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CULTURA POLITICA

TITOLO

SINTESI ATTI DEL CONVEGNO “Dalla scissione comunista all’unione per il socialismo nel XXI° secolo” - LIVORNO 19 febbraio 2011
  A cura di Luigi Fasce
DATA 11/11/2011
LUOGO Livorno

CONVEGNO

“Dalla scissione comunista all’unione per il socialismo nel XXI° secolo”

LIVORNO
19 febbraio 2011
Sala delle Corallaie, via delle Corallaie N°10, Località Picchianti
Lega dei Socialisti di Livorno - Gruppo di Volpedo - Network per il Socialismo Europeo
programma
Sessione mattina
Presentazione di Ottavio Herbstritt
Introduzione al convegno di Roberto D'Ambra della LdS Livorno
Introduzione tematica: Felice Besostri (portavoce Gruppo di Volpedo)
Interventi sul tema di rappresentanti di associazioni promotrici e partecipanti
Conclusioni: Norberto Fragiacomo
Sessione pomeriggio
Tavola rotonda
Presiede Lanfranco Turci (Network per il socialismo europeo)
Partecipano: Fausto Bertinotti, Emanuele Macaluso
Giuseppe Tamburrano, Giuseppe Vacca


SALUTI pervenuti per lettera
Andrea Ermano, direttore dell'Avvenire dei lavoratori Zurigo.
Caro compagno on. Besostri, cari compagni riuniti a Livorno, vi inviamo i nostri migliori e più calorosi auguri di buon lavoro per il convegno che tenete oggi a Livorno al fine di contribuire al superamento di storiche fratture nate con la scissione socialista del 1921 e tuttora presenti all'interno della sinistra italiana. Ognuno capisce, perché la storia si è incaricata di dimostrarlo, che il nostro Paese ha bisogno di una grande e autonoma forza socialista-democratica d'impronta laica, capace di candidarsi al governo del Paese nel quadro di un sistema di solidarietà europee e internazionali. Crediamo nella vostra iniziativa e siamo fiduciosi che essa potrà esercitare effetti altamente benefici sulla vita politica italiana nel segno dei nostri gloriosi ideali di Giustizia e di Libertà. Viva il socialismo! Un fraterno abbraccio
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Giuliano Pisapia – candidato Sindaco di Milano
Amiche ed amici, compagne e compagni, riuniti a Livorno
Pur non potendo essere presente, per i molteplici impegni della mia campagna elettorale, al vostro incontro, voglio comunque farvi arrivare un mio messaggio di auguri e buon lavoro.
Il gruppo di Volpedo, uno degli organizzatori del Convegno insieme con la Lega dei Socialisti e il Network per il Socialismo Europeo, ha ricoperto un ruolo molto importante, fin qui, nella mia campagna, e ho ancora in mente quel sabato mattina di settembre in cui sono stato, con molti di voi, proprio a Volpedo.
Sembra ieri, ma erano ormai mesi fa, e stavamo giocando a un altro sport.
Le primarie sono archiviate e la strada davanti a noi resta moto lunga e in salita.
Io sono convinto di potercela fare, sono convinto di poter riportare, con l'aiuto di voi tutti, la sinistra al governo nella città economicamente più importante del Paese, sono convinto del fatto che il vento stia cambiando, e che, fra qualche anno, potremo guardare indietro e ricordare questo periodo come quello in cui sono state poste le basi di una nuova Sinistra.
Vi abbraccio con amicizia e stima e vi aspetto a Milano, per portare avanti la nostra comune battaglia.
Buon lavoro.
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Nichi Vendola – Presidente nazionale di SEL
Care compagne e cari compagni,
Vi ringrazio per l'invito alla vostra manifestazione, che ho molto gradito. L'occasione di una manifestazione della sinistra, promossa dalla rete dei socialisti, in una città tanto importante per la nostra storia come Livorno, è davvero una occasione preziosa che avrei voluto cogliere, ma impegni improrogabili me lo hanno impedito.
Pur non potendo partecipare, vi invio un caloroso incoraggiamento a proseguire nella attività di ricerca e di azione politica che avete intrapreso nel corso di questi mesi. Il vostro contributo, insieme a quello delle tante forze vive e sane che si muovono nella società italiana, è utilissimo per ricomporre, non certo nella nostalgia del passato, ma nella ricerca presente di una nuova cultura e pratica politica di progresso e di libertà, le ragioni fondanti dell'agire politico per l'uguaglianza e la libertà.
La cultura politica dei socialisti è patrimonio indispensabile di questo nuovo inizio, di questa nuova fecondazione di una terra tanto inaridita qual è quella della sinistra.
Il nostro cimento è e resta quello di interpretare l'ansia di cambiamento del paese, la voglia di riscatto e di giustizia dei tanti soggetti penalizzati dalle politiche dell'attuale governo di destra, ma anche da questo trentennio liberista e illiberale. Vogliamo provare ad uscire "da sinistra" dalla crisi odierna. Oggi è possibile, ma non scontato. Le spinte ad un superamento del berlusconismo per via emergenzialista, affidandosi ad una direzione moderata e conservatrice, sono presenti e minacciose. Eppure, dagli scioperi indetti dalla FIOM alle mobilitazioni studentesche, fino a giungere alla straordinaria mobilitazione delle donne domenica scorsa, c'è quell'Italia migliore che reclama spazio e futuro. Domenica prossima abbiamo indetto una manifestazione nazionale a Roma che abbiamo intitolato "Cambia l'Italia", dove saremmo lieti di invitarvi, perché pensiamo che cambiare l'Italia sia giusto, possibile e necessario. Cambiare l'italia per ritornare al centro del mediterraneo, oggi attraversato dai venti di rivolta e dalle aspirazioni alla libertà. Cambiare l'Italia per affrontare e sconfiggere la crisi, che è globale ma che in Europa è più sorda ed inquietante. Cambiare l'Italia a cominciare dalla sinistra, che dovrà legarsi sempre di più alle famiglie europee del progresso, a partire da quella socialista. Cambiare l'Italia per poter essere fedeli alla nostra costituzione, ancora oggi attualissima e largamente inapplicata nelle sue parti più lungimiranti ed innovative.
Con sinistra ecologia libertà abbiamo avviato un cammino che ha l'ambizione di rispondere a queste domande di cambiamento, ma sappiamo che da soli non potremmo farlo. Cambiamo insieme, compagne e compagni! Cambiamo la sinistra e cambiamo l'Italia!
Fraternamente

Relazione introduttiva apertura lavori
di Ottavio Herbstritt - Lega dei Socialisti di Livorno
È stato per me un onore aver aperto i lavori di questo grande convegno.
Viviamo in un’epoca che scioccamente mortifica in modo pregiudiziale l’uso della parola, una più di tutte nel nostro ramo deve ritornare patrimonio essenziale della sinistra, il Socialismo. Oggi abbiamo bisogno come il pane di una sinistra unita, ma prima di tutto abbiamo l’esigenza di ritornare a fare la politica con la p maiuscola.
Uno come me che non ha toccato con mano il trascorso storico che ha segnato indelebilmente i nostri giorni, è difficile ammettere che sono cadute le motivazioni che dividevano i principi massimalisti con i riformisti, i rivoluzionari con i democratici.
Mi permetto in forma estremamente sintetica di percorrere solamente l’ultimo tratto della nostra epoca.
Circa 30 anni fa vi è stato un cambiamento evolutivo  dal capitalismo che accettava il "compromesso sociale", al capitalismo finanziario (se vogliamo turbocapitalismo).
In questa fase il disegno era ben preciso: la destrutturazione della democrazia per sovvertire l'ordine e rendere subalterno l'indirizzo politico all'indirizzo finanziario. Anche le sinistre europee(compresa la grande famiglia del socialismo) si erano appiattite al sistema e sono state complici nel creare ed incrementare, a livello globale, una forbice di disuguaglianza sociale, favorendo i pochi, i ricchi. 
Noi cittadini siamo stati a guardare e pian piano, dalle grandi battaglie del '68 fino agli anni '70, siamo diventati sempre di più schiavi di quei teleschermi. Ci hanno fatto credere che il problema era la "casta", l'extracomunitario che, vittima anch'esso della globalizzazione nel mercato libero, veniva da noi. Abbiamo perso il contatto con la realtà, perso il lavoro fisso, i nostri diritti, siamo diventati competitivi, distanti tra noi, siamo stressati e abbiamo creato una generazione senza futuro. 
Ma chi sono i "mostri"? I mostri sono gli speculatori, le agenzie di rating, le grandi multinazionali che, a differenza degli stati non hanno confini, ma sono sopratutto le banche private che hanno gonfiato all'estremo i debiti "pubblici" di tutto il mondo. Basti solo dire che le 15 banche più importanati hanno un bilancio pari a 35.1 trillioni di dollari, più degli interi stati messi insieme.
Adesso i governi, schiavi di questo sistema a circuito chiuso ed astratto, stanno cercando di ricapitalizzare e salvare le banche. Esattamente chi ha causato la crisi del 2007! 
Chi ci rimetterà? Tutti noi: diminuiranno drasticamente i posti di lavoro, chiuderanno le fabbriche, aumenteranno i prezzi, diminuiranno gli stipendi, la cultura, l'istruzione, la ricerca.Tutto per proteggere qualcosa che concretamente non esiste! Un pezzo di carta, il denaro, contro la vita stessa, l'uomo e l'ambiente.
Ecco che allora, a gran voce abbiamo bisogno di ripartire da una grande famiglia della sinistra, che ricordi alle origini ma che guardi al futuro, i cosiddetti “nostalgici del futuro”, un nuovo principio di umanesimo dove al centro non vi sia l’uomo ma anche l’ambiente che lo circonda.
Ecco che ritorna in mente la parola socialismo, per esser più attuali
eco-socialismo, dobbiamo sovvertire il dominio della finanza globale per ritornare all’indirizzo politico come prima forma governativa e decisionista. Questo è il cammino che ci attende, queste sono le nostre speranze.
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Presentazione di Roberto D'Ambra – Lega dei socialisti di Livorno

