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GLOBALIZZAZIONE SOLIDALE

TITOLO

E Dio creò la globalizzazione André Bellon

DATA PUBBLICAZIONE

15/11/2004

LUOGO

Il Manifesto - supplemento


«La parola eresia... implica una scelta (hereo in greco significa scegliere). L'uomo può deviare dalla retta fede cristiana in due modi: da un lato per volontà di non aderire al Cristo, dall'altro perché non sceglie quanto veramente è trasmesso, bensì ciò che gli suggerisce il suo proprio spirito. L'eresia è una specie d'infedeltà (1)_». Così sette secoli fa San Tommaso d'Aquino definiva la recta ratio, il «retto pensiero», conforme al dogma, fonte di verità e di legittimazione dell'ordine costituito; e assegnava al bagaglio degli eretici lo spirito critico, o semplicemente la ragione umana.

Si direbbe che le dichiarazioni sulla costruzione europea provengano dai suoi eredi: i quali non fanno analisi, ma scagliano anatemi come fulmini. Chi respinge il progetto di costituzione, per Michel Rocard è un «disonesto» (2)_, e per Daniel Cohn Bendit un «organizzatore di complotti» (3)_. Un modo per cercare di impedire qualsiasi riflessione sul significato dell'Unione europea e in particolare sui suoi rapporti con la globalizzazione liberista. Chiunque voglia lottare contro l'universo di ingiustizia e di oppressione cui si è dato il nome di globalizzazione deve incominciare col respingere le nuove verità rivelate, rivitalizzando lo spirito critico e l'uso della ragione individuale. È una lotta nella quale non si può, per dirla con Bossuet, «affliggersi delle conseguenze dopo essersi accomodati alle cause».

Per rifiutare il mondo così com'è bisogna innanzitutto rendersi conto del carattere ideologico del concetto di globalizzazione, breitling replica e comprendere che non c'è nulla di fatale in questo processo, frutto di scelte dettate da interessi umani.
Niente di nuovo nella storia Un'ideologia, qualunque essa sia, si presenta invariabilmente come una realtà; e quando è vincente pretende di imporsi come un'ovvietà alla grande maggioranza. Lo dimostra perfettamente il caso della globalizzazione: ogni tentativo di opporvisi viene presentato come una battaglia arcaica, persa in partenza. Sul modello dei caramellosi spot televisivi che costruiscono un mondo tutto felicità e amore, qualcuno pensa di poter dipingere la globalizzazione con i colori delle nostre illusioni. Non è un fenomeno nuovo nella storia. Nella loro fase emergente, le grandi costruzioni dogmatiche hanno sempre ammesso interpretazioni diverse, non ancora tacciate di eresia fintanto che legittimavano i loro concetti fondamentali. Ma poi, una volta che questi ultimi erano stati imposti, i rapporti di potere non tardavano a dirimere le questioni in sospeso, ponendo fine alle illusioni e liquidando i devianti.

La globalizzazione non è una fatalità. È stata imposta dai suoi paladini, gli stati che le hanno dato il nome di mondializzazione o globalizzazione giocando, in particolare nei confronti della sinistra, sull'antica aspirazione umana a una cittadinanza mondiale. E dal canto loro, i giornali benpensanti hanno condotto campagne martellanti per presentarla come un processo inevitabile, mentre i pseudo-filosofi della modernità provvedevano a legittimarla come positiva (4)_.

Generalmente, si parla della globalizzazione come di una naturale conseguenza dell'evoluzione tecnologica in un mondo finito. Si dimentica così che, nel corso della storia dell'umanità, altre rivoluzioni tecnologiche, altre scoperte dei limiti del nostro spazio non hanno condotto a una visione dogmatica del futuro. È vero anzi il contrario per quello straordinario evento che ha nome Rinascimento, ove una rivoluzione scientifica considerevole converge con un'impressionante corrente di scambi internazionali e con l'emergere di una filosofia della ragione, dello spirito critico e della libertà individuale.
Dobbiamo ricordare che quell'evento fu la conseguenza di un incontro-scontro, tuttora in atto in Occidente, tra la cultura giudeo-cristiana e quella greco-romana, del quale il secolo dei Lumi ha costituito solo un episodio.

