Il fantasma che si aggira nel mondo globale
Nadia Urbinati - La Repubblica 8 agosto 2008
In "Sbucato dal passato", un bel film di Hugh Wilson del 1999, il protagonista, un americano degli anni ´50 dominato dalla paura dell´invasione dei "rossi", si era costruito un bunker sotto il giardino di casa e con la moglie incinta aveva deciso di andarci a vivere.
Lì sotto si erano costruiti un mondo fittizio ma sicuro e in tutto funzionale, fino a quando non decisero di mandare il figlio ormai adolescente in perlustrazione del mondo fuori.
Il fuori non era più quello che il padre credeva che fosse quando lo aveva lasciato; anzi, il film suggerisce che quel fuori non era mai stato così pericoloso come l´immaginazione del protagonista aveva fatto credere.
Castoriadis parlò non a caso dell´immaginazione come della facoltà costitutiva della realtà. Le passioni e la memoria mettono in moto immagini e percezioni che muovono la volontà e alle quali la ragione cerca di dare forma di idee compiute e giustificabili. Il gioco della società sembra svolgersi secondo queste coordinate così da passare da fasi nelle quali la ragionevolezza riesce a svolgere una funzione giustificativa e integrativa dell´agire sociale a fasi nelle quali l´unità sociale sembra scricchiolare e il riferimento alle idee esistenti non bastare più a costruire significati condivisi.
La dinamica delle società occidentali dopo la Seconda guerra mondiale pare aver seguito più o meno questa traiettoria. Racconta Saul Meghnagi in Un luogo nell´anima. Gli ebrei come caso emblematico (in uscita presso Donzelli), che all´età dell´eguaglianza, l´età che ha coinciso con la ricostruzione delle società europee nel secondo dopo guerra, ha fatto seguito quella dell´identità.
Al desiderio di norme e imparzialità di trattamento ha fatto seguito il desiderio di comunità e cultura identitaria con l´esito di proporre eccezioni via via più frequenti all´eguaglianza per affermare o difendere la differenza.
È in effetti la storia stessa della democratizzazione moderna che può essere letta alla luce della dialettica tra formalismo e contestualismo, neutralità della legge e specificità della cultura.
Il rischio è, osserva giustamente Meghnagi, quello di tradurre questa dialettica in contrapposizione, dimenticando che è stato proprio lo sviluppo del sistema democratico delle norme ad aver aperto la strada all´espressione libera e plurale della vita individuale e collettiva, a rendere visibili le identità.
Per ripetere Nancy Fraser, la lotta per il riconoscimento si è intersecata con quella per la distribuzione: riconoscimento e giustizia sociale, dunque, come due facce della cittadinanza democratica. Il fatto nuovo e inquietante di questi anni recenti sta nel fatto che la globalizzazione dei mercati sembra aver interrotto questa relazione virtuosa e facilitato la divaricazione tra giustizia e identità. L´aver bloccato la giustizia distributiva ha causato la rinascita della diseguaglianza e indotto le persone a cercare rifugio nelle identità culturali e etniche per trovare sostegno e aiuto.
Ecco dunque lo spettro del nostro tempo: la globalizzazione.
Esaltata da liberisti e libertari come segno dell´affermazione dell´individuo e della società civile contro i sistemi coercitivi degli stati e della politica in generale, la globalizzazione ha nel contempo alimentato nuove paure e visioni meno trionfalistiche.
Secondo Meghnagi è questo il caso dell´ideologia comunitaria proposta da Tremonti, il quale alla tradizione classica del liberalismo che ha trattato il potere in senso "negativo" (ponendosi cioè il problema di come contenerlo e limitarlo) oppone un uso "positivo" del potere per far fronte alla globalizzazione; propone una politica densa di valori comunitari nella convinzione che solo una teologia politica avrà la capacità di opporsi all´egemonia del primato del mercato. Secondo Tremonti, solo se la politica saprà andare alle radici giudaico-cristiane dell´Europa (cioè non solo ai principi di libertà e proprietà, come il liberalismo, ma anche a quelli comunitari di autorità e responsabilità), l´occidente ritroverà la forza per reagire agli effetti della globalizzazione e lo Stato riprenderà una funzione direttiva sull´economia e la società.
