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GLOBALIZZAZIONE SOLIDALE

TITOLO

I nuovi consumatori Paesi emergenti tra consumo e sostenibilità Norman Myers, Jennifer Kent da edizioni ambiente nov 2004

DATA PUBBLICAZIONE

08/01/2005

LUOGO

Edizioni Ambiente


Fin dalle prime pagine di I nuovi consumatori si intuisce che una delle
convinzioni più radicate nella nostra società ha finito il suo tempo: chi
ancora pensa che i superconsumi siano un privilegio esclusivo del mondo
occidentale è su una pista sbagliata. Il look firmato, le fuoriserie
fiammanti, i grandi shopping center e gli status symbol in voga a Parigi,
New York, Londra o Milano sono oggi gli stessi di Città del Messico,
Shangai o Johannesburg. In meno di due decenni la mappa dell'affluenza si
è allargata a latitudini e longitudini inattese, inseguendo un pattern
geografico a macchia di leopardo. Lo stile di vita del mondo
industrializzato ha attecchito laddove si è creata nuova ricchezza, e con
esso è esplosa - accanto alle costanti della povertà e della
sottoalimentazione - la ricerca di consumi sempre maggiori. Gli autori
hanno analizzato venti paesi "in transizione economica" (Cina e India in
testa) nei quali, nell'ultimo decennio, si è andato formando un forte ceto
medio, dotato di notevole potere d'acquisto. Questa popolazione di nuovi
consumatori viene valutata, al 2000, in 1,1 miliardi di persone, contro
gli 850 milioni di consumatori del mondo occidentale "ricco", i quali
ovviamente mantengono livelli di affluenza molto superiori. Gli evidenti
vantaggi offerti dallo sviluppo alle popolazioni uscite dalla povertà
hanno però un inevitabile rovescio della medaglia, individuabile in una
lunga serie di problemi sociali e ambientali. È esemplare il caso della
Cina. Al suo rapidissimo sviluppo industriale corrispondono la galoppante
desertificazione dei suoli agricoli, la penuria idrica, l'aria
irrespirabile delle zone urbane, la crescente dipendenza dalle
importazioni alimentari. Gli autori si augurano che queste nuove,
emergenti economie sappiano valutare e programmare modelli di crescita
economica profondamente diversi da quelli occidentali. La parte più
industrializzata del pianeta, che ha già commesso l'errore di escludere
l'ambiente dalla nozione di "ricchezza", non si presenta certo con le
carte in regola per impartire lezioni di moderazione. Ma qualcosa si può
fare per promuovere stili di vita più attenti ai veri valori della
civiltà: Myers e Kent raccontano come. Norman Myers è uno dei massimi
analisti ambientali a livello mondiale. Insegna alla Duke University (USA)
ed è membro straniero della National Academy of Sciences degli Stati
Uniti. Jennifer Kent è ricercatrice specializzata in studi ambientali
interdisciplinari. Collabora da anni con Norman Myers.

Fare la differenza, a livello personale

Che cosa si può fare per rallentare la corsa dei consumi? Questo libro
tratta di coloro che per la prima volta si avvicinano a consumi di
notevole entità, consumatori che certamente si rifiuteranno di comportarsi
in modo diverso fino a quando le popolazioni tradizionalmente ricche non
cambieranno registro. Cerchiamo di capire allora quali considerazioni
valgono per la società consumista per eccellenza, ossia gli Stati Uniti
(ma questo vale anche per altre come la Gran Bretagna, la Germania, il
Giappone e via discorrendo). Se è vero che due persone su tre sono
favorevoli a dare il loro personale contributo al risparmio energetico e a
qualsiasi altra iniziativa utile per la protezione dell'ambiente, allora
ogni singolo americano potrebbe fare la famosa differenza. Essi possono
combattere il drago dei superconsumi, o almeno metterlo a dieta. Chiunque
può dare una mano, ed è proprio di questo che c'è bisogno. Infatti, si
possono introdurre nello stile di vita personale alcuni aggiustamenti: .
Ridurre di almeno 30 km alla settimana l'uso dell'auto, ricorrendo alle
telecomunicazioni o alla bicicletta, oppure concentrando nel tempo le
commissioni da sbrigare: le emissioni personali di CO2 si ridurranno di
500 kg all'anno (con un risparmio di almeno 130 dollari). . Eliminare un
pasto settimanale a base di carne rossa: ogni anno si risparmieranno oltre
30 kg di cereali e 40.000 galloni di acqua (risparmiando altri 75
dollari). . Ridurre il consumo domestico di energia elettrica sostituendo
le lampade tradizionali con i modelli fluorescenti ad alta efficienza, e
tarando il termostato dell'impianto di riscaldamento /condizionamento su
una temperatura di un grado inferiore durante l'inverno e di un grado
superiore durante l'estate: questo consente di ridurre le emissioni di CO2
di almeno una tonnellata all'anno e le spese di 165 dollari. . Installare
docce e rubinetti efficienti e a basso flusso con un risparmio per
famiglia di almeno 30.000 galloni di acqua, e minori emissioni annue di
800 kg di CO2 (più un risparmio di 50 dollari). Fin qui si sarebbero già
risparmiati 425 dollari all'anno. Se una famiglia mettesse in atto altre
misure analoghe, come previsto dal programma Turn the Tide del Center for
a New American Dream (www.newdream.org/turnthetide), risparmierebbe una
somma sufficiente a pagare una piacevole vacanza di fine anno. Infine, si
possono invitare due amici a comportarsi allo stesso modo, e convincerli a
fare la stessa cosa con altri due, e così via. Se per assurdo questa
catena si realizzasse, in circa un mese tutti gli Stati Uniti ne sarebbero
coinvolti. (.) È bene ricordare che viviamo non solo in una democrazia
politica, ma anche in una democrazia economica, e che la seconda permette
a ognuno di noi di "votare" molte volte al giorno. Chi non lo fa, vota
comunque e inconsapevolmente per lo stesso sistema disfunzionale che oggi
vediamo inceppato. Dunque impariamo a utilizzare ogni singola banconota
per i giusti fini. E non ci si stupisca se i piccoli contributi personali
per il cambiamento del mondo a loro volta ci faranno cambiare. Un grande
vantaggio delle iniziative che abbiamo proposto è che consentono di uscire
dal senso di paralisi che nasce dal prendere atto della miriade di
problemi che emergono su ogni fronte. Oltre a mettere in atto
l'antishopping, si possono fare molte altre cose, come ripromettersi di
piantare un albero all'anno. È vero che se un milione di persone
mantenessero questa promessa, ciò non farebbe alcuna differenza in termini
di riscaldamento globale. Ma la differenza potrebbe riguardare il modo di
percepire se stessi. Andare a scavare, sporcarsi le mani, prendersi cura
di una piccola pianta, può servire per dare un bel voto a se stessi e fare
un omaggio al pianeta. Ricordiamoci di quel contestatore, al quale un
politico obiettò che il suo cartello non l'avrebbe convinto a diventare
come lui. "Certo che no", fu la risposta del contestatore "ma almeno
eviterà che sia io a diventare come te" In quali altri modi si può fare la
differenza? Ci si può impegnare nel volontariato a favore dell'ambiente,
per controbilanciare l'impatto del proprio stile di vita. In Olanda il
lavoro assommato dei volontari equivale a 450.000 occupazioni a tempo
pieno (in un paese in cui la forza lavoro è di soli 6 milioni di unità)
per un valore di circa 14 miliardi di dollari all' anno, quasi 1.000
dollari per ogni cittadino. Nella Corea del Sud (paese di nuovo consumo)
ogni anno circa 4 milioni di persone dedicano oltre 450 milioni di ore del
proprio tempo ad attività di volontariato: in termini monetari, più di 2
miliardi di dollari, o 40 dollari pro capite. In Brasile (altro paese
nuovo consumatore) almeno un adulto su sei è impegnato nel volontariato
per parte del suo tempo. (.) Chi è interessato a fare di più, può sempre
aderire alla strategia della voluntary simplicity, che invita a modificare
il proprio stile di vita evitando le scelte dispendiose e ispirandosi
appunto alla semplicità. All'inizio degli anni '90 milioni di lavoratori
americani, fra cui molti dirigenti e professionisti (uno su dieci), hanno
chiesto ai datori di lavoro una riduzione dell'orario, ovviamente con
minori retribuzioni, per avere più tempo libero da dedicare alla famiglia
e agli amici e per godersi la vita. L 'iniziativa ha riscosso un tale
successo che, un anno dopo, molti di loro hanno chiesto un'ulteriore
riduzione dell'orario lavorativo. Naturalmente l' iniziativa ha coinvolto
solo una piccola frazione della popolazione americana, ma in fondo anche i
sostenitori dei diritti civili o coloro che si sono opposti alla guerra in
Vietnam rappresentano una parte minoritaria degli americani. La stessa
cosa sta accadendo in Gran Bretagna, dove milioni di persone stanche del
"guadagnare sempre di più per spendere sempre di più", e in netta
controtendenza rispetto alla cultura prevalente, hanno rinunciato a
occupazioni ben retribuite. Nel 2003 un ministro ha abbandonato una
prestigiosa carriera politica (era in corsa come Premier) per passare più
tempo in famiglia. Altri due alti funzionari pubblici avevano già fatto
una scelta analoga. La voluntary simplicity riscuote un notevole successo
fra i cosiddetti "creativi culturali": negli Stati Uniti esistono 50
milioni di persone che si riconoscono in questa etichetta (un adulto su
quattro) e in Europa anche di più (un adulto su tre). Essi aderiscono a
principi fortemente ambientalisti, badano molto alle relazioni sociali,
ritengono fondamentale lo sviluppo psicologico e spirituale degli
individui, ma soprattutto rinnegano in modo assoluto il consumismo. La
loro attenzione è rivolta alle energie rinnovabili, ai prodotti che si
basano su un uso efficiente delle risorse, ai trasporti alternativi, alla
protezione della natura, agli alimenti biologici, alle medicine
alternative, agli investimenti responsabili, all'ecoturismo e allo studio.
Inoltre guardano la TV circa la metà della media, ma ascoltano la radio il
doppio della media, leggono libri e riviste e navigano in Internet. Fanno
parte di questo gruppo i 30 milioni di americani che praticano yoga (erano
4 milioni nel 1990). Due terzi dei creativi culturali sono donne. ( di
Norman Myers )

