessa, preludio ad altre sensazioni più acute e complesse ancora, ma la cui nota predominante era la gioa. Ormai non ero più un semplice strumento nelle loro mani, ma a un certo momento, in conseguenza di un atto della mia volontà, potevo anche definitivamente scornarli nella loro bramosia di sapere e assurgere a nuova vita ch'essi non sospettavano neppure, ma che allora io sentivo per la prima volta con tutta certezza. E così la fantasia, già accesa, pregustava l'ebbrezza di quell'attimo in cui l'anima, già trapassante, cogliesse nei loro volti la beffa subita, e il corpo, gia' martoriato, cessasse una volta per sempre di soffrire. [...]Mi vidi per 15 giorni appeso per aria, fustigato, arso. E non ignoravo quello che mi avrebbe aspettato poi se non avessi parlato: i bagni nella pece bollente, le camere refrigeranti, il casco di ferro, le scosse elettriche, insomma tutto quello che non avevo ancora provato. Una paura folle mi prese: e se non resistessi a tutto questo? E vedevo già i compagni braccati e torturati a loro volta, e una sequela interminabile di arresti, e la insurrezione che da tempo progettavamo forse rimandata, forse anche compromessa. Intanto la lametta stava lì, nella cucitura dei calzoni, a pochi centimetri, che aspettava soltanto d'esser presa e mi gridava che la salvezza mia e di tutti dipendeva soltanto da lei. [...] Quello che si svolse allora fu questione di un lampo, ma lo spirito in quei momenti raggiunge una vitalità di cui non si ha idea. In un baleno ebbi tutta la vita polarizzata nella coscienza. I miei pensieri erano dei concentrati di pensieri. Tutto, di me, era presente. Con la lametta a mezz'aria tra l'indice e il pollice destro, non diedi forma ad alcun pensiero particolare, perchè in quel momento avevo bisogno di concentrarmi sulla totalità di me stesso. Io comunicavo e ricevevo con tutta la persona, e la voce (o forza) che veniva a me sapeva così di profondo che ho creduto un istante che altri, da altri mondi, mi comunicasse. Volendo tradurre in parole quel dialogo, forse si potrebbe ricostruire così: -Allora, Luciano, sei pronto? -Sì. -Devi proprio? -Sì. -Allora forza! -Dio perdonami, Tu che vedi perchè lo faccio! E giu' un gran colpo sul polso sinistro. Il sangue sprizzo' altissimo ed io me ne sentii uscire un gran fiotto dal cuore. Barcollai. Temetti di cadere e di far accorrere il piantone, richiamato dal rumore. Mi adagiai pertanto lungo disteso per terra, mentre il sangue continuava a sgorgare abbondantemente dalla vena aperta, e passai la lametta dalla destra alla sinistra. Questa, a sua volta, vibro' il suo colpo al polso destro, ma il sangue ne uscì con minor veemenza. Allora distesi i nervi, composi le membra e mi dissi: "Ormai è fatta! Pensiamo a morir bene, voglio dire a vivere intensamente e degnamente questi ultimi momenti". Sapevo che la fine non sarebbe sopravvissuta subito. Di quei momenti dirò una cosa sola: il rammarico, non già di morire, perchè e' mia abitudine non trovare ne' bella ne' brutta una cosa che si ha la coscienza di dover fare, ma il rammarico di morire così, senza poter scrivere un estremo messaggio che dicesse ciò che avevo sofferto e proclamasse che all'ultimo quella che che avevo sentito più forte era stata la voce della virtù. Io invece non sarei stato un martire della libertà, ma un disperso, e i miei cari mi avrebbero forse aspettato per anni prima di chiudere il cuore alla mia morta speranza. E un altro pensiero ricordo infine, che io mi limito a citare qui senza commenti, per quanto, lo confessi lo trovi strano: la preoccupazione per il mio corpo che io lasciavo e che gli aguzzini avrebbero mutilato, come avevan promesso, e poi abbandonato chi sa dove. Mentre tali pensieri mi occupavano e una gran pace mi scendeva nel cuore, constatai con sorpresa che il sangue aveva smesso di defluire e gli sbocchi delle vene recise erano ostrutiti da sangue coagulato. "E' il freddo - pensai - Ci vorrebbe dell'acqua calda". Ma la mia sorpresa si fece desolazione quando mi accorsi, ripetuta per parecchie volte l'operazione di strapparmi il sangue rappreso, che comunque il deflusso era cessato. Furono momenti di disperazione profonda, perchè tutto in quei frangenti si colora di tinte superlative. Fu con terrore che riconobbi le conseguenze del fatto: o non morivo, e l'indomani sarei stato trovato ancora in condizione tale che avrebbero cercato di farmi parlare, e naturalmente anche di farmi pagare il gesto tentato, oppure.... dovevo uccidermi una seconda volta. Una terza soluzione non c'era, e fu così che, già adagiato in una morte che stavo gustando dolce come un sogno (la prima cosa dolce dopo il parossismo di tante angustie), dovetti nuovamente far ricorso a tutte le fibre della mia volontà, perchè una altra volta mi soccorresse. "Bisogna tagliare più profondo mi dicevo" Ma le mani ormai paralizzate non ce la facevano più a vibrare il colpo con la forza necessaria. [...] Fu soltanto allora che pensai alla carotide. Nuovo richiamo di energie, nuovo stridor di denti per la tensione dello sforzo. Le dita, malcerte ed ormai fredde, stringono ancora la lametta, mentre io pongo ogni cura a che essa non mi scivoli inavvertitamente via, perchè certo più non l'avrei trovata tra il buio e l'anestesia che ormai mi prendeva tutta la mano, ciò che avrebbe significato restare una volta di piu' a mezza strada tra la vita e la morte. Il colpo parte e colpisce giusto (annoto tra parentesi che debbo la vita, oltre alle miracolose circostanze che esporrò nel seguito, anche alla mia ignoranza in fatto di anatomia, perchè io credevo che le carotidi stessero nel mezzo anzichè ai lati della gola). Istantaneamente sento che, all'alzarsi e abbassarsi del petto in forza del movimento di respirazione, corrisponde un passaggio di aria attraverso l'apertura praticatami, ne' mi riesce più di respirare con la bocca o col naso. "Qualcosa ho colpito, - mi son detto, - ma perchè non muoio? si vede che i vasi interessanti sono più sotto". E allora giù colpi su colpi. 