Oggi tutto - dalla la critica della ragione umana da parte dei cosiddetti filosofi post-moderni all'abbandono della volontà politica con la riscoperta di pretese fatalità - converge per lasciare il campo libero alle forze dominanti, vale a dire al denaro e al mercato. La globalizzazione neoliberista, che pretende di essere espressione di un nuovo interesse generale dell'umanità, di fatto non è altro che il risultato dei più brutali rapporti di forza. L'impegno per un mondo diverso, con altri rapporti di forze sociali è dunque una lotta necessaria, ma non obbligatoriamente nella prospettiva di un'altra globalizzazione. Perciò l'evoluzione semantica che ha portato a parlare, anziché di no global, di altermondialismo o alterglobalismo non è priva di significato. La critica del mondo globalizzato deve per forza sfociare su un'altra globalità, generatrice di altre alienazioni?

Occorre dunque promuovere l'antiglobalismo, ignorando le accuse infondate di ripiegamento su confini arcaici. Di fatto, la coesione tra nazioni democratiche è resa possibile dall'internazionalismo, (in contrasto con il globalismo, anche se preceduto da un alter) che costituisce uno strumento pertinente di lotta sociale. Il vero arcaismo è quello di una visione globalizzata in cui gli umani, con i loro diritti e le loro lotte, sono risospinti nel «grande corpo compatto che annulla le differenze tra gli individui e li fonde insieme, sacrificandone teoricamente alcuni per il bene dei più» (5)_. Distruggendo gli stati, la globalizzazione sopprime i popoli in quanto corpo politico sovrano. Vuole sopprimere gli scontri politici eliminando la nazione come corpo sociale, e cancella il solo quadro pertinente entro il quale i conflitti sociali hanno potuto e possono manifestarsi, senza sostituirlo in maniera credibile: così la globalizzazione mira a sopprimere la lotta di classe.

Ogni concezione di una globalizzazione di qualunque tipo finisce per auspicare una sorta di diritto internazionale senza stati, in qualche modo extra-territoriale e quindi dominante, poiché si colloca al di fuori di qualsiasi pregnanza sociale. Peraltro, i difensori più determinati della globalizzazione sono nel contempo i più accaniti accusatori dello stato, presentato esclusivamente nella sua funzione repressiva: un vecchio trucco ideologico volto a negare ogni legittimità alla sovranità popolare.
Se infatti è normale analizzare lo stato anche attraverso il dominio che esercita, volerlo limitare a questa sola funzione è assurdo.
Ad esempio, le tesi sviluppate da Toni Negri e da Michael Hardt (6)_ eludono la realtà contraddittoria rappresentata da un popolo. Assimilando lo stato a un puro e semplice meccanismo repressivo, lo proiettano al di fuori di qualsiasi realtà sociale in una visione solo totalitaria, che nega la via democratica. La loro idea, secondo la quale «i concetti di nazione, di popolo e di razza non sono mai molto lontani tra loro» (7)_, che in definitiva si avvicina a quella dell'estrema destra, non rappresenta neppure una caricatura della concezione semplicemente democratica della nazione. E quel che è peggio, eliminando la definizione repubblicana di nazione-corpo politico, ridefinisce il popolo a partire dal diritto di sangue. Una definizione che però ha il vantaggio di non essere d'ostacolo alla globalizzazione; sottraendo ai popoli ogni diritto politico, limitando le culture al loro aspetto folcloristico, una concezione di questo tipo impone l'assoggettamento politico a un ordine quasi immanente.

No, lo stato non è solo uno strumento di dominio. È anche uno strumento di organizzazione delle solidarietà, di redistribuzione della ricchezza, di regolamentazione. E soprattutto deve essere costruito come espressione della sovranità popolare, della democrazia che riconosce il cittadino come elemento di base del corpo politico.

note:
(1) San Tommaso d'Aquino, Summa teologica.

(2) Le Parisien, 21 settembre 2004.

(3) Le Journal du dimanche, 19 settembre 2004.

(4) Alain Minc, «La mondialisation heureuse», Le Monde, 17 agosto 2001.

(5) Geneviève Azam «Libéralisme économique et communautarisme», Politis, n. 776, 20 novembre 2003.

(6) Toni Negri e Michael Hardt, Impero, Rizzoli, 2000.
(7) T. Negri e M. Hardt, ib.
(Traduzione di E. H.)

(Pubblicato su IL Manifesto, supplemento 15 Nov. 04).
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Socio fondatore del Gruppo di Volpedo e del Network per il socialismo europeo .