Augusto Del Noce - filosofo cattolico rigorosamente ortodosso e tradizionalista, critico accanito e affascinato del marxismo e geniale interprete dell'ateismo e della modernità nichilista - parlava spesso dell'ostracismo che, per secoli, aveva colpito la Monarchia di Dante, escludendolo dal dibattito politico e tentando di cancellarne quasi la memoria.
Questo non metaforico rogo era nato, originariamente, dalla volontà della Chiesa di soffocare la teoria dantesca dei due soli ossia della pari dignità del potere spirituale e di quello politico, entrambi egualmente legittimi nelle loro specifiche sfere di competenza - teoria dunque pericolosa per l'integralismo cattolico, che voleva lo Stato subordinato alla Chiesa.
Tramontata o almeno indebolita nei secoli la potenza censoria clericale, pure il pensiero politico moderno, emancipatosi dalla religione e spesso ad essa avverso, non aveva interesse per la dottrina dantesca dei «due soli», in quanto anch'esso era ostile a uno dei due, in questo caso a quello spirituale e religioso, e tendeva - tende - a confinarlo in una sfera intima e privata, irrilevante rispetto allo Stato, alla gestione della cosa pubblica. Nei modi e nelle forme medioevali della sua epoca, quel testo di Dante che Del Noce considerava quasi un samizdat era un manifesto di laicità.
Con buona pace degli ignoranti, che continuano a usare scorrettamente questo termine come se significasse l'opposto di fede e come sinonimo di ateismo o di agnosticismo, esso indica invece un pensiero capace, indipendentemente dalle convinzioni religiose o scettiche di chi lo professa, di distinguere ciò che è oggetto di fede da ciò che è oggetto di ragione, ciò che si può dimostrare da ciò in cui si può credere, ciò che compete alla Chiesa da ciò che compete allo Stato. Laicità non è un contenuto, bensì una modalità del pensiero.
E in questo senso ogni cultura, se è veramente tale, è laica, in quanto non può non basarsi su quella distinzione; un matematico, anche se è un Santo, affronta i teoremi secondo le leggi della matematica e non in base al catechismo e un politico, anche il più devoto, quando formula una legge pensa ai reati, non ai peccati; al codice, non al decalogo. Uno dei più grandi laici che ho conosciuto è stato il religiosissimo Arturo Carlo Jemolo, grande giurista, fervido praticante, strenuo avversario della scuola privata, difensore dei diritti dello Stato e della Chiesa e della loro separazione.
Di questa laicità, fondamento etico-politico della vita civile, sono egualmente nemiche l'intolleranza clericale e quella laicista, che - a seconda del momento storico, del contesto sociale o della peculiarità territoriale - prevaricano faziosamente e impongono dogmaticamente i propri valori: per gli uni si tratta della verità rivelata e della morale obbligatoria per tutti, per gli altri si tratta del progresso e dell'adeguamento ai tempi, altrettanto obbligatori per tutti.
L'intolleranza clericale ha alle proprie spalle una storia plurisecolare, tutt'altro che finita, ed è stata ed è largamente denunciata e sbeffeggiata.
L'intolleranza e la spocchia laicista sono più recenti, ma in varie occasioni - ad esempio nelle discussioni sull'aborto - si sono rivelate altrettanto aggressive, una supponenza che mette all'Indice di una pretesa arretratezza ogni voce dissenziente.
Nelle scorse settimane, l'inammissibile inquisizione subita dall'ineffabile ministro Buttiglione a Bruxelles ha fornito occasione di stigmatizzare in generale questa prevaricatrice sicumera laicista che tende a emarginare i cattolici in un disprezzato ghetto riservato a cittadini di serie B. Questa denuncia è stata fatta con toni a loro volta reboanti, quasi si trattasse di una vera e propria persecuzione, ma soprattutto è stata avanzata con tronfia presunzione, come se fosse la prima volta in cui si alzava tale protesta.
Si dimentica che un grande laico come Bobbio ha bollato più volte la tracotanza laicista, ad esempio a proposito dell'aborto; se mi è lecita una nota personale, è a partire dal 1974 che, soprattutto sul Corriere , ho ripetutamente espresso analoghe critiche contro quella tracotanza. Ma allora quelle nostre difese laiche di quei valori e del diritto di tutti ad esprimersi cadevano nel vuoto, perché in quel momento non servivano ad alcun gioco politico, non interessavano la lotta per il potere. Oggi invece la critica a una certa faziosità laicista è uno strumento delle manovre politiche, serve , e perciò viene proferita con rumorosa indignazione da ritardatari che si spacciano per innovatori. La stessa cosa è avvenuta con le foibe o con i lager titoisti: ne ho scritto, in anni lontani, sette o otto volte, sul Corriere , con scarso esito, perché nessuno, allora, poteva farne un uso immediatamente politico.
Oggi tutti, convertiti in massa al revisionismo storico strumentalizzato, se ne sciacquano la bocca, perché è un argomento che serve - come nell'altro caso, serve oggi alla destra contro la sinistra.
Politicamente, la laicità si basa sul principio dantesco dei due soli o meglio sul detto evangelico «A Dio quel che è di Dio, a Cesare quel che è di Cesare», l'opposto di ciò che proclama il fondamentalismo islamico.
In realtà le cose non sono così semplici. Anzitutto Cesare ossia lo Stato è oggi minacciato non solo dall'invadenza di chi pretende di rappresentare Dio, bensì da quella sovversiva e anarcoide atomizzazione che usurpa illegittimamente il venerando nome di liberalismo e mira non a limitare e ad articolare secondo i principi liberali lo Stato, bensì a dissolverlo. Il liberalismo è, anche o soprattutto, una dottrina dei rapporti tra l'individuo e lo Stato, non una negazione qualunquista dello Stato e delle sue leggi, che tutelano tutti gli individui e richiedono a tal fine una qualche limitazione, più piccola possibile, dei loro impulsi.
