1^Intervista a Luciano Gallino - Quale crescita nella crisi ecologica
Un capitalismo ecologico (se potesse esistere) allontanerebbe o scongiurerebbe il disastro che è già cominciato? il manifesto, 24 ottobre 2010
Il neoliberismo divora le risorse della crescita. La politica si fa ancella della finanza. Le sinistre hanno capito ben poco della globalizzazione. E parlare di ambiente a una donna di Haiti è complicato. Ma la crisi ecologica è planetaria e il rilancio dell'economia mondiale la aggraverà
Luciano Gallino, come giudica le politiche seguite da quanti hanno responsabilità pubbliche (industriali, economisti, politici) al fine di superare la crisi. Politiche che di fatto si riassumono in rilancio di produzione e consumi, aumento del Pil, insomma crescita... Una linea che nessuno mette in discussione.
Gli interventi postcrisi sono l'esito di un processo di ristrutturazione dell'economia cominciato con Reagan e Thatcher nei primi anni anni 80, cui hanno contribuito anche governi europei guidati da socialisti: dopo aver fabbricato la crisi, tentano ora di porvi rimedio con metodi tipicamente neoliberali. Ma bisogna fare qualche distinzione. Gli Stati Uniti, motore primo del capitalismo finanziario, da cui è partita la crisi, stanno facendo una politica un po' più progressista dell' Europa: salvando le banche, ma anche contenendo la disoccupazione con forti interventi di stimolo, e destinando decine di miliardi a una politica ecologica. Con tutti i suoi limiti, si tratta pur sempre del primo segno di vita della politica nei confronti della finanza. Mentre la Ue, fedele alla strategia di Lisbona, sta andando in tutt'altra direzione.
Quello che lei mi dice conferma la totale disattenzione del mondo politico nei confronti della crisi ecologica planetaria, e che il rilancio dell'economia mondiale non può che aggravare. Come giudica tutto ciò?
Lo giudico un grosso pericolo. E' come essere su un aereo che sta andando dritto contro una montagna e in cabina non c'è nessuno...
Di recente il Global Footprint Network ha annunciato che è già stata consumata la quantità di natura da potersi usare quest'anno senza squilibrare ulteriormente l'ecosistema. E la data viene anticipata ogni anno... Ma nessuno ci fa caso: seguitano a invocare crescita, dimenticando che (a prescindere dall'aumento di catastrofi) alla crescita può mancare la materia prima...
Ha detto quasi tutto lei. Io ho finito di scrivere un libro sulla crisi come crisi di civiltà, in cui tra l'altro ricordo che l'impronta ecologica dell'economia globale occupa ormai un pianeta virgola tre. Se il Sud del mondo dovesse produrre come l'Occidente, in pochi anni di Terre ce ne vorrebbero due. I responsabili principali sono la fede neoliberale e le pratiche economiche che ne sono derivate. Le dottrine economiche del neoliberalismo parlano di foreste, di mari, di acque, di terreni, ecc. sotto un unico aspetto: la valorizzazione. Uno distrugge mille kmq di foreste pluviali in Indonesia o in Brasile e la considera un'opera di valorizzazione: qualcosa che pareva non servire a nulla diventa materiale da costruzione. Questa dottrina economica è affatto irrazionale, perché non calcola nei passivi la distruzione dei servizi che quella foresta - o quella palude, quell'agro, quel fiume - rendeva: un valore annuo che in media supera di due o tre volte il ricavo della cosiddetta valorizzazione. Con la differenza che quei servizi che erano durevoli sono scomparsi per sempre, mentre la valorizzazione avviene una volta sola.
Ma questo comportamento non attiene alla natura stessa del capitale?
Del capitale senza regole e senza controlli. Ma ci sono stati dei periodi in cui il capitale era ragionevolmente regolato.
Forse perché, come dice Wallerstein, c'erano ancora degli spazi in cui fuggire... Il mondo non era antropizzato, sfruttato come ora.
Questo è indubbio. Oggi, al di fuori della società capitalistica mondiale, non c'è nessuno spazio. Ma ci sono anche altri fattori geopolitici da considerare. Tra il 1945 e il 1980 il capitalismo fu in qualche modo regolato. In diversi paesi europei gli orari di lavoro furono ridotti: in Francia si arrivò alle ferie di cinque settimane. Per molti motivi. Non ultima la presenza di una grande ombra a oriente, che induceva imprenditori, banchieri, politici, a muoversi con cautela. Finito ciò, s'è avuta la controffensiva, mirante a tagliare le conquiste sociali intervenute tra il '60 e l'80. E tutta la legislazione è stata modificata in modo da dare massimo spazio al capitalismo finanziario.
Secondo una politica totalmente identificata con l'economia neoliberista...
Certo, quella vincente. La politica neoliberale è a suo modo una politica totalitaria, persino con connotazioni fideistiche: lo stato deve essere ridotto ai minimi termini. Le strade verso la crisi ecologica globale sono state spianate a colpi di legge da una politica che ritiene prioritaria l'economia. Bisogna recuperare la capacità della politica di imporsi in qualche misura all'economia, in specie alla finanza. Certo con difficoltà enormi: questa realtà è stata messa in piedi già dalla fine degli anni '40.
Quando il problema ambiente ancora non si poneva...