Come Lega dei Socialisti di Livorno abbiamo inteso promuovere questo convegno non certo per dare giudizi su eventuali torti e ragioni di novant’anni fa, ma perché abbiamo ritenuto che un’ analisi ed un approfondimento storico-politico possano aiutare a ritrovare le radici profonde che sono comuni alla Sinistra Italiana.
Nell’ attuale fase politica, in cui nel Paese si avverte pesantemente il tentativo dei poteri forti di rispondere secondo un modello di capitalismo autoritario alla crisi del neoliberismo, scaricando gli effetti della crisi su coloro che già hanno fatto da anni le spese della crisi stessa, è urgente ricostruire, a Sinistra italiana, attraverso un possibilmente rapido processo di scomposizione e ricomposizione, al fine di proporre un modello di società e valori alternativi a quelli ancora dominanti perché imposti da ben precisi interessi economici e finanziari.
Sono valori a nostro avviso radicati nella cultura popolare, la dignità di ogni persona, il lavoro, la libertà, la solidarietà e la giustizia sociale, di cui la Sinistra non può fare a meno ed anzi ha il compito di risvegliare, se sopiti, dall’omologazione del consumismo in questa era della globalizzazione.
Nichi Vendola, contribuendo a questo sforzo di ricostruzione della Sinistra, nell’ aggiornamento di tali antichi e imperituri valori alle sfide dei nostri tempi, ha con chiarezza proclamato, proprio al Congresso fondativo di SEL, che quello non era un punto di arrivo, ma di partenza, e che la bussola di tale progetto non poteva che essere quella del Socialismo.
Sia chiaro, noi che pure ci sforziamo di essere, nel nostro piccolo, portatori della cultura e della tradizione socialista, non riteniamo che esse debbano essere imposte a nessuno, ma che debbano essere messe a disposizione del progetto perché, come lo stesso Nichi Vendola ebbe a dichiarare convintamente, l'Europa tutta e l'intero nostro paese hanno bisogno dei valori del socialismo italiano, che hanno attraversato più di un secolo di storia , ancora prima del 1892, risalendo alla nascita delle Leghe, delle Case del Popolo, delle Società del Mutuo Soccorso, delle Società Operaie, determinanti per la grande idea di solidarietà e di comunità, mentre l'umanesimo socialista è stato protagonista di un' educazione verso l'accoglienza degli altri, il rispetto e la tolleranza nei confronti dei diversi.                                                                         
E’ questo lo spirito con cui abbiamo promosso questa iniziativa, che ha richiesto un notevole impegno anche in rapporto ai limitati mezzi a nostra disposizione.
Ho avuto notizia che da Firenze qualcuno si è risentito di questa nostra iniziativa, rivendicando l’ esclusiva dell’ essere socialista.
Per noi non è un problema, è una discussione che non ci appassiona, noi giorno dopo giorno, nel nostro modesto agire di politici di provincia, cerchiamo sempre di comportarci da socialisti, insieme agli altri compagni, di diversa estrazione ma legati a comuni valori fondanti da rinverdire insieme.

Relazione introduttiva tematica di Felice Besostri
portavoce del gruppo di Volpedo, della DN del PSI