È possibile una risposta alternativa al dirigismo liberal-comunitario? È possibile una risposta alla sfida della globalizzazione che recuperi il valore dell´eguaglianza senza rinunciare a quello di identità? Questa è la domanda che ispira lo studio di Meghnagi, il quale usa il caso dell´identità ebraica come emblematico della possibilità di trattare "differenza ed eguaglianza" come categorie concettualmente diverse, ma non in opposizione. L´ebraismo come caso emblematico di questa dialettica dell´azione sociale perché in esso il valore del riconoscimento è essenziale all´individuo per «salvaguardare il proprio modo di essere e di pensare, il proprio sistema di valori, le proprie consuetudini, il proprio rispetto di sé».
Meghnagi rivisita dunque la storia della società occidentale attraverso la storia dei suoi rapporti con l´identità ebraica, un´identità che gli eventi hanno portato a confrontarsi con le diverse forme di cultura delle aree geografiche in cui si è trovata a vivere, con un processo mutuo di cambiamento e interna articolazione. L´identità ebraica ha conservato principi essenziali – non solo riconducibili alla fede – pur nella differenza delle espressioni: si è egualmente manifestata attraverso "ebrei religiosi anarcheggianti"(Buber, Rosenweig, Scholem) ed "ebrei assimilati, ateo-religiosi" (Bloch, Lukàcs, Fromm, Arendt): «Da un lato vi sono coloro che si muovono sul terreno specifico della dimensione etico-religiosa, dall´altro coloro che si impegnano nel più diretto confronto con la società civile e politica».
Il messaggio di Meghnagi è che rispettare e coltivare tradizioni, lingua e memoria è un veicolo per consolidare anziché destabilizzare la società democratica. Semmai, come la barbarie dell´olocausto e delle violenze e discriminazioni che gli ebrei europei hanno subìto per secoli, la repressione dell´identità ha avuto effetti devastanti per le società europee. Vale per le minoranze quello che i teorici e militanti dell´emancipazionismo hanno scritto a proposito delle donne: sulla loro condizione si rispecchia l´identità dell´intera società. In altre parole, la ridefinizione della cittadinanza nei contesti nazionali europei si dovrà misurare sul grado di accoglienza, di rispetto, di riconoscimento che le persone appartenenti a culture altre o minoritarie riceveranno.
L´esperienza ebraica è in questo senso «un caso emblematico per altre minoranze, per esempio di immigrati, che accedono ai paesi europei». Un´emblematicità che è purtroppo misurabile anche in negativo: dall´attuale rinascita nazionalista, un fenomeno di ricompattamento identitario delle maggioranze nazionali attraverso la creazione ad arte della paura del diverso, e per avvallare politiche di schedatura e di persecuzione (politiche giustificate, come nell´Europa alla vigilia dell´olocausto, con l´argomento paternalistico del "voler fare il loro bene," il bene degli schedati).
I nuovi ebrei sono oggi gli zingari e quelle minoranze apparentate a loro nell´immaginario razzista (ai romeni e agli albanesi per esempio, divenuti ormai epiteti usati comunemente quando si vuole offendere o maltrattare qualcuno). In questa situazione, lo stesso appello alla giustizia e ai principi normativi per quanto importante e nobile non pare più sufficiente. Una società giusta non può esimersi dal coltivare valori morali, come quello della dignità della persona.
Fissare obiettivi astratti di giustizia senza porre attenzione alla vita concreta delle persone rischia di essere perdente.
Attenzione alla vita delle persone è lo stesso che dire rispetto; non umiliare (un messaggio che vale per gli individui come per le istituzioni). Questi sono obiettivi morali ed etici, la spina dorsale sulla quale si sorregge la dimensione giuridica e normativa della cittadinanza democratica.
Una polis democratica è un mondo etico non soltanto un ordine normativo.
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