Sì, allora la conquista del dominio dell'economia sulla politica si poneva in termini molto chiari. La globalizzazione è stata uno degli strumenti per costruire un dominio politico e ideologico non meno che economico. E finora è mancata la controffensiva. Soprattutto è scomparso il pensiero critico.
E in tutto ciò il problema ambiente è stato completamente rimosso...
Non direi che è stato rimosso. Gli economisti neoliberali, principali artefici del disastro, in realtà ne erano e ne sono benissimo consapevoli. Soltanto che, finché dura, ci vedono un'occasione di profitto.
Il moltiplicarsi di questi disastri, dovrebbe allarmare questi signori...
Perché mai dovrebbero allarmarsi... La cosa, pensano, capiterà ai pronipoti...
Sta già capitando anche a loro. Con il Golfo del Messico, ad esempio.
Sta di fatto che cercare di convincerli è del tutto inutile, perché la loro forma mentale, il modo in cui calcolano costi e benefici, è strutturato in quella direzione.
Lei mi conferma che l'economia è un sistema completamente autoreferenziale, che ignora la realtà...
Abbia pazienza, attendersi qualcosa di diverso da queste persone è irrazionale da parte nostra. Sono loro i costruttori di questo mondo, che dal loro punto di vista va benissimo. Uno come Warren Buffet, il primo o il secondo uomo più ricco del mondo, alcuni anni fa ha scritto ai suoi azionisti una lettera in cui diceva: «Io non so bene se esiste qualcosa come la lotta di classe, ma se esiste è chiaro che noi siamo i vincitori». Come fai a convincerli... Il problema è che qualcuno a sinistra dovrebbe muoversi, e non soltanto l'1 o il 2 per cento.
Infatti. Non sarebbe il momento per le sinistre di rendersi conto che sfruttamento del lavoro, disoccupazione, precarietà, salari inadeguati, orari insostenibili, sono parte integrante di questa realtà ? Già Marx diceva che la produzione è solo produzione per il capitale. E Napoleoni asseriva che la vita del capitale consiste essenzialmente nella crescita di sé stesso... Sono domande centrali, oggi più di ieri. Le sinistre non dovrebbero vedere l'insostenibilità di questa situazione? In fondo erano nate per battere il capitalismo, poi hanno scelto il riformismo. Forse oggi dovrebbero accorgersi che il riformismo non serve più... Sarebbe il momento buono....
Sì, ma il momento buono cominciava almeno trent'anni fa .....
Sono d'accordo, e non è cominciato... Ma serve continuare così?
Se lei mi chiede una diagnosi, le dico che le sinistre (tranne forse una quota minima della sinistra-sinistra) di quello che è successo nel mondo hanno finora capito ben poco. Perché non c'è nessuna analisi approfondita del processo di globalizzazione, che al tempo stesso è un progetto politico, economico e tecnologico. La globalizzazione per certi aspetti è stato un gigantesco progetto di politiche del lavoro, volte a portare la produzione il più possibile nei paesi dove non solo il lavoro costa meno, ma ci sono meno diritti, il problema ambiente quasi non esiste, i sindacati sono solo sulla carta o poco più. Analisi approfondite, a livello di partito, non ne abbiamo viste. Sono molto più avanti alcuni think tank liberal americani ...
Solo che poi nessuno, nemmeno autori di fama, pensa che si debba, o si possa, superare il capitalismo. Ad esempio Stiglitz, o Krugman: criticano le enormi disuguaglianze ... le condizioni tremende di certi paesi "in via di sviluppo"... Auspicano correzioni ai singoli problemi. Ma nessuno sembra supporre che il capitalismo possa avere una fine.
Senta, se mi mettessero davanti un bottone verde e uno rosso, e mi dicessero "Prema il bottone verde e il capitalismo scompare", io lo premo subito (magari dopo aver chiesto che cosa lo sostituisce). Credo tuttavia che -considerando le forze in campo e la schiacciante vittoria del neoliberismo - il massimo che oggi si possa realisticamente sperare sia un capitalismo ragionevolmente regolato. I rapporti oggi sono tali che appare già una smisurata ambizione tentare di regolare in modo pratico il capitalismo. Partendo dal terreno politico, perché è lì che bisogna intervenire.
Ma assumendo in tutta la sua portata lo squilibrio ecologico non sarebbe possibile proporre un discorso più radicale? E' un azzardo pensarlo?
E' un azzardo perché non ci sono le forze sociali. Perché il proletariato mondiale (2 miliardi e mezzo tre- miliardi di persone) nell'insieme si può anche considerare "una classe in sé". Però c'è un' enorme distanza da colmare perché diventi "una classe per sé". E ' difficile contribuire a colmare questa distanza con persone che vivono con meno di 2 dollari al giorno... Come si fa a parlare di problemi ambientali a una donna di Haiti che vede i figli morire di fame?
Però adesso in Pachistan c'è un milione e mezzo di persone in fuga dall' alluvione... Dei poveracci che il problema ambiente lo patiscono sulla propria pelle. Sono i poveri che scontano lo squilibrio dell'ecosistema... Non è proprio su questo che la sinistra potrebbe lavorare?