Il compito, che mi è stato assegnato, di introdurre il tema del Convegno, mi affida una particolare responsabilità, che devo affrontare con senso di misura e di modestia, perché se passi saranno fatti in avanti sulla via dell’Unione per il Socialismo nel XXI° secolo, sarà grazie ad una riflessione collettiva e plurale, che nasca da esperienze e azioni concrete in comune (del tipo della raccolta firme contro la privatizzazione del servizio idrico potabile), più che dall’intuizione di uno dei tanti impegnati nel processo di ricostruzione e rinnovamento della e nella sinistra italiana o dalla comparsa di un nuovo leader carismatico e unificatore, che pur sarebbe benvenuto, se fosse conscio dei suoi limiti soggettivi e oggettivi, derivanti dall’assenza di una elaborazione di gruppi dirigenti in un contesto di partecipazione dal basso, sia orizzontale che verticale.
Penso che sia opportuno partire dal titolo del convegno, perché non a caso si sono usate delle parole piuttosto che altre. L’occasione è il 90° anniversario della scissione comunista, consumata proprio qui a Livorno, la scissione maggiore del movimento operaio e socialista italiano per le sue ripercussioni nel tempo, non certo la prima e neppure l’ultima. Chi ha promosso il convegno è un insieme di circoli e associazioni, i cui esponenti e militanti fanno parte di diversi partiti politici (PD, PSI e SEL principalmente e in ordine alfabetico, ma anche di formazioni aderenti alla Federazione della Sinistra, come Socialismo 2000) ovvero di nessun partito o con impegno soltanto sindacale o nel sociale. La promotrice, cui va riconosciuto il merito principale, è la Lega dei Socialisti di Livorno, cui si sono associati il Gruppo di Volpedo, rete di circoli socialisti e libertari del Nord-ovest d’Italia, operante da 4 anni, e il più giovane Network per il Socialismo europeo, una rete di compagni e compagne e di associazioni con vocazione nazionale. Il richiamo all’aggettivo socialista o al sostantivo socialismo indica un progetto per il futuro e non una provenienza dal passato: dove- e in che forme- si vorrà o si potrà andare insieme dovrebbe è più importante delle diverse provenienze. Unione per il Socialismo non coincide con Unità socialista, espressione che è stata evitata per due ragioni: una nazionale e l’altra storica internazionale. Unità socialista è stato un progetto del PSI sotto la guida di Craxi che aspirava a provocare un riequilibrio nei rapporti di forza tra socialisti e comunisti in Italia (per ridursi in tempi più recenti in un molto più modesto tentativo di superare la frammentazione della diaspora socialista). Nel resto d’Europa, invece, richiama troppo le unificazioni forzate tra socialisti e comunisti nei paesi dell’Europa centrale e orientale occupati dall’Armata Rossa nei primi anni del Secondo dopoguerra nel XX° secolo. Parafrasando Madame Roland de la Platière si potrebbe esclamare: “Unità quanti delitti in tuo nome!”. Partito di Unità Socialista di Germania (Sozialistische Einheitspartei Deutschland - SED) e Partito Operaio Unificato Polacco (Polska Zjednoczona Partia Robotnicza - PZPR) sono la dimostrazione che i nomi non bastano per connotare una realtà politica e come possa essere tradita l’aspirazione all’unità. Unione definisce più un processo in movimento di Unità, che rappresenta uno stato d’arrivo. Socialismo nel XXI° secolo, piuttosto che del XXI° secolo, lo potremmo liquidare come un vezzo, un’idea di continuità di valori ideali, un voler riallacciarsi all’inizio della costruzione nei singoli stati e a livello internazionale del movimento operaio e socialista, come per ripartire da capo, un nuovo inizio, piuttosto che una revisione demolitrice per essere all’altezza dei nuovi tempi, per essere “moderni” ( quanti errori e orrori in nome della “modernità” . La critica a capitalismo è stata troppo rapidamente liquidata come un “arcaismo”(Rocard) o “old” rispetto a un “new”(Giddens). Sia chiaro che siamo ben consci che non si possono ripetere slogan del secolo scorso, come giaculatorie. Lo sviluppo delle forze produttive e la ineguale distribuzione della ricchezza e dei redditi con punte intollerabili e crescenti di disparità, la crescita globale dei mercati finanziari e delle telecomunicazioni in tutte le sue forme tecnologiche, l’equilibrio ambientale da preservare e l’esplosione demografica da controllare, per nominare soltanto alcuni dei problemi, richiedono risposte nuove. Tuttavia, se non si ha una bussola per orientarsi, cioè se non si ha una direzione di marcia, fosse anche un’utopia, non si troverà la strada anche se disponessimo dei più sofisticati navigatori satellitari. Per questo si parla di Socialismo e non di Sinistra. I due termini non coincidono, pensiamo all’apporto del pensiero liberal-democratico, che pure ha connotato scelte tipicamente socialdemocratiche come il welfare state a cominciare dal Servizio Sanitario Nazionale - NHS di Beveridge o le politiche economiche keynesiane. Il socialismo si colloca tra le dottrine politiche di sinistra, anche quando le prassi dei partiti socialisti democratici non sono definibili progressiste. La parola Sinistra indica una collocazione nello spettro politico, piuttosto che un’idea di società, che si voglia costruire in sostituzione di quella esistente. Non basta a definire programmi e a progettare azioni politiche di cambiamento e, diciamolo con franchezza, può essere un fattore di ambiguità. Ai tempi della Seconda Internazionale c’era un’idea comune di società socialista che accomunava gradualisti e rivoluzionari: una società senza classi di persone libere ed eguali e con la proprietà pubblica dei (principali) mezzi di produzione. Turati proprio nel celebre discorso di Livorno, che molti vorrebbero essere lo spartiacque definitivo tra socialismo (democratico) e comunismo (rivoluzionario), dopo essersi riconosciuto sia nel comunismo classico di Marx ed Engels (che per lui era il cervello destro e non il braccio destro di Marx) che in quello ideologico non ebbe problemi a dire: “Compagni, questo comunismo, in un senso o nell’altro, questo comunismo che è il socialismo, può anche espellermi dalle file di un Partito, ma non mi espellerà mai da sé stesso!” o che “Noi siamo figli del Manifesto del 1848”,cioè dei comunisti. Turati rivendicò alla sua storia e alla sua azione di aver “portato nella lotta proletaria per la prima volta in Italia- … - la suprema finalità del socialismo: la conquista del potere da parte del proletariato costituito in Partito indipendente di classe …”, una teoria non molto distante da quella leninista, se non per il carattere di massa rispetto a quella dell’avanguardia cosciente.
1.La scissione comunista indebolì l’opposizione democratica di fronte al fascismo, perché il PSI unito ne poteva essere il perno, ma si deve ammettere che il pericolo fascista non era nemmeno la prima preoccupazione di Turati, tanto era sottovalutato sia nei socialisti, che nei comunisti, i quali erano addirittura convinti che fosse matura la rivoluzione in Europa. La sinistra ha dovuto attendere Matteotti per capire il fascismo. La rottura in Italia e nel resto del continente non avvenne sul fine ultimo, ma sulla conquista del potere e sui metodi per mantenerlo una volta conquistato: sul punto Turati è stato profetico sulle degenerazioni conseguenti all’uso della violenza. In tempi più recenti la stessa riflessione è stata fatta dal compagno Bertinotti. A distanza di anni due comunisti diedero del Congresso di Livorno interpretazioni divergenti dal “Turati aveva ragione” di Terracini all’“errore provvidenziale” di Amendola.
La divisione tra socialisti e comunisti ha caratterizzato il XX° secolo, ed è stata importante fino all’esistenza di un campo socialista al capo del quale stava l’U.R.S.S., come Stato, più ancora che il P.C.U.S., come partito, ma ha nel complesso perso progressivamente di importanza, sia per le divisioni interne al blocco comunista (modello maoista cinese), che per la disgregazione del blocco sovietico e l’indebolimento dei partiti comunisti
più forti, in competizione con il Partito Socialista, in Francia, Spagna, Portogallo e Grecia. Resta l’eccezione italiana, cioè dell’unica nazione europea nella quale la divisione tra socialisti e comunisti degli anni ’20 proietta tuttora la sua ombra e assume rilievo politico, malgrado le vicende che hanno travolto i partiti eredi delle due tradizioni e malgrado che il troncone più grosso di ascendenza comunista si chiami genericamente democratico e non si definisca di sinistra.
Silone, che pure aveva drammaticamente rotto, pagando un grosso prezzo personale, con il movimento comunista internazionale, aveva colto l’inattualità della divisione tra comunisti e socialisti, già nel 1944. Per Silone, allora Direttore dell’Avvenire dei Lavoratori di Zurigo, quattro erano le questioni fondamentali sulle quali si era consumata la scissione:
“a) difesa nazionale o disfattismo;
b) partecipazione ministeriale o opposizione sistematica;
c) legalità o insurrezione;
d) dittatura o democrazia.
Ora, nessuno di questi quattro motivi sono ancora oggi attivi nel dialogo politico tra socialisti e comunisti. Se una differenziazione organizzativa persiste ancora tra socialisti e comunisti non è certo per divergenze attuali su qualcuno di questi quattro punti fondamentali”. 2.La guerra fredda e la cortina di ferro crearono altre divisioni, che Silone non poteva prevedere e che lo smentirono.
Un superamento delle divisioni tra socialisti e comunisti risolverebbe solo in parte i problemi di una sinistra in grado di proporsi alla guida del Paese con suoi programmi e leader. Edgar Morin, sociologo e filosofo francese ha intitolato un suo famoso saggio del 2010 «Ma gauche» (La mia sinistra) e non «La gauche» (LA sinistra), perché «J’ai toujours répugné à ce LA unificateur qui occulte les différences, les oppositions, et les conflits. Car la gauche est une notion complexe, dans le sens où ce terme comporte en lui unité, concurrences et antagonisms.».3.Un pensiero socialista nel XXI° secolo non può ignorare gli apporti dell’ambientalismo, del femminismo e delle lotte per l’estensione dei diritti umani e civili. Il perseguimento di un’Unione, richiede di comprendere, sempre seguendo il ragionamento di Edgar Morin che «L’unité, elle est dans ses sources: l’aspiration à un monde meilleur, l’émancipation des opprimés, exploités, humiliés, offensés, l’universalité des droits de l’homme et de la femme. Ces sources, activées par la pensée humaniste, par les idées de la Révolution française et par la tradition républicaine, ont irrigué au XIXe siècle la pensée socialiste, la pensée communiste, la pensée libertaire»4. (Edgar Morin - 4a di copertina-op. cit.). La conclusione è che la sinistra nel XXI° secolo debba essere “socialista, comunista, ambientalista e libertaria”, cioè ricomporre i tre filoni più antichi alle sue radici, con l’apporto più recente della sensibilità ecologista, indispensabile se si pensa che sia in discussione la stessa vivibilità del pianeta Terra per il genere umano. Una tale proposta può apparire paradossale, ma ogni paradosso è tale se contiene una parte di verità, perché il processo che ha portato alla creazione di partiti nella sinistra è stato, invece, dominato dalle separazioni: i partiti socialisti dagli anarchici e i partiti comunisti dai socialisti. Queste separazioni sono state necessarie perché le discussioni interne erano fattore di paralisi, ma compiuta la loro missione( o falliti i loro obiettivi), bisogna chiedersi se sono ancora attuali per far fronte alle nuove sfide e all’impasse nella quale la sinistra appare essersi cacciata. Alle spalle abbiamo la costruzione di una società socialista, quella sovietica, nella quale le libertà sono state soppresse insieme con la democrazia e lo stato di diritto, con diseguaglianze intollerabili tra la nomenklatura e il popolo e un sistema economico inefficiente e non rispettoso dell’ambiente, al pari delle situazioni dove il profitto privato è l’unica fonte di valore. La via gradualista del socialismo democratico ha creato in Europa un sistema di protezione sociale avanzato, ma il cui mantenimento appare precario anche a causa delle gravi, recenti e ripetute sconfitte elettorali dei partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti. Sconfitte che hanno le loro radici in quella che molti definiscono ancora la golden age del socialismo europeo, quando su 15 paesi dell’UE 13 primi ministri erano socialisti e il 14° si chiamava Romano Prodi. L’adesione di principio ad un turbo-capitalismo in crescita, apparentemente infinita, ha messo in crisi il rapporto con settori tradizionali di elettorato: le sconfitte elettorali sono state provocate dal passaggio all’astensione degli elettori socialisti, piuttosto che a formazioni più a sinistra o ecologiste: il caso tedesco è esemplare poiché Linke e Verdi hanno raccolto poco meno di un terzo delle perdite SPD. Conquiste durature