La definizione di nuovi consumatori

Prima di esaminare il livello di ricchezza che definisce i nuovi
consumatori, analizziamo un paio di fattori economici indispensabili al
ragionamento. Prima di tutto ricordiamo lo storico parametro del Prodotto
Nazionale Lordo (PNL), che riflette il valore economico di tutte le merci
e i servizi prodotti da un paese, e che serve da indicatore (molto
approssimativo) della condizione dei suoi cittadini. Per queste
misurazioni, negli anni più recenti il PNL è stato largamente soppiantato
da un altro indicatore economico più efficace: il Reddito Nazionale Lordo
(RNL). Ma PNL e RNL vengono tradizionalmente espressi in dollari, cosa che
non esprime il reale potere d'acquisto di un paese; un metodo alternativo
e più vicino al vero è quello di ricorrere al parametro della "Parità di
Potere d' Acquisto" (PPA) espressa in dollari, che nei venti paesi
selezionati è da 1,4 a 5,2 volte superiore al dollaro stesso. In India,
per esempio, nel 2002 l'RNL era di soli 480 dollari, ma il PPA era di
2.570, fatto che riflette il minor costo di merci e servizi di quel paese
rispetto agli Stati Uniti. In altre parole, con 480 dollari in India si
acquista ciò che negli USA costerebbe quasi 2.600 dollari: infatti se in
un supermercato di New York una banana costa 25 cent, a Nuova Delhi con la
stessa cifra se ne acquistano sei; e una corsa in taxi nelle stesse due
città ha una differenza ancora superiore. Il parametro PPA fornisce dunque
un buon indicatore del benessere, paragonabile da nazione a nazione e
privo delle distorsioni di cambio e di prezzo che si generano quando il
reddito nazionale viene convertito ai cambi correnti. Sempre nel 2002 le
cifre pro capite erano di 940 dollari (PNL) contro 4.390 (PPA) per la
Cina; 2.850 dollari contro 7.250 per il Brasile; 2.850 dollari (RNL)
contro 7.250 (PPA) per la Russia. Di contro in molti paesi europei e in
Giappone, che hanno un costo della vita superiore a quello degli Stati
Uniti, l'RNL riportato ai valori PPA può essere inferiore all'RNL
convertito ai valori di cambio del dollaro. (.) Ma torniamo alla
definizione di nuovi consumatori. Sono persone che fanno parte di una
famiglia media di quattro persone con un potere d'acquisto di almeno
10.000 dollari PPA annui (o 2.500 dollari PPA pro capite). Queste cifre
arrotondate possono sembrare molto arbitrarie, ma non sono diverse dalle
categorie stabilite per le nazioni industrializzate, che da molto tempo
suddividono i propri cittadini in classi sociali definite A,B,C e così via
fino alla F, corrispondenti grossomodo ai ricchi, alla classe media
superiore, alla classe media inferiore, e via via alle classi più basse.
Anche se sembrano categorie inventate dal nulla, derivano da analisi
attente e necessarie per le statistiche nazionali. Ci sono altre
considerazioni che sostengono le cifre stabilite per definire i nuovi
consumatori. Poiché sono un po' troppo tecniche per essere riportate qui,
rimandiamo il lettore interessato all'appendice A. Utilizziamo qui solo le
cifre che delineano la soglia al di sopra della quale la gente comincia ad
avere uno stile di vita da classe media. Via via che salgono la scala dei
redditi, queste persone acquistano televisioni, frigoriferi, lavatrici,
condizionatori, apparecchiature hi-fi e computer e tanti altri prodotti
che simboleggiano uno stile di vita affluente. Consumano molta carne
(soprattutto da animali allevati a cereali) e usano grandi quantità di
acqua (per uso personale e per irrigazione), e intanto acquistano anche
automobili alla moda. Molti dei loro consumi esercitano impatti modesti
sull'ambiente, ma gli elettrodomestici, le auto e la carne generano
problemi gravi per l'ambiente. (.) Sicuramente i modelli di consumo
variano molto da paese a paese, e variano ancora di più a seconda dei
redditi e del potere di acquisto. Il quadro presentato e derivato dagli
studi compiuti negli ultimi 40 anni dal primo autore di questo libro
servono a dare un'immagine generale dei paesi nuovi consumatori:
un'immagine certamente semplificata, ma non semplicistica. Le stime dei
10.000 dollari PPA (o 2.500 pro capite) rispondono alle evidenze
riscontrate sul campo e sembrano accettabili per i nostri propositi.
Inoltre, e questo è un punto importante, si tratta dei livelli minimi
presi in considerazione, poiché gran parte dei nuovi consumatori hanno
redditi spesso moltiplicati di parecchie volte. Questo fattore riflette la
cosiddetta asimmetricità della curva dei redditi. Ci sono più persone che
entrano nella fascia dell'affluenza di quel che le statistiche sul reddito
nazionale pro capite suggerirebbero, così come molte persone hanno a
disposizione meno della quota pro capite assegnata da quelle stesse
statistiche. In 16 dei 20 paesi nuovi consumatori, un quinto della
popolazione si spartisce più della metà dei redditi nazionali (e in tutti
i paesi considerati due quinti della popolazione ha a disposizione più dei
tre quinti dei redditi). In Brasile, alla fine degli anni '90, il 40%
della popolazione posizionata nella parte più alta della classifica si
spartiva l' 82% dell'RNL, mentre il 40% più in basso aveva a disposizione
solo l'8%. In Sud Africa le cifre erano dell'83% contro l'8%. In Russia,
il 74% e il 13%; negli USA il 69% e il 16%. Invece in Corea del Sud,
Pakistan, Indonesia e Polonia, il 40% più alto in classifica aveva a
disposizione il 62%, in Ucraina il 61%. Inoltre, sempre negli anni '90, in
10 paesi il 20% della cittadinanza in cima alla scala mostrava una
crescente concentrazione dei redditi, e dunque dei consumi. In Polonia nel
1992 questo gruppo aveva il 37% dell'RNL, che diventava il 40% nel 1998;
in India, nel 1991 aveva il 41% che diventava il 46% nel 1997; in Cina,
nel 1990 aveva il 42% che diventava il 47% nel 1998. Di contro, in alcune
nazioni che accusavano pesanti problemi economici si mostrava un fenomeno
inverso, come in Corea del Sud, Thailandia, Brasile, Venezuela e Russia.