Sì. basta trovare dov'è questa sinistra. E bisognerebbe lavorare, sgobbare, fare un'analisi approfondita, resuscitare il pensiero critico... Ci hanno rinunciato quasi tutti. Ma è vero che la questione della disuguaglianza è tragicamente collegata all'ambiente. Anche se con quelli che non sanno cosa si mangia stasera, di ambiente è difficile discorrere.
Forse sarebbe necessario per un momento mettere da parte i problemi storici delle sinistre - lavoro, salario, casa ... - per affrontare questa aporia di una crescita produttiva illimitata in un mondo che illimitato non è. ... In questa chiave tutte le politiche tradizionali potrebbero essere riviste...
Lei con me sfonda non una porta aperta, ma un cancello. Però occorre considerare che ci troviamo di fronte a formazioni politiche che hanno drammaticamente perso la loro battaglia. D'altronde temo non basti l'esortazione, né la critica più dura. Il loro carattere sociale è stato formato in quel modo e non si può tagliare la testa al soggetto per cambiargliela. Bisogna trovare il modo di mostrargli altre cose, di insegnarli altre cose. Ma per questo mancano i think tank, mancano i politici. Ad esempio, una delle grandi questioni politiche di cui non si parla è che le enormi disuguaglianze esistenti nel mondo sono state un fattore importante sia della crisi finanziaria sia della crisi industriale, e non da ultimo della stessa crisi ecologica. La lotta alle disuguaglianze è la prima da combattere se si vuole che qualcuno ci segua anche sul terreno della politica ambientale.
Forse occorre considerare anche quello che a me pare uno dei guasti più profondi: cioè il fatto che il consumismo, l'identificazione col possesso di oggetti...e quindi la competitività, la corsa al reddito, siano causa di una corruzione mentale gravissima, che comporta poi anche la corruzione spicciola.....
Non c'è dubbio. Penso all'ultimo libro di Benjamin Barber "Consumati", che analizza l'infantilizzazione dei consumatori, addirittura il rimbecillimento, dei giovani soprattutto ma anche degli adulti. Io non parlerei però di corruzione o deformazione, userei termini come carattere sociale, come diceva Erich Fromm, per indicare un carattere molto diverso e magari opposto a quello che noi vorremmo.
E però la consapevolezza di una crisi non solo ecologica non più sopportabile, si va diffondendo, specie tra i giovani... E' gente che, magari duramente criticandole, astenendosi dal voto, fa però riferimento alle sinistre... Non sarebbe questa una base da cui partire?
Io sono scettico su posizioni di questo genere, sostenute peraltro da più d'un autore. A me sembrano una riedizione in piccolo della speranza nel soggetto rivoluzionario che sorge per forza propria. Certo esiste tra un certo numero di persone la consapevolezza del rischio ecologico, ma non basta. Occorre che questa consapevolezza entri nella politica, si faccia politica... e per questo ci vogliono le forze, ci vogliono dei voti, dei parlamentari... Mi pare che siamo ancora lontani da questi traguardi.
BIOGRAFIA
Dalla Olivetti di Ivrea
ai testi sull'Italia postindustriale
Nato a Torino nel 1927, Luciano Gallino è tra i sociologi del lavoro più autorevoli del paese, avendo contribuito, nel secondo dopoguerra, all'istituzionalizzazione della disciplina. Chiamato a Ivrea da Adriano Olivetti, che aveva incontrato a Torino nell'autunno del 1955, Gallino ha compiuto il proprio apprendistato sociologico tra il 1956 e il 1971, prima come collaboratore dell'Ufficio studi relazioni sociali costituito da Adriano Olivetti, il primo del suo genere in Italia; poi, nel periodo 1960-1971, come direttore del Servizio di ricerche sociologiche e di studi sull'organizzazione (SRSSO), che di quel primo ufficio fu una filiazione diretta. Tra il 1968 e il 1978 è stato direttore dell'Istituto di sociologia di Torino, una delle prime strutture di ricerca in questo ambito disciplinare costituite nell'università italiana. Tra gli ultimi libri pubblicati si possono ricordare: «La scomparsa dell'Italia industriale» nel 2003; «Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità» nel 2007; infine «Con i soldi degli altri. Il capitalismo per procura contro l'economia» nel 2009.
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2^ Intervista
L'economia del disastro globale
di Giorgio Lunghini - Carla Ravaioli - 29/10/2010
Fonte: Il Manifesto [scheda fonte]
Decrescita o diverso modello di sviluppo? Le contraddizioni del capitalismo, i ritardi della sinistra sulla questione ambientale, l'assuefazione a considerarci tutti consumatori. E le lungimiranti analisi dell'economista Georgescu-Rogen che già negli anni '70 rifletteva su guerra, demografia, stili di vita
La crescita del prodotto è lo strumento perseguito per il superamento della crisi. Una politica criticata dall' ambientalismo più qualificato. Tu che ne pensi?
Credo che come valore principale si dovrebbe pensare non tanto alla crescita, quanto a un diverso modello di sviluppo economico, rispettoso della natura. Tuttavia diffido della parola "decrescita", mi pare sia un errore dei sostenitori di questa tesi, peraltro preparati, agguerriti, intelligenti ... Non si tratta di decrescita, ma di adottare stili di vita diversi. Se ciò fosse tecnicamente concepibile, bisognerebbe però vedere se l'umanità è disposta ad aderire a un modello di questo genere: e questo è un problema politico.