Luigi Lanfranconi


Nato a Voltri (Genova) nel 1913, caduto a Sampierdarena (Genova) il 20 febbraio 1945, impiegato, Medaglia d'oro al valor militare alla memoria.
Suo padre era morto al fronte durante il primo conflitto mondiale. Ciò aveva facilitato l'assunzione di Lanfranconi come impiegato alla Cassa di Risparmio di Genova e Imperia. Richiamato durante la seconda guerra mondiale, il giovane, al momento dell'armistizio, prestava servizio presso una batteria costiera. Sbandatosi il suo reparto, Lanfranconi si diede alla macchia e poi all'organizzazione dei primi gruppi partigiani che si stavano formando tra la Liguria e l'Emilia. Entrato a far parte delle formazioni di "Giustizia e Libertà", divenne vice comandante delle Brigate gielline cittadine. Sorpreso dai fascisti, tentò di sfuggire alla cattura. Raggiunto dai nemici, rifiutò la resa e fu trucidato sul posto. Nel novembre del 1969, alla memoria di Luigi Lanfranconi è stata concessa la Medaglia d'Oro con questa motivazione: "Giovane di purissima fede, all'armistizio era tra i primi ad entrare nelle file partigiane ed a portarvi l'entusiasmo dei suoi ideali. In più mesi di durissima lotta, si batteva audacemente in pianura e in montagna, organizzando reparti e rifornendoli di armi, di viveri e di denaro. Braccato dal nemico che aveva fiutato in lui uno dei più importanti capi della Resistenza regionale, veniva infine catturato. La sua indomabile energia lo spinse ad un audace tentativo di fuga. Raggiunto dal nemico, respingeva le intimazioni di resa. Colpito a morte, offriva la sua esistenza alla causa della libertà. Fulgido esempio di grande animo di combattente e di patriota". Al nome di Lanfranconi sono stati intitolati il Liceo scientifico statale di Voltri ed una strada di Genova.
 
Eros Lanfranco


Nato a Genova il 19 maggio 1906, ucciso a Mauthausen-Melk il 23 novembre 1944, laureato in giurisprudenza, Medaglia d'oro al valor militare alla memoria.
Esercitò la sua professione senza dimenticare l'impegno antifascista. Militante del Partito d'Azione, dopo l'8 settembre 1943 Lanfranco prese parte alla Guerra di liberazione nelle file della Resistenza genovese. Membro del primo Comitato di liberazione nazionale e del CLN della Liguria, fu responsabile delle prime organizzazioni militari «Giustizia e Libertà» della zona. Affrontò pericoli di ogni genere - come è ricordato nella motivazione della Medaglia d'Oro al Valor Militare - costituì depositi di armi e munizioni e impiantò una delle prime stazioni radio trasmittenti della Liguria, in collegamento col Comando Alleato di Algeri, al quale forni importanti notizie di carattere politico militare. L'8 marzo 1944, arrestato dalla Gestapo in seguito ad una delazione, Eros Lanfranco fu tradotto alle carceri genovesi di Marassi, poi trasferito a Fossoli e infine deportato nel campo di concentramento di Mauthausen. Sfinito per il durissimo lavoro nelle cave di Melk, per le privazioni e le sevizie, Lanfranco fu mandato all'infermeria del lager, dove i tedeschi lo eliminarono con un'iniezione di benzina. Per strappargli alcuni denti d'oro, i tedeschi fecero scempio del cadavere. Un commosso ritratto di Eros Lanfranco - al quale è intitolato un Largo nel centro di Genova - lo si può trovare nel libro di Pietro Caleffi Si fa presto a dire fame.

Socio fondatore del Gruppo di Volpedo e del Network per il socialismo europeo .