L'auto in cifre

I neoconsumatori guidavano 125 milioni di auto nel 2000; erano 63 milioni
nel 1990 e si prevede che diventeranno almeno 245 milioni nel 2045. Negli
anni '80, quando Brasile, Messico, Malesia e altri tra i più affluenti
paesi neoconsumatori hanno raggiunto i livelli di reddito che negli anni
'50 caratterizzavano nazioni come Francia, Germania e Italia, le auto
ammontavano a 50 ogni mille persone, vale a dire il doppio di quanto si
registrava nei paesi europei degli anni '50. In tal modo l'auto rispecchia
l 'anomala affluenza dei neoconsumatori. In più, la flotta circolante dei
neoconsumatori si va espandendo più velocemente delle loro stesse economie
nazionali. Tra 1990 e 2000, l' economia sud coreana è cresciuta di almeno
un 75%, ma nello stesso periodo le auto in circolazione sono triplicate. A
ulteriore prova del crescente potere d'acquisto dei nuovi consumatori, la
Thailandia ha uno dei numeri pro capite più elevati di auto di lusso,
mentre la Cina rappresenta il maggiore mercato al di fuori della Germania
per il marchio Mercedes. Una storia analoga hanno anche Brasile, Messico,
Turchia e Polonia. Nel 2000 il Brasile era il primo proprietario di
automobili di tutti i venti paesi nuovi consumatori, con 23 milioni di
unità, seguito dalla Russia con 20 milioni. Nonostante il dato
complessivo, in Russia, che ha una popolazione almeno doppia a quella
tedesca, in termini di auto nuove si è venduto un quarto di quanto si è
venduto nella stessa Germania, benché nel triennio 1998-2000 il numero
delle auto circolanti in Russia sia aumentato del 30%. Le altre maggiori
nazioni di automobilisti erano il Messico, con 10,5 milioni, e la Polonia,
con 10 milioni, seguite dalla Corea del Sud, con 8,5 milioni, e dalla
Cina, con 8 milioni. La flotta globale di auto contava 560 milioni di
unità e per un quinto circolava in paesi nuovi consumatori, a significare
che il totale di questi paesi era pari al 75% di quello degli Stati Uniti.
Il Pakistan aveva solo 5 auto ogni 1000 abitanti, l'India 6, la Cina 7,
mentre Russia e Argentina ne avevano 140, Malesia e Sud Corea 180, Polonia
260 (gli USA 620, se nel conteggio includiamo i SUV). Ciò che conta più di
tutto è il numero di auto ogni 1000 nuovi consumatori. In questa
classifica l'Ucraina ottiene il risultato più alto con 458 auto, benché i
nuovi consumatori siano meno di uno su quattro. A controbilanciare questo
dato c'è il fatto che buona parte delle auto in circolazione in Ucraina
sono vecchie. Seconda in questa classifica si piazza la Malesia con 350,
seguita dal Brasile con 314 e dalla Russia con 300. L'Indonesia ne conta
solo 48, l'India 46, le Filippine e la Cina meno di 30 ciascuna. Numerosi
paesi hanno registrato sensazionali aumenti del numero di auto durante gli
anni '90. La flotta circolante in Cina è cresciuta del 400%, passando da
1,6 a 8 milioni (comunque meno di quella della grande Los Angeles); in
India la crescita è stata del 205%, da 2 a 6,1 milioni (sempre meno di
quella della grande Chicago); in Colombia c'è stato un incremento del
217%, da 0,6 a 8,5 milioni, e in Sud Corea del 305%, da 2,1 a 8,5 milioni.
Per contro, in USA il totale è cresciuto solo del 15%, ovvero da 152 a 175
milioni, principalmente perché il paese si avvicina alla "saturazione
automobilistica". L'intera popolazione USA potrebbe oggi accomodarsi in
auto, senza nessuno nei sedili posteriori. Questi tassi di crescita
ultrarapidi fanno chiaramente presagire ciò che potrebbe accadere al
numero di auto quando nelle altre nazioni di nuovo consumo le classi
affluenti inizieranno ad accrescere la propria consistenza numerica e la
propria ricchezza. Con la sua economia in rapida crescita e la sua ancor
più crescente classe media, la Cina sembra prepararsi ad espandere la
flotta automobilistica nazionale a una velocità senza precedenti, e di
fatto ciò rientra nelle priorità ufficiali del governo. La produzione di
auto è cresciuta di 8 volte durante gli anni '90. Se la Cina mantenesse un
tasso annuo di crescita economica pro capite anche solo del 7%, invece del
10% degli anni '90, e a ciò unisse un tasso di crescita del 18% del parco
veicolare, la sua flotta di 8 milioni di auto del 2000 potrebbe
quintuplicarsi prima del 2010. Il paese quindi si troverebbe ad avere 42
milioni di auto circolanti, le stesse della Germania di oggi. E
arriverebbe così a 70 auto ogni 1.000 nuovi consumatori (un valore
comunque molto lontano dall'attuale rapporto 620/1.000 degli Stati Uniti).
Dati gli ulteriori nuovi consumatori che si prevede arriveranno, e data
anche la loro maggiore affluenza rispetto ai nuovi consumatori di oggi, in
Cina il tasso annuale di espansione del parco veicolare potrebbe essere
ancora più alto. Guardando ancora più a avanti e supponendo che la Cina
diventi la potenza economica leader a livello mondiale entro il 2020, il
totale delle auto entro quella data potrebbe sorpassare i 170 milioni.
Tutto questo naturalmente dipende dalla possibilità che i recenti trend si
mantengano ancora per molti anni, ricordando un avvertimento: le
proiezioni non sono previsioni, e ancor meno sono delle profezie. Lo
stesso modello si adatta molto anche all'India del decennio in corso. Con
un tasso annuo di crescita economica pro capite stimato intorno al 6%, e
un incremento del numero di auto analogo a quello negli anni '90, ossia
del 12% l'anno, il totale può facilmente crescere dai 6 milioni del 2000 a
19 milioni nel 2010, benché ciò significhi ancora solamente 76 auto ogni
1.000 nuovi consumatori. In Messico il numero di veicoli a motore per
1.000 nuovi consumatori equivaleva a un quarto di quello USA nel 2000, ma
si prevede un balzo fino al 50% durante il decennio in corso. Andiamo
oltre: si consideri il numero di automobili in rapporto alla crescita del
reddito pro capite, sulla base dei trend che hanno caratterizzato Cina,
India, Corea del Sud, Malesia e alcune nazioni latinoamericane (che di
volta in volta hanno seguito quelli europei o anche statunitensi).
L'indice "GNI intensity of car ownership" (intensità di possesso dell'auto
in rapporto all'RNL) sta crescendo soprattutto in Asia. In diverse nazioni
l'RNL raddoppia e il numero di auto va anche oltre questo incremento, come
avvenne in Giappone, dove nel periodo 1965-75 il PIL pro capite raddoppiò
e le auto pro capite quadruplicarono. In breve, nei paesi nuovi
consumatori la cultura dell'auto sta innestando una marcia alta. Negli
anni '90 la flotta di auto delle 10 nazioni asiatiche ha fatto un balzo
del 176%, fino a 37 milioni di auto, mentre la crescita delle flotte delle
5 nazioni latinoamericane era del 71%, toccando i 43 milioni di unità. Il
numero di auto in Turchia e nei tre paesi dell'Est europeo è cresciuto del
97%, per un totale di 41 milioni. Il corrispondente dato in Sud Africa era
del solo 21% per un totale di 4,1 milioni. ( di Norman Myers )