Già, la gente ha assunto la crescita ormai come norma di vita.
Certo. Bisogna però ricordare che, per tutta la prima fase del capitalismo, la crescita è stata provvidenziale; e lo è ancora nei paesi poveri. Il superamento delle condizioni di miseria del primo capitalismo, durato in pratica tutto l'800, è stato un fatto straordinario. Quanto poi alla capacità di crescita attuale va detto che non tutto il mondo ne è capace. Alcuni paesi - Cina, India, Brasile - lo sono, e ovviamente aggravano le condizioni ambientali. Ma nel resto del mondo, il capitalismo non è nemmeno più capace di crescita.
Infatti. C'è questo doppio problema. La crescita - a parte la sua ricaduta negativa sull'ecosistema - sembra non funzionare più...
Una delle ragioni per le quali non funziona più è che negli ultimi trent'anni le modalità della crescita capitalistica hanno generato disoccupazione e disuguaglianze: i ricchi sono diventati più ricchi, i poveri più poveri ... E questo ha provocato la crisi attuale: se i redditi da lavoro sono bassi, è bassa la domanda effettiva, l'economia non cresce e i capitali si spostano sulla finanza, con i risultati che abbiamo visto.
Il capitalismo non tiene più ?
Credo proprio che lo si possa dire: lo si vede. E al fondo credo ci sia una questione su cui era stato molto chiaro Marx, quando scrive, nelle ultime pagine del III libro del Capitale, che il «processo lavorativo è soltanto un processo tra l'uomo e la natura». Se ci si riflette, qualsiasi processo produttivo, per quanto complesso, mediato da macchine, ecc., alla fine è un rapporto tra uomo e natura.
Da tempo mi domando come sia possibile che grandi economisti, imprenditori, politici (a Davos, Cernobbio, Capri...) discutano del futuro del mondo senza nemmeno nominare l'ambiente.
Come se le merci che producono non fossero fatte di natura...
Un fatto che qualsiasi persona di buon senso dovrebbe considerare ... Nelle forme primitive di economia il rapporto tra uomo e natura attraverso il lavoro era immediato ed evidente; ma anche il lavoro moderno, tecnicamente più complesso, alla fine risulta essere un rapporto, seppure mediato, tra uomo e natura. Allora si può dire che tendenzialmente si genera un conflitto tra lo sviluppo materiale della produzione e la sua forma sociale; e che così come ci sono dei limiti al saggio di sfruttamento del lavoro, oltre il quale si danno crisi economiche, così esiste un limite al saggio di sfruttamento della natura, oltre il quale si danno crisi della stessa natura.
D'altronde questa sproporzione tra disponibilità di natura e uso della medesima è un fatto recente, che appartiene al capitalismo, ma è enormemente aumentata nel dopoguerra, con la società dei consumi.
Certamente. E su questo credo si debba riflettere partendo dal pensiero di Georgescu-Roegen, un grande economista poco noto; il quale ci ricorda che anche il processo produttivo è regolato dalle leggi della termodinamica, e che per la legge dell'entropia la materia è soggetta a una dissipazione irreversibile. Ciò significa che nel lungo periodo, ma non tanto lungo, la decrescita non sarà una scelta, ma un fatto di natura: la legge della termodinamica funziona per tutti. Da ciò Georgescu non trae però conclusioni catastrofiche. Sì domanda invece: si potrebbe fare qualcosa? La sua risposta è sì: e si articola in un programma bioeconomico minimale, formulato in otto punti. Il primo afferma che dovrebbe essere proibita non solo la guerra, ma anche la produzione di ogni strumento bellico. E non solo per ragioni morali, ma perché le forze produttive così liberate potrebbero essere impiegate al fine di consentire ai paesi sottosviluppati di raggiungere rapidamente gli standard di una vita buona. Perché un progetto di diverso sviluppo deve essere condiviso a livello universale, altrimenti non può funzionare. Inoltre - afferma Georgescu - la popolazione mondiale dovrebbe ridursi fino a renderne possibile la nutrizione mediante la sola agricoltura organica. Ma oggi la questione demografica non viene nemmeno posta ...
Anzi, si lamenta la denatalità, e quindi la caduta di consumi come carrozzelle, pannolini , ecc.
Ormai dell'umanità, di tutti noi, si parla non più come di lavoratori, ma solo come di consumatori. E anche a questo proposito bisogna tenere presente che anche quando (se mai giorno verrà) le energie rinnovabili saranno davvero convenienti e sicure, i risparmi che ne avremo saranno molto minori di quanto ci si promette. Ogni spreco di energia deve dunque essere evitato: mentre normalmente noi viviamo troppo al caldo d'inverno, troppo al freddo d'estate, spingiamo l'automobile a troppa velocità, usiamo troppe lampadine ... Il programma di Georgescu dice poi molto altro: dovremmo rinunciare ai troppi prodotti inutili; liberarci dalla moda di sostituire abiti, mobili, elettrodomestici, e quanto è ancora utile; i beni durevoli devono essere ancor più durevoli e perciò riparabili. L'ultimo punto è che dobbiamo liberarci dalla frenesia del fare, e capire che requisito importante per una buona vita è l'ozio. Ozio - aggiungo io - inteso come tempo libero liberato dall'ansia e impiegato in maniera intelligente. E su questo credo non si possa non convenire, per rinviare il momento del disordine e nel frattempo vivere una vita migliore. Però, domanda politica: siamo pronti, noi per primi, ma soprattutto i potenti della terra, a fare nostro il programma di Georgescu?