nel tempo e consolidate negli effetti si sono realizzate soltanto in alcuni paesi dell’Europa del Nord, si tratta di società dove le diseguaglianze si sono ridotte e la protezione sociale è estesa. Con l’ eccezione del Brasile, in nessuno dei grandi paesi del mondo e in quelli emergenti, dagli Stati Uniti5 alla Federazione Russa, dalla Cina all’India, per non parlare delle medie potenze regionali, come la Turchia, l’Iran, l’Egitto e in proiezione Africa del Sud e Nigeria, è al potere una forza politica, che si definisca socialista o che al socialismo si richiami. In un mondo dove si pone il problema di un governo mondiale per affrontare i problemi globali non è da poco constatare una riduzione dell’influenza socialista al di fuori del continente europeo e della sua appendice australe. La sinistra latino americana si presenta molto variegata. L’America del sud resta tuttavia il continente dove più fecondo si annuncia un rapporto con il socialismo europeo: emigrazione europea ed esilio sud americano hanno creato le condizioni materiali e soggettive per un confronto e un reciproco arricchimento. Le nuove esperienze di Bolivia ed Ecuador hanno superato i limiti dei primi partiti socialisti, fondati da emigranti europei,di cui si diceva che avevano i piedi in America, ma la testa in Europa. L’insegnamento di Haya de la Torre e della sua APRA, membro dell’Internazionale Socialista non è andato perduto, malgrado che il peruviano Alan Garcia non sia più un luminoso esempio di socialismo. Cile, Uruguay e Argentina hanno, invece, un sistema politico più europeizzante, specialmente i primi due e con il terzo marcato dal peronismo, le cui radici europee, anzi italiane sono evidenti . Un’Unione per il Socialismo nel XXI° secolo si deve mettere alla prova in America Latina, che sarebbe più corretto chiamare Indio-latina, per rispetto dei popoli indigeni, se vuole misurarsi a livello planetario. L’orizzonte privilegiato d’azione della sinistra italiana resta, comunque, quello europeo, anche per la ragione che l’Unione Europea costituisce un vincolo istituzionale, che non può essere ignorato, quale che sia la nostra (in)soddisfazione per il suo processo di costruzione e per il grado di democraticità delle sue istituzioni e/o di adesione ai suoi valori fondanti, che hanno privilegiato la libertà di circolazione dei capitali, la concorrenza e la tutela dei profitti, rispetto alla coesione sociale. L’europeismo deve essere un tratto distintivo dell’Unione per il Socialismo, come orizzonte dal quale aspettare che sorga il sol dell’avvenire, se mi è consentito di usare un riferimento iconografico del primo socialismo. Le ragioni sono molte. Nessun stato nazionale europeo è in grado di condurre una politica economica autonoma e al riparo dalle speculazioni finanziarie internazionali o di intraprendere una politica estera di cooperazione internazionale multipolare o di sicurezza fondata sulla pace. Una Europa politicamente unita e con una propria visione è fondamentale in zone di tensione come il Medio-Oriente o in ebollizione sociale come il Nord-Africa: l’Europa ha già pagato la sua assenza nei Balcani. Il predominio conservatore nella UE impedisce che l’Europa possa giocare un suo ruolo autonomo. Senza una politica di crescita con investimenti infrastrutturali e nella ricerca/innovazione con riduzione drastica della disoccupazione gli Stati europei non usciranno dalla crisi e saranno esposti alla speculazione internazionale sul debito pubblico degli Stati. Se le speculazioni avessero successo, sarebbe la fine dell’Euro. La debolezza della moneta europea dipende dalla mancanza di una politica economica europea e quest’ultima dall’assenza di un governo europeo, cioè da una Federazione.
Le ragioni di fondo della scelta europeista e federalista sono contenute nel Manifesto di Ventotene “per un’Europa libera e unita” scritto da Altiero Spinelli e Ernesto Rossi nel 1941 e pubblicato a Roma nel 1944 con una prefazione di Eugenio Colorni. Le biografie di questi tre uomini sono significative per l’Unione, che si deve costruire, Spinelli era un comunista eretico, Rossi un militante di Giustizia e Libertà e Colorni un socialista a tutto tondo. Spinelli e Rossi hanno potuto essere protagonisti di battaglie politiche democratiche anche nel dopoguerra e non solo in Italia6. Colorni fu, invece, come Bruno Buozzi, ucciso dai nazisti alla viglia della liberazione di Roma. Una tragedia per il movimento socialista, con questi personaggi alla guida del Partito e della CGIL lasciatemi credere, o anche illudere, che i rapporti di forza tra socialisti e comunisti sarebbero stati diversi per forza delle idee e delle cose, naturalmente. Non ci sarebbe stato il bisogno di ricorrere ad esibizioni di forza muscolare, come negli anni ’80, con l’esito che conosciamo e che hanno impedito alla sinistra italiana, a differenza di quella francese, di proporsi alla guida del paese e di perdere le occasioni per un sano revisionismo unitario. Se non a partire dai moti operai di Berlino del 1953, quelli del feroce epigramma di Berthold Brecht sulla dirigenza della SED e della DDR7, o dai fatti ungheresi del 1956, almeno dalla primavera di Praga del 1968 e dalla Polonia di Solidarność: addirittura è stato possibile ignorare, nei rapporti tra i due partiti, persino la caduta del Muro di Berlino del 1989. Le vicende italiane non hanno seguito nella sinistra quelle del resto d'Europa, dove la divisione tra Est e Ovest si è riprodotta meccanicamente. Nell'Europa orientale, come già detto, l'unificazione forzata portò alla scomparsa di ogni autonoma presenza socialista anche nei paesi dove era stato salvaguardato un apparente pluripartitismo: ne beneficiarono, invece, partiti democratici cristiani, liberali, contadini e persino nazionalisti democratici. Paradossalmente questi partiti si sono trovati a godere di un vantaggio competitivo rispetto ai socialisti democratici dopo il crollo del comunismo. In Europa la Guerra Fredda condusse i partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti ad una scelta di campo occidentale, con la sola eccezione fino alla rivoluzione ungherese del 1956 del PSI. Nel caso italiano il patto di unità d’azione portò i socialisti ad essere critici nei confronti dei primi passi della Costituzione europea, anche se alla fine si astennero sulla ratifica del Trattato di Roma istitutivo della C.E.E., mentre il PCI votò contro. In Italia socialisti e comunisti mantennero relazioni strette, senza paragone, con quelle di altri paesi europei, nel sindacato, nel movimento cooperativo, in organizzazioni di categorie, sportive e ricreative e soprattutto nel governo di comuni e province e, dopo la loro istituzione, anche nelle regioni. Il mancato isolamento del PCI all'opposizione fu un fattore di evoluzione dei comunisti italiani, come antidoto ad una chiusura settaria, ma nel contempo frenò possibili e necessari revisionismi: l’esito è stato quello di un movimento socialista, anche a causa della scissione di Palazzo Barberini, diviso e più debole del PCI. Quella che poteva essere una contaminazione feconda, fu vissuta da parte socialista come una subordinazione dalla quale liberarsi per poter raggiungere la propria famiglia europea e da parte comunista come un ostacolo per una completa egemonia a sinistra. Il risultato è stato quello di una sinistra, che anche nei momenti della sua massima espansione, quando la somma dei due partiti superava il 40% non si è mai posta l'obiettivo di governare il paese con propri uomini e sulla base di un proprio programma, dopo la batosta del 18 aprile 1948. Superare questo ritardo storico è un altro degli obiettivi da assegnare all'Unione per il Socialismo nel XXI° secolo. Nella congiuntura attuale è un compito ancora più difficile che nel passato, si vivono ancora i risentimenti dell'opposizione di principio del PCI al più profondo tentativo riformatore del dopo-guerra il primo centro-sinistra, che non sviluppò tutte le sue potenzialità anche a causa della scissione dello PSIUP del 1964 e i reciproci tentativi di emarginazione con il pentapartito di ferro e il CAF da un lato e il compromesso storico dall'altro. Un'inversione di rotta appare indispensabile per uscire da una condizione di minoranza, che esclude ogni possibile alternativa credibile al regime berlusconiano, nemmeno quando la sua disgregazione politica e morale appare evidente. Soprattutto dobbiamo una risposta alla maggioranza degli italiani, che dobbiamo far uscire dalla crisi. Una crisi, che conferma le critiche di sistema, ad un mercato senza regole e in preda alle speculazioni finanziarie più azzardate, ma dalla quale non stanno emergendo le forze di progresso e giustizia sociale, ma un mix pericolosissimo di populismi demagogici, regionalismi egoisti e nazionalismi con venature razziste. Il pericolo per le istituzioni democratico-rappresentative e per le libertà civiche è imminente e concreto: la perdita di potere dello stato nazionale, il quadro istituzionale che ha garantito la democrazia e il progresso sociale, non è stata compensata dall'estensione della democrazia e della protezione sociale nelle istituzioni sovranazionali. La dimensione europea e planetaria dei problemi richiede un confronto e una cooperazione allo stesso livello, da qui discende l'esigenza di rapportarsi prioritariamente con il socialismo europeo, che sarebbe banale ridurre a un questione burocratica di adesione al PSE o di nome del futuro partito unitario. C’è più socialismo democratico nel New Democratic Party canadese, che nel socialismo bolivariano. Nel socialismo europeo a partire dal congresso di Praga del PSE del 2009 si estende la consapevolezza di una ricollocazione a sinistra ed il processo è in corso anche nei maggiori partiti dalla SPD al Labour di Ed Miliband (si legga il volume Europe’s Left in the Crisis, how the next left can respond, edito nel 2011 da Fabian Society e FEPS). I motivi di divisione per Rino Formica sono talmente profondi da richiedere una o due generazioni: così tanto tempo non ci è consentito, a meno di arrendersi ad una concezione antropologica delle differenze tra socialisti e comunisti, così ben riassunta dall'invettiva “i socialisti coi socialisti! I comunisti coi comunisti!”, che può essere gridata indifferentemente da un emulo di Bordiga o da un seguace di Prampolini. In un contributo per questo convegno il compagno Fulvio Papi scrive che “La formazione di un partito della sinistra che superi le divisioni politiche attuali mi pare, allo stato delle cose, una opportunità interessante e, nello stesso tempo, un'impresa molto difficile. La opportunità consiste nel riuscire politicamente a rappresentare in maniera continuativa, facilmente riconoscibile ed efficace, un “blocco storico” (per usare l'espressione gramsciana) che unisca i cittadini convinti che sia rilevante per il paese e concretamente possibile una politica al cui centro sia l'obiettivo di usare le risorse disponibili per migliorare la qualità sociale della vita.” Paradossalmente ci può essere utile tornare ad un concetto, che Turati ripete nel suo celebre discorso a Livorno, con il quale rovesciò la decisione già presa della sua espulsione, cioè che non c'è differenza sul piano ideale tra comunismo e socialismo o per dire sempre con Fulvio Papi che «in ogni caso oggi il “comunismo” è il senso di una comunità che ha una cultura di solidarietà, il “riformismo” è il mezzo, molto difficile nella situazione attuale, per ottenere risultati pratici che consentano di realizzare in concreto quella finalità sociale». Oggi cominciamo a gettare un seme di dialogo e confronto, anche se avvertiamo la contraddizione tra la necessaria prudenza di non compier passi falsi e l’urgenza di elaborare una risposta. A mo’ di aneddoto vi voglio raccontare la sintesi politica di un mio compagno di liceo, che ha fatto la sua fortuna in Cina. Per lui, che in Italia era simpatizzante della destra, la soluzione dei problemi è semplice: 1) tutto il potere politico a un partito comunista 2) tutto il potere economico ai capitalisti 3) chi rompe i coglioni in galera. Di fronte a questa ricetta semplice e brutale, non possiamo limitarci alle raffinate analisi di Chantal Mouffe (Charleroi 1943) sul Paradosso democratico o su Egemonia e strategia socialista, quest’ultima insieme a Ernesto Laclau (Buenos Aires 1935)8 o aspettare la traduzione in italiano di ”Ill fares the land” di Toni Judt (1948-2010), ma dobbiamo dare indicazioni chiare e comprensibili e riparlare di unione, cioè di uno sforzo comune, e di socialismo, cioè di un’idea di società e di relazioni umane alternative a quelle presenti: ciò rappresenta un buon inizio. In Italia il quadro è reso ancora più complicato dalla divisione sindacale, che le vicende FIAT hanno reso ancora più acuto e urgente il suo superamento. Dice un proverbio turco che “le notti sono incinte, ma nessuno sa quale giorno nascerà”. Saperlo dipende in parte anche da noi.