L'economia della carne

La dieta a base di carne produce costi che vanno ben oltre ciò che si paga
al ristorante o dal macellaio. La rivoluzione dell'alimentazione tende a
provocare un forte impatto nelle zone coltivate a cereali, in termini di
erosione del suolo e altre forme di deterioramento della terra. La domanda
di nuovi pascoli da destinare a bestiame può inoltre arrivare a pesare in
modo determinante sulle foreste e sugli habitat naturali. A ciò si
aggiunga che il bestiame può essere ecologicamente molto costoso in
termini di gas serra. I bovini e gli altri ruminanti generano metano nella
misura di un sesto delle emissioni globali, una frazione che probabilmente
è destinata a salire parallelamente all'incremento dei consumi di carne.
Vanno inoltre considerati anche i rifiuti organici dell'allevamento, che
giocano un ruolo importante nell'inquinamento delle acque, nelle
esplosioni algali e nelle morie di pesci. Negli Stati Uniti l'inquinamento
organico prodotto dalla zootecnia è 130 volte maggiore di quello prodotto
dalla popolazione umana. E al primo posto di questa serie di problemi,
vanno considerati anche gli effetti che una dieta ricca di grassi e
calorie esercita sulla salute: l'alimentazione fondata sulla carne
danneggia le arterie e può essere la causa di morte prematura. Ci si
dovrebbe gettare nelle scorpacciate di carne ricordando che mangiando quel
cibo si stanno mangiando in realtà anche cereali, perché molta carne viene
prodotta grazie ad essi. Il sistema di allevamento in feedlot (ambiente
confinato per l'allevamento intensivo del bestiame, ndt) sta prendendo
piede in Cina, Filippine, Brasile e nella maggior parte dei paesi
neoconsumatori. Dal momento che i pascoli sono stati sovrasfruttati in
quasi tutto il mondo, l'allevamento in feedlot diventerà sempre più
significativo. E infatti i dati dicono che è il sistema a più rapida
espansione negli allevamenti di molti paesi. La Cina oggi destina quasi un
quarto dei suoi cereali al bestiame, il Brasile e l'Arabia Saudita più
della metà. In nove dei venti paesi di nuovo consumo i cereali trasformati
in mangimi raggiungono i due quinti sul totale. Si tratta certamente di
quantitativi immensi per paesi in via di sviluppo, sempre ricordando però
che negli USA la quota è di due terzi. Nei due ultimi decenni il Messico
ha visto salire al 41% la percentuale di cereali destinati
all'allevamento. Un chilogrammo di carne bovina prodotta in feedlot può
richiedere 7 kg di cereali, quella di maiale 4 kg e quella di pollo 2 kg,
il che rende la carne bovina molto più costosa delle altre. Il rapporto
fra carne e cereali indica che il feedlot è un metodo molto inefficiente
per produrre proteine. Un campo di un ettaro a cereali produce 5 volte più
proteine dirette che proteine indirette attraverso l'allevamento. Il manzo
contenuto in un hamburger equivale grossomodo a cinque filoni di pane.
Inconsapevoli di questo, i nuovi consumatori preferiscono mangiare carne
che avrà un forte impatto sui paesi che dipendono dai cereali che
importano. In Colombia le importazioni di cereali corrispondono a circa la
metà del fabbisogno totale, in Venezuela ai due terzi, in Corea del Sud,
Malesia e Arabia Saudita ai tre quarti. Dei 20 paesi, nove importano più
di un quinto dei cereali che sono loro necessari, e altri sei importano
quantitativi significativi (Cina, India e Pakistan ne importano
relativamente pochi, mentre Argentina e Thailandia sono buoni
esportatori). Le Filippine importano il 27% dei cereali che consumano,
eppure riservano una quota analoga all'allevamento, mentre per il Brasile
le due percentuali sono rispettivamente del 21% e 54%. Queste importazioni
producono una pressione sui mercati cerealicoli internazionali a danno dei
paesi poveri che non possono affrontare prezzi alti. Ma ciò che è peggio è
che la pressione può aumentare fino a un certo punto, dopo di che la
produzione di cereali globale non è più in grado di soddisfare la domanda.
Nel triennio 2000-2002 il raccolto mondiale è sceso al di sotto dei
consumi, portando le riserve cerealicole al livello più basso degli ultimi
tre decenni. La reazione è stata un incremento del 30% dei prezzi del
grano e del mais. Nel frattempo la popolazione mondiale è cresciuta di
oltre 80 milioni di persone l'anno, e la domanda mondiale di cereali è
salita di 16 milioni di tonnellate annue. L'aritmetica dei cereali è la
seguente. Il raccolto globale ruota attorno ai 1.900 milioni di tonnellate
l'anno, di cui 340 milioni sono prodotti rispettivamente sia in Cina che
negli Stati Uniti, e 200 milioni in India. I cereali commercializzati a
livello mondiale ammontano a 300 milioni di tonnellate annue, di cui 90
milioni provenienti dagli Stati Uniti (venduti o donati a oltre 100
paesi). Molte nazioni e circa un miliardo di persone potrebbero trovarsi
gravemente minacciati dalla morsa del mercato. Il raccolto globale di
cereali del 2003 è stato inferiore ai consumi di ben 93 milioni di
tonnellate (nel 2001 di 16 milioni), facendo calare gli stock di riserva
al livello più basso degli ultimi 30 anni. Ma torniamo alla Cina, che
destina un quarto della sua produzione cerealicola al bestiame: il doppio
rispetto al 1980. Se il trend relativo alla carne continuerà e se la
crescita demografica di 8 milioni l'anno richiederà più cereali come fonte
diretta di cibo, la Cina potrebbe dover dipendere dalle importazioni per
un decimo dei suoi consumi (o forse due decimi), diventando il principale
importatore del mondo. L'India è un altro paese che non importa né esporta
cereali in quantità significative, ma entro il 2020 potrebbe trovarsi ad
affrontare una scarsità di granaglie pari a un quarto dei consumi
previsti. Questo la farebbe diventare il secondo importatore mondiale: in
pratica, Cina e India necessiterebbero di quasi il triplo dei cereali oggi
esportati dagli USA. A prescindere dagli aspetti economici delle
importazioni, il consumo di carne va analizzato anche sotto il profilo
sociale. Grandi quantitativi di cereali per il bestiame si traducono in
una diminuzione di cereali per le popolazioni povere. Un vegetariano
consuma 200 kg di cereali l'anno, mentre una persona sottonutrita ne
consuma almeno 40 in meno. Soltanto un decimo degli 85 milioni di
tonnellate di cereali che la Cina ha destinato al bestiame nel 2000 è
servito a migliorare l'alimentazione dei suoi 120 milioni di sottonutriti
(quasi il 20% della popolazione). Nelle Filippine è sottonutrita una
persona su cinque, ma nel 2000 quattro milioni di tonnellate di cereali
hanno preso la via dell'allevamento del bestiame: per risolvere le
necessità alimentari di base dei 17 milioni di malnutriti del paese ne
sarebbe bastato un decimo. Altri grandi importatori di cereali e
consumatori di carne sono il Brasile (17 milioni di sottonutriti: 1
persona su 10), la Colombia (5,6, milioni di sottonutriti: 1 persona su
8), e il Venezuela (quasi 5 milioni di sottonutriti: 1 persona su 5). In
particolare va osservato il ruolo internazionale degli USA, che esportano
il 25% dei cereali prodotti e contribuiscono a un terzo di tutte le
esportazioni. Buona parte di questi cereali va agli allevamenti e non alle
persone che soffrono la fame. Il Governo statunitense ha incoraggiato per
molto tempo, attraverso i programmi di aiuto internazionale, l'espansione
dei mercati dei mangimi cerealicoli, proprio perché questi assorbissero le
sue esportazioni. Nel mondo, su cinque bambini affamati, quattro vivono in
paesi caratterizzati da surplus di alimenti, parte del quale è costituito
da cereali destinati all'allevamento. Che cosa si deve prevedere per il
futuro? Entro il 2020 (e rispetto al 1997) il mondo in via di sviluppo -
le cui popolazioni oggi risiedono per tre quarti in 17 paesi di nuovo
consumo - aumenterà prevedibilmente del 50% la domanda di cereali
complessiva, del 39% la domanda di cereali per l' alimentazione umana,
dell'85% quella per l'allevamento, e del 92% la domanda di carne. Ciò
corrisponderà a un incremento di circa l'86% della domanda globale di
cereali e carne. ( di Norman Myers )