Questa era la domanda che ti volevo porre. Anche perché Georgescu-Roegen scriveva negli anni '70, quando ancora il consumo non si era ancora imposto come fattore primo di definizione della vita ..
Infatti. E la cosa interessante è che il programma di Georgescu richiama un famoso scritto di Keynes (del 1930): Le prospettive economiche per i nostri nipoti. Molti di questi punti lì c'erano già: guerra, problema demografico, stili di vita, tempo libero ... Due autori di grande statura che avevano precocemente colto il punto, insistendo sulla desiderabilità di altri stili di vita... Anche se Georgescu ragiona in maniera più direttamente funzionale alla difesa della natura. Rimane comunque la domanda: siamo pronti?
Nessuno è pronto, temo. Ma, passando a un altro argomento: le sinistre sono sempre state assenti riguardo al tema ambiente, e talora su posizioni nettamente ostili. In ciò contraddicendo la loro stessa funzione, perché per lo più sono i poveri a pagare inquinamento, alluvioni, desertificazioni, tossicità diffusa ... Eppoi perché, insomma, le sinistre sono nate contro il capitalismo: non toccherebbe a loro per prime occuparsi di un problema che proprio dal capitalismo deriva?
Questa tradizione non ambientalista delle sinistre è dipesa anche da uno scarso approfondimento di questi temi. Mentre curiosamente l' hanno fatto un paio di capitalisti illuminati. Io di solito diffido della definizione di "capitalisti illuminati", tuttavia due debbo ricordarli. Uno, il senatore Giovanni Agnelli, che nei primi anni trenta sosteneva la necessità di una riduzione dell'orario di lavoro, in dura polemica con un preoccupatissimo Luigi Einaudi. L'altro, Henry Ford con la sua politica di alti salari (che molto interessò Antonio Gramsci): i lavoratori devono essere ben pagati, affinché possano comperare le merci che essi stessi producono.
Un'iniziativa che in sintesi già prefigurava la società dei consumi...
Certamente. Ma la cosa interessante è che Kojève, il grande intellettuale studioso di Hegel, russo d'origine poi approdato in Francia, diceva che Ford era il Marx del XX secolo: per aver colto la contraddizione e il rischio di lavoratori che non potevano comperare ciò che essi stessi producevano. Un tema caro anche a Claudio Napoleoni, quando diceva che il lavoratore si trova davanti, come nemico, ciò che egli stesso ha prodotto. Ford non era mica un sant'uomo, era durissimo coi sindacati, ma da un punto di vista strettamente economico aveva colto il problema. D'altronde nemmeno Keynes voleva abbattere il capitalismo: voleva farlo funzionare meglio, anzi salvarlo, come dichiarava esplicitamente. Mentre molti parlavano di lui come di un bolscevico, a cominciare proprio da Einaudi. Ma per tornare alla tua domanda circa le sinistre di oggi, la mia risposta è in interrogativo: dove sono oggi le sinistre?
Queste tante piazze piene di gente, di giovani soprattutto, queste manifestazioni sempre più frequenti, molto spesso centrate proprio su problemi ecologici: acqua, nucleare, rifiuti, distruzione di parchi, cementificazione di litorali .... Non significa nulla tutto questo? Se ci pensi, questi tanti conflitti "minori", diciamo, sono tutti riconducibili alla radice capitalista. Un'analisi in qualche misura approfondita scopre che la radice è sempre l'impianto capitalistico. Queste sinistre, possibile che non se ne accorgano? Che non vedano che questa potrebbe essere una base da cui partire?
Tutto questo è però molto frammentato, manca la sintesi, quindi manca quella che potrebbe essere la base concettuale e ideale di un progetto di sinistra ... Certo, questo dovrebbe essere il compito della sinistra: portare a sintesi tutte le istanze nobili e progressiste ... Ma questa è una sensibilità che mi pare manchi alle sinistre ... L'unico che aveva provato a ragionare di queste cose, era stato Berlinguer con il suo discorso sull'austerità. Era un discorso molto alto, che toccava proprio i temi di cui abbiamo parlato; tanto alto che non era stato capito, e letto addirittura come un invito ai compagni a tirare la cinghia.
GIORGIO LUNGHINI
Laureato all'università Bocconi di Milano, Giorgio Lunghini ha diretto per un decennio l'Istituto di economia e in seguito il Dipartimento di economia politica e metodi quantitativi all'università di Pavia, dove inoltre ha fondato il Dottorato di economia politica. Lunghini è membro direttivo del periodico "Economia Politica" e della "Rivista di storia economica". È stato membro del consiglio degli esperti economici della Presidenza del consiglio durante il governo D'Alema, e vicepresidente della Società italiana degli economisti per il triennio 2001/2004.
I suoi campi di interesse riguardano la teoria del valore, del capitale e della distribuzione, della critica dell'economia politica, come anche della teoria della crescita e dell'occupazione.