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INTERVENTI


PEPPE GIUDICE
La corruzione del riformismo e la rinascita del socialismo
A Livorno Turati fece il suo intervento più bello e più denso di politica e dottrina.
Gaetano Arfè diceva che Turati (e con lui Matteotti e Treves) rifiutava il termine riformismo in quanto non rappresentativo della sua posizione – termine che la pubblicistica del tempo gli attribuì (i riformisti erano i seguaci di Bernstein che Turati non accettò mai)
Turati credeva al socialismo come rivoluzione permanente, ma non senso trotzkista del termine. Una rivoluzione che inizia nel momento in cui il proletariato crea i suoi suoi strumenti di organizzazione ed auto emancipazione politica e sociale e si realizza in pieno nella costruzione di un ordine sociale superiore che trascende l’orizzonte del
capitalismo.
Gran parte della tradizione del socialismo italiano è stata fedele, sia pure con diverse accentuazioni, alla linea tracciata da Turati e Matteotti. Da Nenni a Basso, a Lombardi a Saragat stesso, i contenuti di fondo del progetto socialista erano quelli.
Fino ai primi anni 80, il PSI era un partito che si poneva il problema storico-politico di superare il capitalismo.
Oggi Covatta inorridisce quando legge queste parole tratte dal preambolo dello statuto del PSI (storico) :
“Il Partito ha il fine di creare una società liberata dalle contraddizioni e dalle coercizioni derivanti dalla divisione in classi prodotta dal sistema capitalistico e nella quale il libero sviluppo di ciascuno sia la condizione del libero sviluppo di tutti.... Il
socialismo è inseparabile dalla democrazia e dalla libertà, da tutte le libertà, politiche, civili e religiose e non può essere realizzato che nella libertà e con la democrazia, così come la democrazia non può
essere attuata integralmente se non col socialismo.
Il Partito conduce la lotta contro il sistema capitalista e le ideologie che esso esprime, per superarle e costruire una società nuova, autenticamente democratica e socialista.”
Io certo non inorridisco perché quello che c’è scritto nello statuto sono le ragioni che mi hanno portato ad essere socialista.
E credo che tali ragioni dobbiamo ritrovare in pieno.
Ma andiamo con ordine. Dicevo fino ai primissimi anni 80. Craxi disse nel 1978 in una intervista televisiva che il “socialismo è per definizione anticapitalista”.
Nell’82 nel PSI Craxi rivaluta il termine riformismo per indicare inizialmente con esso un disegno di compromesso tra democrazia sociale e capitalismo che ricalca per alcuni aspetti il programma socialdemocratico di Bad Godesberg . Ma in seguito i commissari liquidatori del socialismo italiano Martelli, De Michelis e Amato vanno
molto al di là di Craxi e producono una pseudo-ideologia basata sulla acritica accettazione della modernizzazione capitalista-liberista.
Questo post-craxismo ha di fatto liquidato il patrimonio più autentico del socialismo italiano e poi ha ispirato in una versione di terza mano il nullismo terza forzista di Boselli e dell’assessore toscano in quota PD. Ma anche (e qui i danni sono stati più forti) le posizioni di D’Alema e Veltroni nei DS.
Tra fine anni 80 e II Repubblica c’è continuità da questo punto di vista. E’ infatti questo il periodo in cui è più forte la egemonia del pensiero neoliberale copertura ideologica del turbo-capitalismo.
Il centro-sinistra della II Repubblica (e lo dico anche auto criticamente) è stato commissariato nella figura di Prodi dal FMI e dal capitalismo finanziario internazionale).
Le privatizzazioni a basso costo, l’assenza di una politica industriale, l’ideologia della flessibilità costituiscono purtroppo il cedimento del centrosinistra al paradigma economico dominante.
Questo non significa che centrosinistra e centrodestra siano uguali. E soprattutto non si giustifica affatto lo squallido trasformismo di quelli che pretendono di stare a destra come socialisti. Sono solo sporcaccioni della politica. Sia perché i socialisti non stanno mai a
destra; possono stare in una cattiva sinistra o stare a casa, ma mai a destra. Sia perché la destra italiana è senza dubbio la peggiore e la più perniciosa d’Europa, diretta da un plutocrate,megalomane,imbroglione e che disonora il paese.
Ma è certo che la stagione dell’Ulivo è chiusa ed è bene che non torni.
Le vicende che ho narrato in rapida sequenza danno ragione della profonda corruzione del termine riformismo e dalla sua separazione di fatto dal socialismo.
Se si vuole essere fedeli nello spirito al Turati del 21, al Turati di Livorno (che rifiutava di dichiararsi riformista) occorre avere la consapevolezza che occorre espellere buona parte degli anni 80 dalla nostra storia.
E recuperare la filosofia di quel socialismo forte degli anni 60 che ha visto protagoniste le figure di Lombardi, Santi e Brodolini e che ha contribuito a realizzare il più importante processo riformatore della storia repubblicana (nazionalizzazione energia, statuto dei lavoratori, eliminazione gabbie salariali, scuola media unica ecc).
Quel socialismo come quello degli anni 70, si dichiarava orgogliosamente democratico ed anticapitalista.
E’ frutto della distorsione ideologica della egemonia liberale che il termine anticapitalista fa spavento e viene accostato indebitamente agli orrori del sistema sovietico.
Essere anticapitalisti, ossia essere critici e combattere con gli strumenti della democrazia il capitalismo, è l’essenza del socialismo.
Lombardi è più moderno ed attuale di Martelli.
Certo il superamento del capitalismo è un processo storico non breve.
Del resto è proprio Marx (che non era, a studiarlo bene, un massimalista) ad insegnarcelo.
Il massimalismo è antipolitico nel senso che pretende mutamenti sociali istantanei –tutto e subito - e non riuscendo ad ottenere niente si rinchiude nella sterile protesta.
Ma il socialismo è trasformazione sociale, mutamento strutturale dei rapporti di potere fra le classi (come Riccardo Lombardi ci ha insegnato). E la trasformazione è radicale e graduale al tempo stesso.
Radicale negli obbiettivi e graduale negli strumenti della politica la quale prevede anche la mediazione ed il compromesso. Ma sempre al rialzo, mai al ribasso!
Un compromesso forte implica una idea forte di trasformazione e di creazione di un ordine sociale che trascenda il capitalismo. Certo con la piena consapevolezza delle lezioni dure della storia. Che il socialismo è inseparabile dalla libertà e dalla democrazia. In questa
separazione c’è il tragico fallimento del movimento comunista internazionale. Che è un punto di non ritorno.
Ma il fallimento del comunismo non significa che il capitalismo è la fine della storia. Non significa affatto che non vi sia un nuovo progetto socialista possibile. La crisi sistemica del capitalismo implica un cambio profondo
di paradigma economico e sociale . In questo cambio si innesta la prospettiva del socialismo del XXI Secolo.
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Sandro Natalini
Voglio assicurare la Presidenza che rispetterò scrupolosamente i tempi previsti per gli interventi ma prima di sviluppare sinteticamente le mie considerazioni, trovo corretto effettuare una breve presentazione. Mi chiamo Sandro Natalini, sono il Presidente dell’Associazione Culturale Forum Terzo Millennio di Roma, un’associazione che ha l’orgoglio di essere annoverata tra i fondatori del “Network del Socialismo Europeo”, politicamente vanto “un’antica militanza” socialista mentre, oggi, sono un apolide di sinistra, insomma un senza partito, una specie politica, che a mio modesto giudizio, non trovo per niente esagerato definire, in crescente espansione.
Ciò detto, faccio i vivi complimenti ai compagni livornesi per l’organizzazione di questo evento; anzi, a tale riguardo voglio anche sottolineare che trovo piuttosto efficace, sia dal punto di vista politico che della comunicazione, l’idea d’individuare nell’anniversario della storica scissione di Livorno, un avvenimento che indiscutibilmente ha segnato e condizionato lo sviluppo civile ed economico del nostro Paese, come una preziosa opportunità per alimentare un costruttivo dibattito che contribuisca a far individuare, a quanti fanno riferimento alla sinistra riformista italiana, la via d’uscita dalla deprimente attualità politica e, soprattutto, incoraggi a prendere coscienza sulla necessità di fare tesoro dalle lezioni della storia, in altri termini, di superare definitivamente, i pregiudizi e le giurassiche divisioni ideologiche del passato per impegnarsi a costruire un futuro nel nome dell’unità di una moderna sinistra riformista, laica, liberale nel segno della tradizione del Socialismo europeo.
“In effetti, oggi, a distanza di 90 anni, non v’è dubbio che la storia, per come sono andate le cose, abbia indiscutibilmente decretato il fallimento del comunismo, certamente quello realizzato nell’URSS e nel contempo abbia salvato il socialismo, quello delle origini, quello che ha sempre cercato di mettere insieme valori quali la libertà, l’uguaglianza e la giustizia sociale”
L’esigenza di concorrere a costruire ciò che oggi in Italia non c’è ( una grande forza popolare e socialista) e che costituisce la vera ed autentica anomalia della politica italiana, nasce dalla constatazione del fallimento della Seconda Repubblica e dell’attuale sistema politico italiano, frutti entrambi della propaganda della cultura nuovista, che in questi anni, interessatamente, in nome della modernità, ha diffuso a piene mani, la vulgata della “crisi delle ideologie”, martellando in modo ossessivo l’opinione pubblica sulla necessità di demonizzare e superare gli “ottocenteschi” partiti e allo stesso tempo, esaltando le capacità salvifiche della personalizzazione della politica.
Il risultato di questa campagna è sotto i nostri occhi: partiti ridotti a comitati elettorali, partiti gestiti in modo padronale, partiti personali e senza anima, insomma un contesto che non è esagerato definire come la privatizzazione della politica.
Ciò che sta accadendo nel nostro Paese è inquietante. Può apparire paradossale ma è vero, basti dire che:nonostante la presenza di una crisi economica che come potenzialità di ampiezza e durata si presenta di proporzioni simili alla grande crisi del 29;
nonostante l’acclarata crisi della cultura economica dominante e del fondamentalismo liberista che da essa ha trovato legittimazione; nonostante ci siano state prese di posizione critiche e rappresentative quali la lettera dei 100 economisti del giugno scorso e l’Appello dell’Associazione Paolo Sylos Labini per la libertà del pensiero economico, siamo, ahimè, costretti ad assistere a sconfortanti fenomeni di ignavia politica e di pigrizia intellettuale, tipo eludere problemi quali, i pericoli della finanziarizzazione dell’economia e della liberalizzazione dei mercati finanziari, ignorare il progressivo deterioramento delle tutele e delle condizioni di lavoro e non ultimi per importanza, tacere sul drastico peggioramento nella distribuzione del reddito e l’aggravarsi della domanda. Sembrerebbe che gli effetti devastanti del capitalismo globalizzato, siano soltanto fantasticherie e squallide invenzioni.
Insomma, nel momento del bisogno, nessun straccio di reazione politica, nemmeno l’ombra di una proposta di carattere programmatico, in altri termini siamo costretti ad assistere alla progressiva desertificazione della sinistra, ai suoi silenzi ed ai suoi opportunismi, insomma alla sua marginalizzazione politica, alla sua manifesta incapacità di rappresentare i suoi storici referenti sociali, penso al mondo del lavoro, i disoccupati, in generale, i settori più deboli della società, per esempio, voglio citare i giovani lavoratori precari, che non è esagerato definire i moderni schiavi del terzo millennio, ai quali, come giustamente dicono, si sta rubando il presente e persino il futuro.
Cos’altro deve accadere per indurre il PD, SEL ed i socialisti più in generale perché finalmente avvertano l’esigenza di contribuire ad avviare, anche nel nostro Paese, un serio processo politico che faccia crescere una nuova e moderna sinistra, una grande forza popolare e socialista, in grado di relazionarsi con l’Europa e fare fronte comune con la famiglia del socialismo europeo ?
Alla crisi economica, alla crisi del sistema politico e del berlusconismo, va costruita
ed offerta, una politica di Alternativa in altri termini un progetto politico e culturale che metta al centro l’uomo ed i suoi bisogni e che sia soprattutto in grado di alimentare la speranza e faccia guardare con ottimismo al futuro.
Per raggiungere questo obiettivo, torno a ripetere che sia indispensabile fare tesoro dell’esperienze del passato, a riguardo, penso che ci sia utile attingere in modo sapiente da un saggio di Ernesto Galli della Loggia che in modo illuminante analizza le tre sconfitte della sinistra, tre date capitali della nostra storia nazionale, il 28 ottobre 1922 ( La marcia su Roma e l’avvento del fascismo) il 18 aprile del 1948 ( il successo elettorale della DC ) il 27 marzo 1994 ( vittoria di Silvio Berlusconi ) l’ideologia dello scontro frontale e la debolezza del liberalismo.
Sono dell’idea, anzi sono convinto, che per raggiungere questo obiettivo non ci sia bisogno né di rottamatori né di profeti, c’è bisogno di tanta umiltà e generosità, c’è bisogno dell’entusiasmo e della convinzione di iniziative come queste, di momenti aggregativi e culturali come le Associazioni, i circoli i movimenti e permettetemi di citare anche momenti organizzativi in rete tipo il neo Network del socialismo europeo, perché come disse esemplarmente Carlo Rosselli “ il Socialismo non si decreta dall’alto, ma si costruisce dal basso, nelle coscienze, nei sindacati, nella cultura”
Nessuno ignora che l’impresa che ci proponiamo sia molto difficile ma sono altresì fiducioso che saremo in tanti a perseguire l’Obiettivo che ci siamo prefissi.