L'elettricità nelle case

È probabile che la domanda mondiale di elettricità cresca del 75% entro il
2025; il 90% di questa elettricità aggiuntiva sarà prodotta a partire da
combustibili fossili, con la relativa emissione di inquinanti, in
particolare CO2. Il grosso di questa crescita si prevede avverrà in appena
sette paesi leader dei nuovi consumatori: Cina, India, Sud Corea,
Indonesia, Messico, Brasile e Russia. Una percentuale compresa tra un
ottavo e un quarto dell'elettricità consumata oggi in tutti i paesi nuovi
consumatori riguarda le utenze domestiche. A sua volta, la maggior parte
del consumo domestico di elettricità - quasi tutta derivata da
combustibili fossili - avviene nel momento in cui i nuovi consumatori sono
in grado di acquisire, tra le altre prerogative di uno stile di vita
affluente, apparecchiature come frigoriferi, congelatori, condizionatori,
lavatrici, asciugatrici, forni a microonde, oltre a televisioni, computer
e videoregistratori. Come nel caso delle auto, anche le apparecchiature
domestiche in molti paesi sono viste come lo status symbol dei nuovi
ricchi. Le stesse considerazioni valgono per l'inquinamento derivante
dall'impiego dei combustibili fossili. A livello locale le conseguenze
sono, tra l'altro, piogge acide e smog urbano. A livello mondiale, e in
modo molto più significativo sul lungo periodo, le emissioni di CO2 sono
di gran lunga la principale causa del processo di riscaldamento globale.
Anche se tali emissioni nei paesi che hanno scoperto il consumismo non
sono nemmeno lontanamente paragonabili a quelle dei paesi ricchi, sia su
base nazionale che pro capite, sono comunque considerevoli e in rapida
crescita. Nel 2001 la Cina era responsabile di oltre 12% delle emissioni
globali di CO2 da combustibili fossili, conquistando il posto di secondo
"emettitore" globale dietro gli USA (titolari di una percentuale doppia).
Molto più indietro, al terzo posto, la Russia con un 7%, e l'India al
quinto posto (4%). Queste tre sole nazioni sono dunque titolari del 23%
delle emissioni globali: un po' meno di quelle americane, benché si tratti
di paesi che ospitano il 40% della popolazione mondiale, a fronte del 4,6%
degli USA. Ancor più significativi sono i dati relativi alle emissioni pro
capite di CO2. Il leader dei paesi neoconsumatori nel 2001 era l'Arabia
Saudita, paese ricchissimo di petrolio, con 14,7 tonnellate; seconda la
Russia, anch'essa ricca di risorse petrolifere, con 11,2 tonnellate; terza
la Corea del Sud, con 9,4 t e quarto il Sud Africa con 8,7 t. Cina e
India, i due "big" tra i paesi di nuovo consumo, segnavano rispettivamente
2,4 e 0,9 tonnellate, mentre all'ultimo posto vi era il Pakistan, con 0,7
t. Lo stesso dato per gli USA è di 20,2 tonnellate. A livello nazionale,
il maggiore incremento tra 1990 e 2001 è stato registrato in Thailandia,
Indonesia e Malesia, paesi le cui emissioni di CO2 sono più che
raddoppiate. Diversi altri paesi hanno fatto rilevare significativi
incrementi: Corea del Sud con l'89%, Cina con il 35% e India con il 62%.
Per contro, gli USA hanno registrato solo un 15%, ma il valore di 5,7
miliardi di tonnellate di CO2 nel 2001 era pari al 77% di quello dei paesi
neoconsumatori (escludendo India, Cina e Russia), benché la popolazione
USA sia meno del 10% di quella di questi 17 paesi. (.) Durante il periodo
1989-1999 i consumi domestici in Cina sono cresciuti a un tasso medio
annuale del 14%, triplicandosi e più in soli 10 anni, principalmente a
causa dell'impennarsi delle vendite di elettrodomestici. In Corea del Sud
il dato è stato dell'11%, in Indonesia del 13%, in Thailandia del 25%,
nelle Filippine il 28%. Gli elettrodomestici sono complessivamente la
fonte di consumo energetico in più rapida crescita dopo le automobili.
Fortunatamente ci sono molti modi in cui i nuovi consumatori - e
ovviamente anche i "vecchi" - possono limitare i propri consumi di
elettricità. Il primo è semplicemente evitare gli sprechi. Si considerino
per esempio le apparecchiature che vengono lasciate in stand by, in
particolare TV e videoregistratori, che continuano ad assorbire energia 24
ore su 24 in quanto spenti ma non staccati dalla rete di alimentazione.
Tali apparecchiature finiscono per consumare più energia quando "dormono"
che quando sono in funzione. Molti forni a microonde consumano più
elettricità per far funzionare il timer e il quadro comandi in stand by
piuttosto che per cuocere. Nelle famiglie americane i consumi elettrici
per apparecchiature in stand by raggiungono un importo totale di almeno
3,5 miliardi di dollari l'anno. Alla fine, qualcosa come un quinto dell'
elettricità consumata dagli elettrodomestici è sprecata per
l'alimentazione in stand by, anche se queste "perdite" si potrebbero
ridurre del 75% con semplici provvedimenti, come l'uso di sistemi di
controllo a distanza. Ancora più banale è ricordarsi di spegnere le
apparecchiature che vengono lasciate inutilmente accese. Un esempio
"virtuoso" ci arriva da Bangkok. Alle ore 21:00 di un determinato giorno
della settimana le maggiori televisioni trasmettono l'immagine di un
grande quadrante che mostra i consumi energetici della città in quel
momento. Quando il quadrante appare sullo schermo i telespettatori vengono
invitati a spegnere tutti gli elettrodomestici e le luci che sono
inutilmente accese, e non solo le apparecchiature lasciate in stand by.
Come tutti gli spettatori hanno modo di osservare, il consumo diminuisce
al punto che si potrebbero tranquillamente chiudere un paio di centrali
elettriche a carbone di media dimensione. Questo ricorda a tutti come gli
individui possano fare la differenza e, naturalmente, come il risparmio
energetico sia sensato e conveniente. Ci sono molte altre forme di
efficienza energetica: le tecnologie più recenti consentono risparmi di
energia fino al 75% e oltre. Gli USA, nonostante le loro tendenze
energivore, hanno una positiva esperienza in tal senso e oggi le
apparecchiature domestiche consumano due terzi in meno dell' energia che
assorbivano prima. Durante la presidenza Clinton sono stati introdotti
nuovi standard di efficienza con il programma Energy Star, che riguarda
elettrodomestici come frigoriferi e lavatrici, ma anche le lampadine.
Sfortunatamente il presidente Bush sta abbassando questi standard, benché
ormai un americano su cinque acquisti i modelli di frigorifero più
efficienti in commercio e i risparmi di energia così ottenuti equivalgano
al prodotto di quattro grandi centrali elettriche a carbone. Le
apparecchiature ad alta efficienza energetica, inoltre, permettono ai loro
acquirenti un risparmio potenziale di 500 dollari, ma probabilmente anche
del doppio, se si considera una vita utile media di 15 anni. Analogamente,
i migliori condizionatori in commercio negli USA farebbero risparmiare
energia sufficiente ad evitare la costruzione di 120 centrali elettriche
entro il 2010. Lo standard per le lavatrici fissato dal Dipartimento per
l'Energia farà risparmiare nei prossimi tre decenni una quantità di
energia pari a quella prodotta da 5 centrali elettriche a carbone, e
ridurrà l'inquinamento dell'aria in misura pari a quattro milioni di auto
sottratte alla circolazione, oltre a far risparmiare oltre 40.000 miliardi
di litri d'acqua. Oltretutto ulteriori guadagni in efficienza fino a più
del 30% si possono raggiungere riducendo i costi dovuti alle
apparecchiature elettriche ed elettroniche sull'intero ciclo di vita. Ciò
metterebbe le nazioni sviluppate in condizione di ridurre le proprie
emissioni di gas serra entro il 2010 di una quantità equivalente a quella
che si otterrebbe togliendo dalle strade 100 milioni di auto. (.) Ma al
vertice dell'efficienza energetica ci sono le grandi prospettive delle
fonti energetiche pulite e rinnovabili. Il contributo dell'energia eolica
è quadruplicato nel giro di sei anni, con un tasso di crescita raggiunto
solo dall'industria dei computer. Oggi la Danimarca ricava il 21% dell'
elettricità dal vento. Questa innovativa forma di energia costa 3-4 cent
per kWh, più o meno quanto quella prodotta dal carbone; se però si
contabilizzano i costi indiretti ambientali e sanitari, quest'ultima viene
a costare tra i 5 e gli 8 cent (dal 1973 la sola polvere di carbone è
costata ai contribuenti USA 35 miliardi di dollari in indennizzi monetari
e sanitari a chi lavorava nelle miniere). L'attuale fabbisogno
statunitense di elettricità potrebbe essere soddisfatto con l'energia
eolica producibile in appena tre stati particolarmente ventosi come il
Texas, il Nord Dakota e il Kansas. Il potenziale eolico degli USA ne fa
un'autentica "Arabia Saudita del vento", seguita da vicino da due tra le
grandi nazioni neoconsumatrici, l'India e il Brasile. (.) Ulteriore
alternativa ai combustibili fossili è l'energia solare. Prodotti come
calcolatrici e orologi solari sono ormai comuni, mentre lungo le
autostrade cresce l'impiego di sistemi di segnalazione luminosi e di
comunicazione di emergenza alimentati da celle solari, così come di
parchimetri e sistemi di telecomunicazione a distanza. Più di un milione
di case traggono oggi la loro elettricità dalle celle solari, la cui
produzione nel 2001 è cresciuta del 36%, a fronte di una diminuzione
dell'1,1% nel consumo di combustibili fossili. Le celle solari costano
attualmente circa 3,50 dollari/watt, e a volte solo 2 dollari: sono quindi
convenienti quanto i combustibili fossili, e spesso lo sono di più. Se in
Gran Bretagna, nazione nota per il suo cielo nuvoloso, si installassero su
ogni copertura adatta i più aggiornati impianti fotovoltaici si
riuscirebbe a produrre più dell'attuale fabbisogno annuo nazionale di
elettricità. Infine è bene dare un'occhiata anche ai profitti che si
possono realizzare: si prevede infatti che il mercato delle tecnologie per
le fonti energetiche pulite e rinnovabili cresca dai 7 miliardi di dollari
del 2000 a 82 miliardi nel 2010. Per i nuovi consumatori ci sono quindi
molte esperienze utili cui attingere, che possono metterli in condizione
di evitare di rivolgersi a tecnologie di produzione dell'elettricità
superate e inefficienti. Alcuni paesi stanno attuando grandi sforzi per
"decarbonizzare" il proprio sviluppo economico: la Cina ha già ridotto il
suo trend CO2/RNL a un tasso migliore di quello statunitense. Questo paese
ha lungamente sostenuto uno spostamento verso energie pulite e
rinnovabili, riducendo nel contempo i consumi totali. La legge sulla
conservazione dell'energia di cui la Cina si è dotata nel 1997 dovrebbe
portare a far diminuire di oltre un terzo i consumi energetici entro il
2020. ( di Norman Myers )