Il liberale è un cittadino - protetto, se è dolorosamente necessario, dalla polizia - non un cowboy affidato solo alla sua pistola. Il fondamentalismo liberaloide che oggi imperversa è totalitario e totalizzante, persegue una purezza radicale come le ideologie tiranniche, nega diritto di cittadinanza a tutti i deviazionisti: si sente dire che Croce e Gobetti non sono liberali, l'uno per troppo senso dello Stato, l'altro per troppe preoccupazioni sociali; presto sarà espulso pure Einaudi, colpevole di aver salvato la lira e dunque di un intervento in qualche modo politico nel puro meccanismo del mercato.
Un illustre esponente estremo di tale anarco-liberismo, l'americano Nozick, ha teorizzato lo «Stato ultraminimo» che non dovrebbe occuparsi neppure di polizia; il cittadino, a suo avviso, potrebbe tutelare la sua sicurezza, come negli Usa tutela la sua salute, solo pagando privatamente un contratto di protezione, chiamando - quando viene aggredito dai malviventi - non i carabinieri, ma la società con cui si è assicurato. Come ogni fondamentalismo, pure questo è un oltraggio alla laicità. «Quei teorici zelanti del liberismo che disegnano uno Stato minimo» - scrive Natalino Irti nel suo recentissimo, splendido libro Nichilismo giuridico - concepiscono una « pura macchina della violenza , di una violenza nuda che presto si sbarazzerebbe degli ultimi brandelli di vita politica».
L'inoppugnabile detto evangelico non risolve tuttavia ogni problema, perché non è sempre facile stabilire ciò che spetta a Dio e a Cesare, non tutto è semplice come il Codice stradale che compete allo Stato o la verginità prematrimoniale che compete all'insegnamento di una Chiesa.
Poche settimane fa, il presidente della Conferenza episcopale cattolica tedesca, il cardinale Karl Lehmann, ha tenuto a Torino un'interessante relazione su questo tema, egregiamente riportata iwc replica españa e commentata da Giorgio Straniero sul Nostro Tempo, oggi uno dei migliori giornali italiani.
Alieno da ogni tentazione integralista - del resto molto più rara in Germania che in Italia, per ovvie ragioni storiche - il cardinale Lehmann è costretto a mettere in dubbio quella sacrosanta e rassicurante distinzione fra le competenze di Dio e quelle di Cesare, forse perché non può dimenticare che la Chiesa tedesca - quella cattolica come molte protestanti - è stata semmai colpevole di aver lasciato troppo a Cesare, di avere interferito troppo poco nelle faccende dello Stato. Infatti si accusa in generale la Chiesa non solo di indebita ingerenza nella sfera politica (come quando le si imputa, ad esempio, l'appoggio alla Democrazia Cristiana), ma anche di troppo scarsa e fievole ingerenza nella politica (come quando le si rimprovera di essersi troppo poco opposta al nazismo, di aver fatto allora troppo poca politica, separando troppo la sfera religiosa, spirituale, interiore da quella della responsabilità pubblica).
Uno Stato totalitario entra fatalmente in collisione col mondo dei valori morali - si pensi al razzismo, all'oppressione della libertà, all'ingiustizia sociale - e dunque induce o dovrebbe indurre una forza spirituale a reagire, a intervenire, a resistere. Ma anche uno Stato democratico può darsi leggi - varate a maggioranza e dunque ineccepibili sotto il profilo della legalità - che ledano valori morali e appaiano ad alcuni cittadini moralmente illegittime, come lo sarebbe, ad esempio, una legge razzista approvata a maggioranza da un Parlamento.
Secondo il cardinale Lehmann, si deve dare a Cesare ciò che gli appartiene purché non violi la legge di Dio (ad esempio il quinto comandamento, che dice di non ammazzare); le competenze di Cesare sarebbero quindi subordinate a priori a quelle di Dio - o, per un ateo o un agnostico, agli imperativi della coscienza, ai principi etici che non si è disposti a mettere in discussione.
Antigone non è un'autorità ecclesiastica; è una donna sola, risoluta ad opporre a una legge dello Stato per lei iniqua le «non scritte leggi degli dei», i principi morali assoluti, non negoziabili.
Talvolta dunque i laici, non senza imbarazzo, devono negare a Cesare ciò che sembra spettargli. Lehmann cade invece in errore, anche dal suo punto di vista, quando ritiene che la società civile possa contrapporre allo Stato, potenzialmente demoniaco, un quadro di valori: in questi anni, che in Occidente per fortuna non vedono Stati totalitari, è nella cosiddetta società civile che si è più diffuso l'appiattimento morale, facendone una società dell'indifferenza etica, sempre più insensibile alla spiritualità.
Per quel che riguarda le Chiese, l'unica via d'uscita dalla contraddizione che le vede colpevoli sia di interferire sia di non interferire sarebbe una loro radicale separazione dal potere politico, che rendesse loro di fatto impossibile qualsiasi pressione nei confronti dello Stato. Ciò renderebbe loro lecito, e spesso doveroso, gridare forte contro uno Stato ingiusto e leggi ingiuste, invitare i cittadini alla disobbedienza civile, come faceva un laico padre della democrazia americana quale Thoreau. Per Thoreau, comunque, era più facile, perché nella sua foresta egli portava solo il peso della sua coscienza, mentre chi vuole combattere il Leviatano ha anche il dovere di vincere o di far di tutto per vincere e così entra nelle contraddizioni della politica, in cui anche chi combatte per Dio può finire per macchiarsi come uno spregiudicato Cesare.
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