Tra le sue pubblicazioni citiamo "Valori e prezzi" (1993); "L'età dello spreco. Disoccupazione e bisogni sociali" (1995); "Riproduzione, distribuzione e crisi (1996); "Sul capitalismo contemporaneo: i nuovi compiti dello stato", scritto con M. Aglietta (2001)
> Società e politica > Il capitalismo d'oggi
3^Intervista a Guido Rossi. Crescita impossibile e fine del progresso
Autore: Ravaioli, Carla
La terza intervista (dopo quelle a Luciano Gallino e Giorgio Lunghini) sulla crisi dell’economia, che trascina con sè il pianeta, l’uomo e la società. Il manifesto, 31 ottobre 2010
La globalizzazione è in mano alle corporations. È in crisi questa società il cui unico scopo è crescere economicamente. E il capitalismo non esce dal binomio crescita-profitto. Urge una «rivoluzione», un nuovo modello di sviluppo. Ma la sinistra tutta, dopo l'89, ha smesso di pensare e di proporre una alternativa
Ripresa, rilancio della produzione, aumento del Pil, crescita... Questi sono gli strumenti insistentemente indicati da economisti, governanti, industriali, politici, per il superamento della crisi. Che ne pensa?
Il mio parere è molto preciso. Ritengo che ci sia veramente un errore di fondo nello scopo finale di tutte le politiche, che è quello del progresso economico. Come ha appena detto lei, gli economisti non pensano ad altro: aumentare produzione e produttività, a tutti i costi. Così quella che era la molla fondamentale del capitalismo, il progresso economico, è diventata molla fondamentale di tutti i sistemi; e al capitalismo di mercato si è aggiunto il capitalismo di stato. Vedi la Cina: dove accadono esattamente le stesse cose di sempre, a detrimento dei più deboli. Mentre dovunque quelli che Bobbio chiamava «diritti di seconda e terza generazione», con questa accelerazione del progresso economico a tutti i costi, vengono selvaggiamente conculcati. Come dice Robert Reich nel suo Supercapitalismo, «è stata sostituita la tutela dei diritti dei cittadini con la tutela dei consumatori». Ormai lo scopo è quello di creare sempre più benefici per i consumatori a scapito dei tradizionali diritti al posto di lavoro, alla sicurezza sul lavoro, alla pensione. Noti che lo sviluppo economico come fondamento dell'attività umana è presente anche nell'ultima enciclica di Ratzinger; in cui si sostiene che la globalizzazione serve a un progresso economico che poi si diffonde tra tutti i popoli. Che non è vero.
E non è vero che - come si dice - sono scomparse le ideologie. Di fatto se n'è creata una nuova, che ha ucciso tutte le altre.
E questo inseguimento forsennato della crescita continua mentre la crisi ecologica (conseguenza proprio di un produttivismo insostenibile, per quantità e qualità) sta toccando livelli di rischio difficilmente reversibili, come afferma l'intera comunità scientifica. Possibile che personaggi di tutto rispetto - potentissimi manager, grandi industriali, economisti di fama mondiale, ignorino tutto ciò?
Il fatto è che appunto il problema prioritario rimane sempre quello della crescita e dello sviluppo economico, a cui tutto il resto viene sacrificato. E, attenzione, vengono sacrificate non solo le questioni di cui parlava lei, ma anche problemi come la fame nel mondo. Che dal 2007 si fa sempre più grave: ora si parla di un miliardo di persone sottoalimentate; e nessuno se ne occupa. Veramente l'ideologia dello sviluppo economico cancella qualunque problema che riguardi qualità della vita e diritti umani, mentre crea guerre senza senso... Si crea una società di cui l'unico scopo è il dovere di crescere economicamente: d'altronde in base a parametri del tutto sballati, come il Pil, che non considerano affatto la qualità della vita.
Ma, anche dando per scontato che questi signori siano del tutto disinteressati al sociale, di che cosa credono siano fatti automobili, computer, cellulari, grattacieli, armi... Non gli passa par la testa che sono «fatti» di natura e che se la natura va in malora la stessa cosa capita alla loro produzione?
No, non gli viene in mente. E le spiego perché. Perché è un problema che riguarda il futuro, mentre il presente è quello della crescita, del profitto immediato...
E però anche questo viene messo a rischio dagli eventi più recenti. Quella del Golfo del Messico è una catastrofe economica quanto ambientale.
Non c'è dubbio. Anche su questo sono d'accordo. Quando arriva la catastrofe poi se ne accorgono. E allora che fanno? Insistono sugli stessi schemi che hanno provocato la catastrofe: non hanno altro in testa. La letteratura apocalittica descrive tutto questo. Alcuni libri del genere mi hanno spaventato. Come portando Clausewitx all'estremo di René Girard, il quale dice: «il riscaldamento climatico del pianeta e l'aumento della violenza sono due fenomeni assolutamente legati». E questa confusione di naturale e artificiale è forse il messaggio più forte contenuto in questi testi apocalittici. Martin Rees, grande astronomo di Cambridge, con Our final Century (Il nostro secolo finale), dubita che la razza umana riesca a sopravvivere al secolo in corso, proprio perché sta distruggendo il pianeta. E cose simili le dice anche Posner nel suo libro Catastrofe: con una popolazione mondiale che, secondo i calcoli, nel 2050 ammonterà a più di 9 miliardi di individui, ci saranno tremendi rischi di carestia: la terra non può dare più di quello che ha.