I nuovi consumatori della Cina

La straordinaria crescita dei nuovi consumatori della Cina induce a
pensare al domani. Si suppone che negli anni che ci separano dal 2010 la
crescita economica si attesterà al 7% annuo, meno del 10% dei due decenni
passati ma il doppio rispetto a quanto viene giudicato soddisfacente dalla
maggior parte dei governi mondiali. Ciò porterà quasi a un raddoppiamento
dell' economia, con un totale di circa 10.000 miliardi di dollari PPA al
2010. Nel 2020 l'economia della Cina potrebbe arrivare alle dimensioni di
circa 19.000 miliardi di dollari PPA, diventando quindi la più grande
economia mondiale (anche tenendo conto di una solida crescita economica
degli Stati Uniti). Questo sarà ancora più probabile se i nuovi
consumatori cinesi metteranno in campo la stessa destrezza che hanno
dimostrato altrove. Al di fuori del loro paese infatti i cinesi sono molto
intraprendenti e benestanti. La diaspora cinese, che è arrivata in
Indonesia, Malesia e molti altri paesi, oltre a Taiwan, conta 55 milioni
di persone che nel 1999 godevano di una quota di RNL complessivo di oltre
1.000 miliardi di dollari, circa lo stesso della Cina stessa. Ci sono
altri segnali favorevoli. Data la politica demografica di un unico figlio
per famiglia, l'indice di dipendenza, cioè la relazione tra popolazione
attiva e popolazione a carico, dovrebbe calare a un livello
eccezionalmente basso entro il 2015. Inoltre la Cina si prepara a
realizzare ottimi ritorni economici dai suoi investimenti nell'educazione
sia maschile che femminile. Entro il 2030 la Cina avrà più abitanti
scolarizzati in età lavorativa di quanti ne avranno Europa e Stati Uniti
messi assieme. Emerge però il problema (o almeno come tale è percepito da
molti) della competizione sleale della Cina, dovuta al basso costo del
lavoro rispetto a paesi che nei mercati globali hanno una posizione più
consolidata perché sono arrivati prima, come la Gran Bretagna, l'America e
più recentemente il Giappone. Ma il commercio non dà mai un vantaggio a
senso unico: beneficia sia chi compera sia chi vende. Se la Cina trae
beneficio da produzioni di gamma bassa, gli altri paesi dovrebbero
orientarsi verso attività che offrano analoghi vantaggi, cioè beni e i
servizi di fascia più alta e ad alto valore aggiunto. In Europa e Nord
America mezzo miliardo di persone traggono vantaggio dalle merci cinesi di
basso prezzo e buona qualità, e lo stesso fenomeno ha consentito a un
miliardo di cinesi di uscire dalla soglia di povertà. In virtù della corsa
economica che la Cina lascia intravedere anche per il futuro, accompagnata
da crescente disparità di distribuzione del reddito, il numero di nuovi
consumatori crescerà certamente a ritmi simili a quelli dell 'economia (il
7% annuo), arrivando nel 2010 a oltre 600 milioni. ( di Norman Myers )