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Fabio Vander
Partita a tre. Per una nuova lettura del Congresso di Livorno
Il taglio del mio intervento è in controtendenza. In controtendenza sia rispetto all’agiografia comunista tradizionale, sia rispetto alle interpretazioni altrettanto tradizionali di parte socialista.
Il problema è: quale fu il senso ultimo della “scissione di Livorno” del gennaio 1921?
A mio avviso non si trattò né di un passo verso la rivoluzione bolscevica, il “fare come la Russia” dei comunisti settari, né di una vittoria di Turati, geloso difensore dell’unità del partito, secondo la vulgata socialista.
La partita era un altra. Il senso ultimo della scissione comunista fu strettamente nazionale, italiano. La Russia non c’entra. Costituiva solo un punto di riferimento esterno, che entusiasmava per altro i socialisti non meno dei comunisti, ma non la ragione precipua del fatto. Il diktat di Mosca non ci fu o meglio ci fu, ma non andò a buon fine.
Livorno non fu la vittoria di Mosca, ma la sconfitta di Mosca.
Cercheremo di dimostrare tutto ciò a partire dai documenti oltre che entro una prospettiva ermeneutica originale.
L’intento non è polemico, ma pro veritate. Veritas che talvolta si nasconde nei posti più impensati (o comunque non pensati dalle menti pigre). Per il resto lo spirito unitario di questo convegno, di ricomposizione della sinistra intorno a obiettivi socialisti, è da me senz’altro condiviso.
Si diceva dell’autonomia da Mosca. Ha un senso ricordare che Bordiga, il più settario dei comunisti, ancora nel 1926, parlando direttamente di fronte a Stalin diceva: “l’esperienza dei bolscevichi, svoltasi in una situazione storica del tutto particolare, non può essere generalizzata e applicata all’Europa occidentale”. Il tema della rivoluzione in Occidente, altra da quella sovietica, era nel dna del comunismo italiano, persino di quello peggiore. Gramsci già nell’ottobre 1920 definiva una “stupidaggine” l’importazione della rivoluzione bolscevica: “i riformisti e i borghesi che accusano i rivoluzionari di vedere la Russia come modello storico, cadono in uno stupido parallelismo tra l’Italia e la Russia”.
Ma questo era chiaro anche ad un testimone del calibro di Giorgio Amendola che polemizzava con Spriano perché aveva riservato un ruolo “soverchiante” alle pressioni sovietiche, “anziché agli sviluppi della situazione italiana”. D’altro canto anche uno storico del calibro di Carlo Morandi scrive che chi interpretasse Livorno come “un fenomeno di mimetismo rispetto al modello russo, cadrebbe in errore”.
Ma che significa preminenza dell’elemento nazionale? A mio avviso che entro la frazione comunista fu elaborata una approfondita analisi della storia dell’Italia moderna; al fondo vi era la convinzione che la sistematica assenza delle masse dalla politica evidenziatasi nel Risorgimento con l’egemonia di Cavour, era rimasta intatta anche dopo la nascita dei partiti di massa, segnatamente socialisti e cattolici. Si trattava di una critica della costituzione materiale della politica italiana d’inizio ‘900.
Così come i socialisti con l’appoggio a Giolitti avevano subordinato le masse alla borghesia illuminata, così i popolari con il Patto Gentiloni si erano a loro volta subordinati ai candidati liberali.
Il PCd’I a mio avviso nasceva da qui. Dalla ricerca cioè di una prospettiva autonoma e alternativa per le masse popolari. Alternativa al “collaborazionismo” socialista e per altro verso popolare. La Russia c’entrava poco. Così come c’entrava poco l’ideologia o l’ideologismo. Si trattava appunto di analisi contrapposte della storia e della politica italiana. E di questo, oggi come ieri, bisognerebbe discutere. Evitando reciproche scomuniche e fraintendimenti.
Secondo le mie ricerche quella certa lettura era presente non solo nella mente di Gramsci, ma anche di Togliatti e del giovane Silone (ma senza mai dimenticare gli stimoli che venivano in quegli stessi anni da Gobetti, Dorso, Missiroli, ecc.). Era una strategia lungamente elaborata e perseguita. E documentabile in sede di storica. Quello che cercheremo di fare, anche con riferimento alle posizioni di Turati.
Ci sono delle testimonianze non sospette e illuminanti. Ad esempio Guido Dorso salutò nel 1925 nel PCd’I “la falange che distruggerà il trasformismo”; mentre Ignazio Silone nel 1934, espulso ormai da anni dal PCd’I, dopo aver lanciato una grave accusa ai riformisti (nella “prima fase del dopoguerra italiano i dirigenti riformisti tradirono intenzionalmente il movimento rivoluzionario”), giudicava “inoppugnabile” la scissione di Livorno.
Se si vuole capire davvero che cosa fu la scissione di Livorno occorre aver ben chiara una cosa: nel campo comunista c’erano due opzioni contrapposte, quella di Gramsci e quella di Bordiga.
Gramsci, d’accordo con l’emissario dell’Internazionale Kabacev, voleva l’espulsione dei riformisti mantenendo il PSI a guida comunista insieme ai massimalisti, invece Bordiga voleva senz’altro la scissione dei comunisti per formare un altro partito, esclusivamente comunista.
Andò che vinse Bordiga e perse Gramsci. E con Gramsci perse Kabacev, cioè l’Internazionale di Lenin e Stalin.
Ripeto: la scissione di Livorno fu contro Mosca. L’asse Gramsci-Kabacev fu sconfitto dall’asse Bordiga-Turati. Proprio così. La scissione di Livorno avvenne con il favore di Turati e l’innominabile convergenza con Bordiga.
Per questo parliamo di partita a tre. Si creò un intrecci di tattiche e interessi, di mosse e contromosse, senza dirimere il quale non si capisce nulla di Livorno (e dei successivi decenni di rapporti a sinistra).
Le prove? Se ne possono avere quante si vuole. Basta individuarle e sistemarle con mente sgombra.
Vediamo con ordine, anche se in modo per forza di cose riassuntivo.
In verità quello che fece saltare i giochi, così come erano stati preparati nei giorni precedenti il congresso da Gramsci e Kabacev, fu la vittoria di Turati.
Perché non è dubbio che il Congresso socialista di Livorno fu vinto da Turati. Nessuno se lo aspettava. Sembrava che la forte minoranza comunista, insieme al forte centro massimalista, con in più l’appoggio di Mosca, dovesse avere facilmente la meglio. E invece Turati fece un grande intervento, scaldò i cuori del grosso del partito, cambiò i rapporti di forza e alla fine vinse. O meglio vinse contro la strategia Gramsci-Kabacev, perché invece Bordiga ben volentieri accettò un risultato che, mantenendo nel PSI un forte asse riformista, rendeva inevitabile e giustificata la scissione della frazione comunista. La quale, costituitasi a PCd’I, da quel momento e ancora per anni sarebbe stata egemonizzata dall’ala più settaria, appunto quella del comunista napoletano.
Del resto Gramsci, che a Livorno non a caso non intervenì (anche se collaborò alla stesura dell’intervento di Kabacev), fu subito consapevole della sconfitta. Dalla testimonianza di Camilla Ravera sappiamo che quando all’indomani la incontrò le disse: “Livorno, che disastro!” e spiegò che per tutto il congresso aveva cercato in ogni modo di “far evitare la scissione, e che questo non era stato possibile”. Fatto confermato da un comunista settario come Fortichiari, che accusò proprio Gramsci di aver brigato per favorire “ambigui accostamenti massimalisti verso le tesi di Mosca”, così da creare una maggioranza che espellesse i riformisti, mantenendo appunto il PSI in mano a massimalisti e comunisti moscoviti. Anzi Fortichiari nel suo deliquio settario arrivò a definire “agenti staliniani preposti alla rovina del Partito comunista d’Italia i Togliatti, i Gramsci, i Terracini, i Berti, ecc.”.
Si capisce che se si leggono le cose in questi termini cambia tutto il quadro e le vecchie categorie sia ortodosse che riformiste con cui si è fin qui giudicata la questione, si rivelano inutili. E da cambiare.
Ma alcune considerazioni a parte merita il pensiero e l’opera di Turati, a Livorno ma più in generale in quegli anni. Abbiamo detto della sua vittoria congressuale. Anche qui c’è molto da rivedere e rettificare. “Turati ha avuto ragione”, come vuole l’agiografia riformista, è qualcosa che non si può seriamente dire.
Ora anche Turati indubbiamente aveva un’idea chiara e peculiare della storia dell’Italia moderna e del movimento socialista entro di essa. Si tratta di vedere quale. Egli difendeva esattamente quella strategia che i comunisti migliori gli rimproveravano: la convergenza trasformista del movimento operaio con il liberalismo di governo di Giolitti. Uno storico socialista come Vigezzi ha ricordato che la compagna di Turati, “Anna Kuliscioff, sempre difese il trasformismo di Giolitti”, i due insieme furono “seguaci di Giolitti”, ecc.; solo con la convergenza centrista con lui ritenevano infatti possibile tutelare gli interessi delle masse popolari. Indubbiamente era una strategia con una sua logica, soprattutto in Italia. Ma un giudizio critico verso di essa era ed è più che legittimo. E fu esattamente quello dei comunisti. Livorno avvenne su questo.
Anche la tesi che Turati a Livorno voleva difendere l’unità del partito, mentre i comunisti la ruppero, indebolendo il socialismo, la resistenza al fascismo, ecc. è un mito, un espediente polemico da abbandonare senz’altro. Già Teresa Noce nelle sua memorie scriveva che l’unità del partito “non la volevamo noi, frazione comunista, e non la volevano i riformisti”. Ma la prova viene direttamente dal carteggio Kuliscioff-Turati. Intanto la Kuliscioff a fine gennaio 1921, di fronte a quei comunisti che rientravano precipitosamente nel partito al fine di rafforzarlo in chiave antifascista, scriveva di non riuscire a “rallegrarsene”, perché “più comunisti ritorneranno e più difficile si farà al vita nel Partito”. Ora questo dimostra almeno due cose: 1) il settarismo non è solo una malapianta comunista; 2) i riformisti erano favorevoli alla scissione comunista esattamente come i comunisti alla Bordiga. Che è quanto volevasi dimostrare.
Ma il passaggio probabilmente più importante del carteggio è la lettera di Anna del 18 maggio 1920 in cui scrive a Turati: “vorrei si determinasse una scissione nel Partito e la polarizzazione dei migliori elementi della borghesia verso un partito democratico-socialista di governo”.
Anche qui due elementi fondamentali e clamorosi: 1) i riformisti vollero la “scissione” ben prima dei comunisti; 2) l’obiettivo era quello di stravolgere di nuovo l’autonomia del Partito facendone un’altra cosa, un tertium “democratico-socialista”, che istituzionalizzava per così dire la tradizione trasformista del decennio giolittiano.
Come si vede alcuni elementi qualificanti dell’analisi dei comunisti, quelli che furono alla base della scissione, risultano confermati.
Ma sono le parole di Brunello Vigezzi che per così dire consacrano questa certa interpretazione: “l’idea che la Kuliscioff, o lo stesso Turati, siano sostenitori a oltranza dell’unità del partito, siano dei fautori del dogma dell’unità del PSI, in buona parte è una leggenda”. Del resto anche Giovanni Sabbatucci sull’Almanacco socialista del 1982 mostrava non pochi dubbi sulle interpretazioni riformiste classiche: “c’è da chiedersi semmai se l’errore principale di Turati e dei riformisti non sia stato quello di aver perseguito a tutti i costi l’unità del Partito (resistendo alla pressione della sinistra interna e del Comintern che li avrebbero voluti espulsi), anche quando questa unità era ridotta a pura forma”.
Sabbatucci è evidentemente fra quanti non solo salutano la scissione in seno al socialismo italiano, ma addirittura rimproverano a Turati di non averla favorita abbastanza: il risultato della scissione comunista (invece dell’espulsione della espulsione di Turati) “fu salutato dai riformisti come una vittoria. Fu in realtà una sconfitta”. Questo perché i riformisti, restando con i massimalisti, non poterono per lungo tempo “bloccare” con i liberali. In pratica per Sabbatucci è sconfitta tutto ciò che impedisce la continuazione del sodalizio trasformista con Turati.
Detto per inciso: da alcuni si ritiene di giustificare la posizione di Turati di persistente apertura a Giolitti in chiave antifascista. Cioè l’unità di Giolitti, Turati e i Popolari avrebbe permesso di arginare le violenze fasciste. Ora questo apparirà non vero non appena si consideri che l’analisi del fenomeno fascista da parte dei riformisti era sbagliata. Erano convinti infatti che si trattasse di un fenomeno passeggero, dovuto agli eccessi del dopoguerra, per cui bastava ripetere la politica di “collaborazione” dell’anteguerra.
Turati al Congresso definì le violenze un “fiore di serra, effimero, che dovrà presto morire”. Vent’anni di regime avrebbero reso una “serra” totalitaria l’Italia. Ma ancora in un’intervista del 1922 definì il fascismo un fenomeno “destinato a scomparire assai rapidamente”; anzi a precisa domanda circa il fatto che l’unità con Giolitti e i Popolari fosse giustificata in chiave antifascista, rispondeva quasi urlando: “no, no! né io né i miei amici abbiamo mai prospettata l’eventualità della collaborazione proprio per combattere il fascismo”. Anche qui gli agiografi avrebbero di che riflettere: l’analisi di Turati sul fascismo era profondamente sbagliata e di conseguenza lo erano le scelte politiche, dove appunto l’unità centrista era auspicata come tale, non in chiave antifascista.
In conclusione quello che a nostro avviso risulta da una nuova interpretazione del congresso di Livorno è l’impressione di una sconfitta storica dell’intera sinistra. Del comunismo (visto che a Gramsci fu preferito Bordiga), di Mosca che vide fallire la sua strategia, di Turati che rimase ingessato con i massimalisti, del PSI nel suo insieme, che l’anno successivo, nel fatale ottobre 1922, non avrebbe trovato di meglio che scindersi di nuovo, stavolta con l’uscita di Turati a formare un nuovo partito.