E queste cose si sanno. Ci sono anche economisti che criticano in qualche misura il capitalismo, ad esempio le grandi disuguaglianze sociali, la distanza tra lo stipendio di un manager e il salario di un operaio... Però nessuno pensa di rimettere in discussione il sistema, sperano di poterlo emendare...
Perché l'ideologia non lo permette. È una fede. Questi sono dei talebani, non può farli cambiare...
Ma il guaio è che questa sorta di riconoscimento del capitalismo come un dato di fatto immodificabile, sembrano ormai condividerlo anche a sinistra...
Certo, perché hanno scelto il riformismo, ormai quella è l'ideologia che ha vinto. Ed è un'ideologia che sta prendendo piede anche nelle religioni: non a caso ho citato l'ultima enciclica di Ratzinger.
Perché poi pensano che la crescita possa dare benessere a tutti quanti. Ma ormai è dimostrato che questo non accade. Se l'1% della popolazione del mondo detiene il 50% del prodotto...
Certo. Ma lei dimentica un'altra cosa. Che il 51%, e oramai anche più, della ricchezza mondiale è nelle mani delle grandi corporations, e a condurre l'economia non sono più gli stati: gli stati non contano più niente. Quindi chi comanda? Le grandi imprese. Hanno in mano la maggiore ricchezza del pianeta: devono sopravvivere e comandare. E allora... Guardi cosa succede alla delocalizzazione delle industrie che, pur di sopravvivere fanno di tutto, sconquassano le economie e i diritti e non gliene importa niente... L'arretramento della politica è dovuto proprio a questo fatto: che l'economia ha conquistato un predominio assoluto.
A questo punto le sinistre, che seppure faticosamente continuano a esistere, non dovrebbero considerare questa realtà, rifletterci su? Magari ricordando errori del passato; come il fatto che, per paura della disoccupazione tecnologica, il progresso l'hanno regalato al capitalismo: mentre la minaccia della crescita senza lavoro avrebbe potuto essere usata per ripensare l'intero rapporto tra produzione e vita... Ma hanno lasciato tutto in mano al capitale.
Dopotutto il progresso l'ha inventato lui... e se l'è tenuto ben stretto...
Be' per la verità l'ha inventato la scienza....
La quale è comandata dalla stessa ideologia...
Anche perché hanno bisogno di finanziamenti.... Però all'origine delle grandi trasformazioni tecnologiche c'è il pensiero di uno scienziato...
Non si può dimenticare comunque che non mancano intellettuali che discutono di queste cose... Amartya Sen ad esempio dice che non si può ridurre la democrazia al voto... che occorre una democrazia di larga discussione. E arriva a sostenere che con la discussione si eviterebbero le catastrofi naturali.
Le catastrofi naturali - come Lei ha detto con tutta chiarezza - non si evitano finché il prodotto continua a crescere. Perciò mi stupisco che neanche i pochi consapevoli della gravità della situazione ecologica, non trovino il coraggio di dire: basta crescere. Cioè basta capitalismo.
Basta capitalismo. Ma con che cosa lo si sostituisce? Nessuno ha un'idea in testa. Questa è la verità.
Eppure forse oggi non sarebbe impossibile farsela venire. La globalizzazione è un fatto che nessuno più nega. E certo esiste una globalizzazione economica ... e una globalizzazione culturale operata dai mezzi di comunicazione di massa... Ma non esiste una globalizzazione politica.
E non esiste una globalizzazione giuridica tra l'altro. Questa è a grande differenza con la globalizzazione di tipo medioevale, regolata dalla famosa Lex mercatoria, una legge elaborata dai mercanti, non da un singolo stato: e per suo mezzo il commercio funzionava. Adesso le grandi imprese lavorano tra di loro. Non c'è più una norma giuridica che ne disciplini i comportamenti: nei confronti della fame nel mondo, dello sfruttamento delle classi più povere, del lavoro minorile, della sicurezza sul lavoro che secondo Tremonti è un lusso. E ovviamente nemmeno nei confronti del pianeta.
E questo non si deve anche al fatto che una volta le sinistre facevano opposizione, e ora non la fanno più? O quanto meno la fanno solo riguardo ad alcune situazioni; le quali d'altronde non possono essere risolte a prescindere dal contesto generale. Come si diceva, la globalizzazione è una realtà governata dal grande capitale. Ma nessuno tenta di regolarla, e nemmeno di capirla. Sinistre comprese.
Ma la ragione c'è. Le sinistre hanno continuato a ragionare fino a quando esisteva il comunismo, che costituiva un'ideologia contrapposta a quella del capitalismo, e in qualche modo proponeva delle soluzioni alternative. Dopo la caduta del muro di Berlino cambia tutto. Questa è la verità. La politica sparisce, l'economia ha il sopravvento e s'impone come politica. Le sinistre accantonano il marxismo.
FASCE NOTA C'ERA IN ECONOMIA IL MODELLO SOCIALDEMOCRATICO SITEMA MISTO DI IMPRESE PUBBLICHE E PRIVATE NON SI CAPISCE PERCHE' LA SINISTRA DEMOCRATICA EUROPEA ABBIA ANCH'ESSA ABDICATO NEI CONFRONTI DEL POTERE CAPITALISTICO NEOLIBERISTA.