Cinque superpotenze economiche

Come già visto, i nuovi consumatori della Cina mostrano già un potere di
spesa analogo a quello della Germania, mentre quelli dell'India superano
gli spagnoli. I due paesi asiatici insieme con il Brasile, il Messico e la
Russia raggiungono il 44% della popolazione mondiale e il 24%
dell'economia globale in PPA (dato 2000). Ovviamente solo una parte
limitata della seconda percentuale è attribuibile al potere d'acquisto dei
loro 650 milioni di nuovi consumatori, tuttavia un terzo di questa è
equamente distribuita fra tutti. Va anche rilevato che con il loro spirito
di intraprendenza i nuovi consumatori aprono la strada alla rapida
espansione economica dei loro paesi. Si prevede che nel 2010 la somma
delle popolazioni di questi cinque paesi avrà raggiunto i 3 miliardi di
persone, cioè il 44% dell'intera umanità. Se essi riusciranno a tenere il
passo, la loro economia diventerà quasi un terzo dell'economia globale in
PPA (oggi è un quarto). Se la Cina mantenesse il suo tasso di crescita
economica al 7%, il suo RNL potrebbe passare dai circa 5.000 miliardi di
dollari PPA del 2000 a 9.700 miliardi di dollari PPA entro il 2010, e
arrivare al doppio - 19.100 miliardi di dollari PPA - entro il 2020. (Se
l'economia degli USA raggiungesse la media prevedibile di crescita annua
del 3,4%, si espanderebbe da 9.600 miliardi di dollari a 13.200 miliardi
di dollari, fino a 18.500 miliardi di dollari: l'ultima cifra sarebbe
quindi di ben 600 miliardi inferiore). Qualora l'economia dell'India non
si spostasse dalla media di crescita annua del 6% registrata negli ultimi
10 anni, potrebbe salire dai 2.400 miliardi di dollari PPA del 2000 a
4.300 miliardi di dollari PPA nel 2010, e a 7.700 miliardi di dollari PPA
nel 2020. Certamente per il Brasile, il Messico e la Russia è ipotizzabile
un trend di crescita più lento; nondimeno, anche con modesti tassi annui
del 3,5%, del 4% e del 4% (rispettivamente), le loro economie
crescerebbero a 1.700 miliardi di dollari PPA, 1.200 miliardi di dollari
PPA e 1.500 miliardi di dollari PPA (rispettivamente) entro il 2010. Presi
in gruppo i cinque paesi hanno tutte le potenzialità per vedere salire
l'RNL/PPA da 10.600 milioni di dollari (il 24% dell'economia mondiale) del
2000 a 18.400 milioni di dollari nel 2010 (il 30%). In buona sostanza
queste cinque nazioni da sole hanno già dimostrato ampie capacità di
svilupparsi rapidamente, anche a fronte dei crack finanziari che hanno
colpito due di esse, e sarebbero in grado di ridisegnare la mappa
economica del mondo. In meno di un decennio la Cina ha ripetutamente
duplicato il reddito nazionale, impresa che in Gran Bretagna ha richiesto
60 anni durante la Rivoluzione Industriale, negli USA 50 anni nel 19°
secolo e in Giappone 30 anni nel 20° secolo. Lo stesso potere d'acquisto
che l'Europa ha saputo costruire nell'intero arco del 1900 potrebbe essere
replicato nella metà del tempo da queste superpotenze, che si candidano ad
essere giganti politici del mondo. Ma questi paesi potrebbero anche
diventare le principali regioni di deterioramento ambientale su vasta
scala, e di conseguenza anche di deterioramento economico. Infatti
potrebbero far impennare i numeri delle loro flotte automobilistiche
nazionali, cosi come dei consumi di carne e dell'uso di energia elettrica
generata da combustibili fossili. La Cina mostra un trend in accelerazione
dell'alimentazione carnivora, che potrebbe provocare fenomeni globali di
carestia idrica e di cereali, dal momento in cui si vedesse costretta a
rivolgersi ai mercati cerealicoli internazionali per le importazioni.
Questo scatenerebbe una competizione impari con altri paesi importatori,
che certamente non sarebbero all'altezza di affrontare il rincaro delle
tariffe. In termini di uso di combustibili fossili e produzione di CO2, da
sola la Cina basterebbe a destabilizzare significativamente il clima,
anche se il Governo ha messo a punto misure volte a frenare il processo. (
di Norman Myers )