Luigi Fasce – presidente circolo Guido Calogero – Aldo Capitini - Genova
Capitale e Lavoro: la secolare partita a scacchi

Compagne e compagni,
per aprire il discorso ho scelto queste citazioni per orientarmi sull'arduo compito.
«E dunque, declina mestamente la civiltà dei lumi: e nel buio di questa stagione si smarrisce anche il corredo di diritti e di dignità che ha accompagnato il cammino di emancipazione del movimento operaio.
In questa deriva si è squagliata la sinistra, con la pluralità dei suoi dialetti ideologici e con le contese intestine, con le sue proiezioni sullo schermo della grande storia, con la sua irresistibile discesa negli inferi o del più cupo minoritarismo o del colorito trasformismo. Le sinistre possono morire insieme all'Europa. Per vivere devono ridefinire, nello stesso tempo, la propria missione e la visione dell'Europa.
Qui occorre il coraggio revisionistico di Edgar Morin, … Si tratta, come con l'eleganza di una passione civile ci rammenta Morin, di ricostruire un “pensiero”, una cultura politica. … Il passo del riformista e l'orizzonte del rivoluzionario possono attrezzare un nuovo cammino: che cerchi di cogliere e recidere la radice della moderna alienazione nella vita produttiva e nell'organizzazione della riproduzione sociale. Siamo sfidati dalle cose, dobbiamo sfidare le cose.» (Nichi Vendola presentazione del libro “LA MIA SINISTRA – Rigenerare la speranza” di Edgard Morin – ed. Erickson - 2011)

«le vere rivoluzioni non sono quelle che, con un tumulto di popolo, sostituiscono alcuni governanti ad altri, ma quelle che sostituiscono un rapporto di produzione, oramai ritenuto insufficiente e sorpassato ad un altro.
Vera rivoluzione è quella che sostituisce la produzione feudale a quella patriarcale, la borghese capitalista alla feudale. E sarà quella che sostituisce la produzione socializzata alla produzione capitalista (...) Il problema della nostra epoca è oramai scoperto. Ma noi non abbiamo ancora trovato la formula per socializzare la produzione scambio consumo. O la troviamo o continuiamo a tormentarci in vani conati di rinnovamento che ci respingono sempre più verso soluzioni sorpassate, e sempre maggiormente verso la schiavitù.» (Mario Mariani, L'amore è morto, pag.249,251. Milano 1949)

“C’è riformismo e riformismo;la riforma può essere radicale, cioè giungere alle radici, superficiale cercando di rimuovere i sintomi senza toccare le cause,. La riforma che non sia radicale in questo senso non raggiungerà mai i suoi fini e porterà infine nella direzione opposta. Il cosiddetto radicalismo, d’altra parte, che credeva si potessero risolvere i problemi con la forza quando occorrevano osservazione, pazienza e attività continua, è altrettanto fittizio e poco realistico del riformismo.”(Erich Fromm)

E infine per sferzarci nel nostro urgente impegno per la ridefinizione del collante ideologico unificante della sinistra per il bene dell' Italia dell'Europa e del Mondo continuo a citare, ma tranquilli, compagne e compagni, pretendo che serva l'umanità solo per il percorso dei soli prossimi cento anni, poi si vedrà: «A forza di rimandare l'essenziale in nome dell'urgenza, si finisce per dimenticare l'urgenza dell'essenziale (Hadj Garm'Orin) e dobbiamo avere piena consapevolezza che partiamo da questa cruda realtà: i legittimi radicamenti contro la mondializzazione astratta hanno spinto le persone a ripiegare sulle etnie, le nazionalità, le nazioni, a scapito degli interessi generali dell'umanità. … Coloro i quali non vedono la storia di questo secolo che in termini economici e industriali, non si accorgono che la volontà di nazione obbedisce anche – e talvolta principalmente – a bisogni mitologici, religiosi, comunitari che vanno al di là della volontà di industrializzazione. Dimenticano le passioni umane, le follie collettive della nostra storia.» (Edgard Morin – LA MIA SINISTRA)
Delle due l'una, le riflessioni che verranno qui fatte, che necessariamente devono tenere conto delle esperienze vissute e del pensiero prodotto in questi ultimi 90 anni, o non ci consentono ancora di trovare il minimo denominatore che ricongiunga le due posizioni che hanno determinato la scissione, condannandoci alla coazione a ripetere e pazienza, Sisifo riprenderà ancora a spingere il masso verso la cima, oppure queste nostre volenterose riflessioni invece ci consentiranno di reperire le ragioni della ritrovata unione della sinistra e saremo in condizioni di tracciare il profilo di un collante ideologico che ci consenta di indicare un modello di società-mondo a partire s'intende dalla questione economica nel rispetto di persona società ambiente. Confido in questa seconda ipotesi.

Riflessione che non può altrimenti che svolgersi all'interno dei seguenti vincoli
no al monopolio dello stato-partito
no al monopolio del mercato globalizzato
no alla lotta armata come mezzo per impadronirsi dello stato
no al partito oligarchico

e con questi approdi
- un rinnovato partito socialista sovranazionale europeo
- una radicale Internazionale Socialista

Riusciremo o non riusciremo a ritrovarci nell'unione auspicata ?
Per ritrovarci almeno su un programma di azione comune, abbiamo tutti la necessità di dover definire e condividere : ruolo e funzione dello stato o meglio delle istituzioni pubbliche nazionali ed europee con il compito di gestire beni comuni e servizi pubblici;
ruolo attivo dello stato in alcuni settori strategici dell'economia;
ritrovare i confini tra compiti dei poteri pubblici rispetto a quello del libero mercato;
riportare sotto la gestione pubblica beni comuni e servizi essenziali;
ruolo di mediazione tra impresa privata e lavoro, finalizzato non solo alla sicurezza sui luoghi di lavoro ma anche alla compatibilità ecologica;
stato laico, all'interno dell'orizzonte dei diritti universali dell'Uomo, garante di liberaldemocrazia, uguaglianza di fedi religiose ed etnie;
sistema parlamentare liberaldemocratico (bilanciamento dei tre poteri Parlamento, Governo Giustizia);
fondamento liberaldemocratico dello Stato della rappresentanza partitica dei cittadini;
funzione dello stato garante della proprietà privata e della libertà d'impresa, delle libertà personali (pensiero, religione, parola, sessualità, scelta di genere, divorzio, aborto, scelta di fine vita, legalizzazione di droghe e prostituzione;
garantire efficienza efficacia degli apparati e dei servizi pubblici;
sfoltimento massimo possibile del coacervo di leggi che opprimono e stressano la vita dei cittadini e delle imprese;
prevedere forme di partecipazione di lavoratori e cittadini utenti per le aziende pubbliche;
sindacato unitario;
prevedere forme di democrazia partecipata per comuni e province;
promuovere forme di economia municipale;
predisporre banche e istituti finanziari di interesse pubblico finalizzati allo sviluppo delle imprese a finalità sociale ed ecocompatibili;
promuovere in campo sociale volontariato e associazionismo;
riconsiderare la natura della persona umana non solo nella sua espressione dell'individualismo egoista ma anche nella sua dimensione solidarista;
passare dalla parola d'ordine liberista di competizione a quella di cooperazione;
cogestione nelle grandi imprese pubbliche e private;
privilegiare il cooperativismo di impresa;
promuovere e valorizzare associazionismo e solidarismo nel terzo settore;
cooperativismo internazionale a partire dalla costituita quanto prima Federazione Europea e fino a quella rifondata su basi federative dell'O.N.U. prevedendo organismi internazionali Banca Mondiale, FMI, WTO, ILO riformati in senso cooperativistico garanti di diritti del lavoro e compatibilità ecologica in campo economico, regolamentazione del sistema monetario e bancario dei mercati finanziari e del commercio di beni materiali e immateriali, Istituti promotori di progetti e programmi di riequilibrio economico, programmi di educazione alla salute e alla sessualità per il contenimento demografico, programmazione dei flussi migratori, programmi di sviluppo della cultura dell'impresa cooperativa; promuovere cooperazione internazionale; incentivare il mercato internazionale equo-solidale, programmi per agevolare agricolture locali e commercio di prossimità; scelta prioritaria delle energie pulite da fonti rinnovabili, programma di graduale disarmo nucleare e conversione armamenti.