Dunque una sinistra organizzata di qualche peso non esiste. Però (pongo anche a Lei una domanda rivolta ai precedenti intervistati) esiste una massa di movimenti, di piccole e grosse aggregazioni di base, che in complesso, sebbene separatamente, vanno denunciando le peggio iniquità e assurdità del nostro mondo, tutte in pratica riconducibili alla logica del capitale. Pacifismo, femminismo, ambientalismo, colti magari in un solo aspetto dei singoli problemi (acqua, nucleare, Afghanistan, donne violentate, precariato giovanile, ecc. ecc.): non crede rappresentino in complesso quella che potrebbe essere la base per un grande rilancio di un'opposizione valida? Ma le sinistre non ci provano nemmeno...
Non ci provano perché manca l'ideologia unificatrice. Il marxismo è nato quando il capitalismo da mercantile è diventato industriale, e Carlo Marx ha elaborato un'ideologia completamente nuova. In questi anni, analogamente, si è verificata una nuova rivoluzione, la rivoluzione finanziaria. Contro la quale occorrerebbe una nuova ideologia.
Il brasiliano Unger, filosofo del diritto di Harvard, in un libro molto bello, Democrazia ad alta energia, dice che, invece di garantire quella finta libertà contrattuale che sta alla base della rivoluzione finanziaria, occorrerebbe un'autorità mondiale capace di imporre nuove regole, e creare così le basi di una struttura diversa, a dimensione globale.
Ecco, non le pare che le sinistre dovrebbero pensare qualcosa del genere, magari sollecitando un incontro tra i non pochi intellettuali di valore che hanno trattato la materia ... Io da tempo penso a una Bretton Woods del XXI secolo...
Ma non basta più. Vuole la mia opinione? Rischiando l'accusa di leninismo? Bisogna fare la rivoluzione. La rivoluzione russa è quella che ha cambiato l'ideologia del capitalismo industriale. Qui se non c'è una rivoluzione vera cosa si fa?
Se lei parla di rivoluzione, tutti pensano subito ai cannoni... secondo il modello storico...
Che non è più possibile, ovviamente...
Appunto. Per questo parlavo di Bretton Woods, nel senso che occorrerebbe una iniziativa a livello mondiale, con l'autorità di imporre questi problemi, che sono noti ma non vengono affrontati.
Sì, la cosa dovrebbe partire dalle Nazioni Unite, l'ho scritto più volte...
Perché l'Onu dopotutto alcuni tentativi seri li ha fatti. A proposito di ambiente, sulla fine del secolo scorso ha promosso un paio di grossi convegni, molto più efficaci dei tanti che sono seguiti... E più volte, nei suoi Rapporti sullo sviluppo umano, ha preso posizione contro il consumismo, contro il Pil come misura di benessere, contro la guerra come soluzione dei problemi... E Ban Ki Moon si è spinto fino ad auspicare un contenimento del Pil...
Be' sì. In fondo, dopo la dichiarazione dei diritti dell'Assemblea generale dell'Onu del '48, qualcosa è accaduto: come dopo la dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789. Solo qualcosa di simile potrebbe cambiare la situazione: una rivoluzione di tipo mondiale, organizzata dalle Nazioni Unite, in cui si ridefiniscano i veri diritti, i principi per una vita diversa da quella voluta dal potere economico, e quindi una vita orientata dalla politica e non dall'economia. Poi mi accuseranno di essere un utopista... Però io credo che l'utopia sia decisamente meglio dell'apocalisse: che è l'alternativa che ci aspetta.
BIOGRAFIA
Guido Rossi è stato ordinario di diritto commerciale nelle Università di Trieste, Ca' Foscari di Venezia, Pavia e Milano, ed Emerito nell'Università L. Bocconi, poi docente di Filosofia del Diritto nell'Università Vita-Salute San Raffaele. Presidente della Consob dall'81 all'82, eletto senatore per la Sinistra Indipendente nella X Legislatura (1987- 1992), ha promosso le legislazioni antitrust, sulle Opa e sull'insider trading. Nell'89 ha sovrinteso ad operazioni finanziarie come l'acquisizione del Credito Bergamasco da parte del Crédit Lyonnais. È stato alla presidenza Ferfin-Montedison, e in seguito una prima volta alla guida della Telecom Italia. Ha tutelato per un anno gli interessi della banca olandese Abn Amro. Nel maggio 2006 è diventato, in seguito a «Calciopoli», commissario straordinario della Federazione Calcio. Vi rimarrà solo tre mesi. Il 15 settembre 2006, dopo le dimissioni di Marco Tronchetti Provera, viene nominato di nuovo presidente di Telecom Italia, incarico che lascerà nell'aprile 2007. Nel 2008 è consulente della Fiat nel tentativo di rilanciare la società in crisi. È direttore della Rivista delle Società dal 1975. È autore di diversi volumi tra i quali «Trasparenze e vergogna. Le società e la borsa», Il Saggiatore, 1982; «Il ratto del Sabine», Adelphi, «Il conflitto epidemico», Adelphi; «Capitalismo opaco» (con Federico Rampini), Laterza, 2005; «Il gioco delle regole», Adelphi, 2006, «Il mercato d'azzardo», Adelphi, 2008; «Perché filosofia», Editrice San Raffaele, 2008.
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