I motori del consumo

Che cosa orienta oggi i consumatori? E che cosa orienta, in particolare, i
consumatori che arrivati di recente a questo status potrebbero avere
motivazioni differenti rispetto a quelli di vecchia data? Innanzitutto c'è
una replica tag heuer ragione ovvia per milioni di persone, rappresentata dal fatto che si
sono appena lasciati alle spalle una situazione di privazione, quando non
di povertà. Ma una volta acquisita una condizione di affluenza, che cosa
guida queste persone a cercarne sempre di più? Se operano per aumentare la
propria ricchezza, questo contribuirà a farla crescere ulteriormente? Dopo
tutto, le persone cercano di acquisire l'affluenza per il desiderio di una
vita più piacevole e sicura. Ma raddoppiare la propria affluenza farà
davvero raddoppiare ciò che veramente desiderano? Diamo quindi
un'ulteriore occhiata a questa esplosione dei consumi e chiediamoci che
cosa si nasconde sotto questa manifestazione di affluenza. Sostanzialmente
questa riflette ciò che per i nuovi consumatori conta: fare soldi e
carriera; presentarsi bene e alla moda; godere di molte opzioni di
consumo. Un credo che si può sintetizzare cosi: "Quando il gioco si fa
duro, i duri cominciano a . fare shopping". Virtualmente tutte le persone
affluenti si sentono spinte a consumare sempre di più, tuttavia emergono
segnali sempre più evidenti che nel lungo periodo i consumi non sempre
elevano il benessere delle persone. Molti consumatori, in particolare nei
paesi industrializzati, stanno scoprendo che la "bella vita" non consiste
nell'accumulare sempre più beni. Ci sono segni che il culto del consumo,
almeno nella sua forma attuale, potrebbe essere in una fase di
sbandamento. Un'indagine condotta a livello globale nel 2003 ha mostrato
che, quando le persone vengono interrogate a proposito della riduzione dei
consumi, si esprimono a favore rispettivamente più del 60% del campione
consultato nei paesi industrializzati, il 50% in Russia e solo (ma
comunque significativo) il 30% nei paesi in via di sviluppo dell'Asia e
dell 'America latina. Rispetto alle specifiche voci di consumo, i
risultati nei paesi ricchi sono i seguenti: l'83% del campione è
favorevole a minori consumi di elettricità, per la carta l'81%, per la
benzina e altri combustibili il 73%, per l'acqua il 71%, per il cibo il
65%. Non sorprende il fatto che nei paesi in via di sviluppo la media dei
favorevoli a riduzioni di consumo come quelle indicate sia di appena il
21%. La media più alta è del Giappone con l'81%, seguito dal Nord America
con il 67%, dall' Europa Occidentale con il 62%, cui si accodano l'Europa
Orientale e la Russia con il 54%, i paesi emergenti dell'Asia con il 31% e
America latina con il 30%.3 Che cosa spinge allora molti consumatori a
inseguire il Nirvana di un consumo sempre più imponente? Si tratta
semplicemente di un ragionamento del tipo "i beni fanno bene, quindi più
beni fanno per forza meglio"? In effetti, il progresso economico spesso
viene identificato con il progresso umano. Per il mondo del commercio
tutto costituisce un prodotto e chiunque è un potenziale cliente, quindi
tutti i valori fanno riferimento alle leggi del mercato. Altrettanto
spesso ciò viene a coincidere con una cultura della Coca Cola o di
McDonald's, che è ben lungi dal garantire il top del benessere. In tale
visione è esclusa inoltre ogni nozione di "sufficiente". Perché altrimenti
le persone ultraricche si dovrebbero sentire costrette a partecipare a
questa infinita corsa al consumo? Potrebbero rendersi conto che è
controproducente? La metafora dello stadio è in questo caso
particolarmente efficace: se tutti si alzano in piedi per vedere meglio,
nessuno vedrà meglio di come avrebbe visto se tutti fossero rimasti
seduti. Ciò è esattamente quello che spesso accade quando le persone si
concentrano su consumi vistosi come auto di lusso o case all'ultima moda,
invece che su consumi "nascosti" come lo sport, le arti o anche per la più
prosaica cura della propria salute. Il consumo è diventato una questione
di continua concorrenza con i vicini. Karl Marx affermava: "Una casa può
essere grande o piccola; finché le case circostanti saranno ugualmente
piccole essa sarà in grado di soddisfare tutte le domande sociali di
abitazione. Ma lasciate che tra di esse venga eretto un palazzo e queste
si 'restringeranno' da piccole case a capanne". E la competizione si
riproduce esattamente anche per le auto, l'alimentazione le
apparecchiature elettroniche o le vacanze. Mentre ti confronti
ininterrottamente con gli altri, puoi anche confrontare ciò che sei oggi
con ciò che eri ieri. Se viene lanciato un nuovo modello di Mercedes
questo suscita un impellente desiderio di un'auto più grande e potente.
Chi non la possiede non è un membro del "club del consumo", dunque se
vuole farne parte deve correre ad acquistare qualcosa che possa
comprovarne l'appartenenza. Ma la nozione di "sufficiente" è del tutto
assente anche in altri aspetti del consumo. Un americano oggi può
scegliere tra 50.000 prodotti alimentari: non più di un secolo fa erano
solo 100. Questa forse è una parziale spiegazione del perché molti
americani mangiano molto più di quanto è necessario e salutare. E questo
forse spiega in parte perché gli americani sono così spreconi con il cibo.
Più di un quarto degli alimenti che escono dalle aziende agricole va perso
prima di arrivare nei ristoranti e nelle case, mentre un altro quarto
viene lasciato marcire in frigorifero o avanza da piatti stracolmi. Tutto
questo contraddice apertamente uno dei concetti chiave della nostra
economia di mercato, noto agli esperti come "sovranità del consumatore".
Un' idea quasi ammantata di sacralità, con cui si afferma che il
consumatore, e nessun altro, sa che cosa è meglio per sé. Questo sarebbe
vero se il consumatore fosse perfettamente informato e se i costi
collaterali ("la tua auto inquina la mia aria") fossero così irrilevanti
da poter essere ignorati. In più, i desideri e i voleri dei consumatori
sono plasmati dall' idea di "bella vita" comunicata dai media, con il
risultato che quattro americani su cinque scoprono di consumare spesso più
di ciò di cui avrebbero bisogno. L'immensa macchina della pubblicità sta
arrivando ovunque. Nel decennio 1986-96, nei paesi in via di sviluppo la
pubblicità è cresciuta (in rapporto all'RNL) del 210% in India, del 220%
nelle Filippine, del 325% in Corea del Sud, del 350% in Malesia e
Thailandia, del 640% in Indonesia e di più del 1.000% in Cina. In termini
di rapporto tra spese pubblicitarie e RNL il primo paese in classifica è
la Colombia, con il 2,6% (per gli USA il dato è dell'1,3%). Durante gli
anni '90 le spese pubblicitarie sono cresciute di 4,1 volte nei paesi in
via di sviluppo dell'Asia e di 5,6 volte in quelli dell'America Latina.
Tutto per favorire la possibilità di scelta del consumatore? Difficile
crederlo, di fronte all'immenso potere di orientamento dei consumi
esercitato da un numero relativamente ristretto di "megacorporation", sia
che si tratti di produttori di merci, di giganti della distribuzione o di
colossi dei media. Fra le prime 100 economie mondiali vi sono 51
corporation (escludendo dal computo banche e società finanziarie) mentre
solo 49 sono stati nazionali. Le principali 300 corporation sono titolari
di un quarto delle risorse produttive del mondo e dell'output mondiale
totale. Questo permette loro di esercitare un enorme impatto sulle
prospettive, sui desideri e sui modelli di spesa dei consumatori. Per
esempio, esse sono in grado di convincere i consumatori a bere acqua in
bottiglia, anche se questa non è più sana di quella che esce dal
rubinetto, e alzarne i costi fino a 1.000 volte. I lettori che volessero
saperne di più in materia di "contropubblicità" possono consultare la
rivista Adbusters e il relativo sito . Per fortuna
l'industria della moda - un importantissimo fornitore di beni di consumo -
si sta muovendo per promuovere consumi sostenibili. Molti fashion
designer, in collaborazione con giganti del settore come Versace e Marks &
Spencer, stanno rivolgendo maggiore attenzione alla crescente domanda di
prodotti "etici" e "verdi". Una forte pressione in tal senso viene dalla
rivista on-line Lucire, il cui editore e fondatore Jack Yan afferma: "Le
riviste di moda non devono parlare solo dei marchi e dei prodotti che
offrono, ma anche dare alle aziende la possibilità di capire cosa va e
cosa non va più". La sfida è: come rendere la moda sostenibile e la
sostenibilità di moda? Infine va considerata l'estrema conseguenza di
queste pressioni sul consumo, ossia l'affluenza, che diviene "una
malattia, una condizione trasmessa socialmente di ansia, sovraccarico,
debiti e produzione di rifiuti risultante dall'ostinato e incessante
inseguimento di qualcosa in più". Questa forma epidemica di affluenza trae
origine da quella ossessiva corsa al miglioramento della propria
condizione economica che è l'essenza dell' American Dream, diffuso ormai
ovunque, tanto da diventare l'obiettivo a cui mirano virtualmente tutti i
sistemi economici, sociali e politici del mondo. Purtroppo, delle sue
conseguenze negative non si parla altrettanto.

Dal 1950 in poi i soli americani hanno consumato la stessa quantità di risorse naturali usate dall'intera umanità vissuta prima di allora;



e negli anni compresi tra il 1997 e il 2000 il numero di cittadini statunitensi che hanno dichiarato la bancarotta ha superato il numero di quelli che si sono diplomati nei college.



Fortunatamente le principali forme di trattamento di questa
malattia sono ben conosciute: orientarsi verso la semplicità volontaria
(voluntary simplicity), partecipare alle giornate senza acquisti, godersi
di più il tempo libero, promuovere l'uso di indicatori economici di
sostenibilità come il Genuine Progress Indicator, misurando l'impronta
ecologica di ogni individuo. E soprattutto: sostenere e diffondere il New
American Dream incentrato sulla qualità della vita piuttosto che sulla
quantità di mezzi di sussistenza. ( di Norman Myers )




 

URL DI RIFERIMENTO

http://

Socio fondatore del Gruppo di Volpedo e del Network per il socialismo europeo .