Questo il lungo elenco di cose comunque da fare come sinistra.

Il contesto storico e le ragioni di fondo della scissione
Prima di provare a contribuire a rintracciare la via del socialismo da poter percorrere nel 21°secolo, occorre fare almeno qualche accenno storico per meglio contestualizzare l'evento della scissione di Livorno nel 1921.
Però anche qualche considerazione è d'obbligo.
Troppo facile ora con il senno di poi constatare che le vie al socialismo di URSS e Cina sono fallite. Ciononostante, incredibile ma vero, nella recente occasione della consegna dei premi Nobel, assente Liu Xiaobo dissidente cinese in carcere per “incitamento alla sovversione”, il governo cinese polemizzando per tale assegnazione – cito a memoria – che nulla arresterà la via cinese al socialismo. Quando si dice che tutto è possibile dire di fare a parole.
Con la dissoluzione dell'URSS come sistema del cosiddetto “socialismo reale” in formale modello liberaldemocratico (vedi costituzione Russa) con economia liberista a regime sostanzialmente oligarchico.
Potere oligarchico così pure per la Cina che pur mantenendo formalmente la costituzione socialista e dittatura del proletariato identificato nel partito-stato comunista è mera dittatura con la contraddizione, chi lo avrebbe mai detto, questo sì ideologicamente inconciliabile, ma non nella prassi, ha aperto in maniera selvaggia l'economia di mercato sopprimendo, per buona aggiunta lo stato sociale universale. Denominatore comune il potere oligarchico, in Cina dichiaratamente dittatoriale, in Russia con formale sistema liberaldemocratico, sul modello fedelmente replicato degli Stati Uniti d'America, sistemi neoliberisti al servizio delle multinazionali (forze plutocratiche mondiali), che consente e agevola lo sfruttamento disumano del lavoratore. Stesso sistema oligarchico già in atto in India , Argentina e ahimè anche in Brasile, e nell'Unione Europea che dall'ultimo ventennio da laica, liberale in campo dei diritti civili, con welfare universale e socialdemocratica in economia si sta omologando al modello neoliberista-teocon ad onta di costituzioni come quella Italiana e Tedesca che hanno per modello un sistema di economia mista, governo sociale del mercato, gestione pubblica di beni comuni e stato sociale universale. Non soddisfatti di aver ibernato la Costituzione in particolar modo per quanto riguarda il titolo 3 parte economica, Tremonti propone la modifica dell'art. 41 della costituzione, per eliminare, sue parole “”la cappa di regole” che grava sull'economia “rendendo possibile tutto ciò che non è proibito”. La gravità di queste mistificanti parole è incredibile. Dopo i combinati disposti di leggi liberiste predisposti negli ultimi governi, soprattutto di centrosinistra, con questo saremmo alla costituzionalizzazione del liberismo, dell'ottocentesco il “laissez faire, laissez passé”.
E' sotto scacco proprio l'art. 41 tre capoversi di impareggiabile sintesi, di questa mia farraginosa riflessione, che qui riporto per mia e spero vostra ammirazione.
«L'iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.»

Al proditorio attacco dell'articolo 41 pare si sia aggiunto anche quello dell'art. 43
in questo caso proponendone il totale annullamento.
Attualmente per arginare questa barbarica invasione liberista post moderna siamo ridotti oramai a fare resistenza nelle piazze.
Non penso che tutto questo sia esperienza illuminante per stabilire quello per cui siamo qui convenuti a fare, certamente è fonte di grave apprensione che ci deve spingere urgentemente a trovare le ragioni del superamento della spaccatura della sinistra in Italia del 21.
Ci saranno ancora quelli che a ben scrutare trovano dentro la marxista sfera di cristallo le prove che bisogna tornare ancora oggi alle “21 condizioni” del Cominter perchè in allora – 1922 - il PSI potesse aderire all'internazionale comunista. Condizioni per sopprimere totalmente stato leviatano borghese e proprietà privata causa di tutte le disuguaglianze nel mondo, instaurare transitoriamente la dittatura del proletariato, e dunque alla indispensabilità di mettere di mezzo “la levatrice della storia”, la violenza rivoluzionaria. Prego oggi come Turati allora in nome dell'umanità tutta di desistere da questi proponimenti. Dante insegna, non si può procedere in direttissima verso il sol dell'avvenire, occorre rivolgere i passi verso il basso e al socialismo arrivarci passando prima per i gironi dell'umano inferno capitalista.

E dunque rinfreschiamoci la memoria sul contesto storico che ha determinato la scissione .
Siamo in piena reazione fascista, conniventi industriali latifondisti, monarchia, le violenze contro i socialisti sono oramai quotidiane, il congresso socialista di Livorno del 1921 avviene proprio un anno prima della marcia su Roma
Qualche citazione da Pietro Nenni “Sei anni di guerra civile 1919 – 1925” Rizzoli Milano
Quella fu la fase della massima espansione del socialismo in Italia.
La scissione di Livorno, incuranti tanto socialisti che comunisti del pericolo incombente fascista, avvenne apparentemente per motivi più che ideologici, di metodo. Per l'instaurazione del sistema socialista i comunisti erano per la rivoluzione armata contro il regime italiano clerico-monarchico-capitalista (analogo a quello russo sconfitto dalla rivoluzione d'ottobre del 1917), mentre i massimalisti e i riformisti lo stesso sistema socialista lo volevano ottenere per la via parlamentare. Dai comunisti l'esigua minoranza riformista o gradualista di Turati era addirittura da considerarsi fuori dal partito socialista. Sappiamo del tentativo a Livorno di espellerli dal partito e al rifiuto di farlo da parte della maggioranza massimalista, ma parlamentarista, determinò la scissione comunista.
Le ragioni di fondo sono che erano ben scolpiti in testa dei comunisti italiani gli obiettivi della terza internazionale e in buona sostanza le tesi di Gramsci, ma soprattutto il concreto esempio della vittoriosa e gloriosa rivoluzione russa. Difficile sottrarsi all'evidenza !
Sono i fatti della rivoluzione d'ottobre in Russia che rendono estremamente convincenti le tesi apparse su “Ordine Nuovo” dell’8 maggio 1920, che cito da Antonio Ghirelli dal suo libro “Aspettando la rivoluzione – cento anni di sinistra italiana”
Queste le proposizioni essenziali:
«1) operai e contadini al momento sarebbero “incoercibilmente determinati a porre in modo esplicito e violento” la questione della proprietà dei mezzi di produzione;
2) l’imperversare delle crisi nazionali e internazionali dimostrerebbe che il “capitale è stremato”;
3) il sistema attuale di produzione e distribuzione non riesce più a “soddisfare le più elementari esigenze della vita umana” e sussiste solo perché ferocemente difeso dalla forza armata dello Stato borghese;
4) tutti i movimenti popolari in Italia tendono “irresistibilmente ad attuare una gigantesca rivoluzione economica che strappi il potere di iniziativa nella produzione” dalle mani dei capitalisti e dei terrieri;
5) la fase attuale della lotta di classe in Italia precede o la conquista del potere da parte del proletariato rivoluzionario o una “tremenda reazione della classe proprietaria e della casta governativa” che soggiogherà il proletariato, cercando di frantumare tanto il partito tanto i sindacati e le cooperative.»
Posizioni drastiche poi, fermo restando il punto 1, in qualche modo rivedute al Congresso del Pcd'I (Partito comunista d’Italia) svoltosi clandestinamente a Lione nel gennaio del 1926 che sancì la rottura tra Gramsci e Bordiga.
Gli “elitaristi” ci rammentano però che dietro il paravento dell'ideologia, credo religioso, opera pia, partito, in ogni organizzazione si celi sempre anche la lotta per la leadership e la costituzione del gruppo di potere oligarchico.
Sui primi quattro punti anche i comunisti di oggi spero possano fortemente dubitare.
Non ci sono attualmente invece da parte di chicchessia, sulla profetica previsione del quinto punto di quello che sarebbe successo, la saldatura del capitalismo con i regimi nazifascisti in Europa a prescindere dalle forme istituzionali monarchiche o repubblicane che fossero (Mussolini, Hitler, Franco, Salazar) .
Però oggi altrettanto non c’è alcun dubbio sulla “subdola reazione egemone” da parte dell'élite plutocratica dell’internazionale teocon-neoliberista che ha infettato l’intero pianeta Terra.

Ma per comprendere ancora meglio il clima d'allora vediamo qualche altra significativa citazione di Nenni
I 15 deputati comunisti sappiamo che con Bordiga segretario del partito non pensavano di fare alcuna battaglia parlamentare ma fare da subito la rivoluzione nelle fabbriche e nelle piazze. Mentre la storia l'anno dopo risuonava una altra marcia, quella fascista, su Roma.
...
Questo per chiarire che se i comunisti avevano in allora l'assoluta certezza che solo la rivoluzione armata poteva far crollare il capitalismo borghese tanto a regime liberaldemocratico dell'Italia prefascista tanto dopo il 1922 con regime fascista, i socialisti massimalisti di Serrati restavano ancora nel limbo dell'indeterminatezza tanto dopo il congresso di Livorno del gennaio del 21 tanto prima della marcia di Roma dell'ottobre del 1922. Soppressa la seconda internazionale socialista si trattava ora, secondo il Serrati, comunista-socialista, di fare accogliere il PSI in quella nuova, il Cominter, la “Terza internazionale comunista”.
Non certo l'avvedutezza di Serrati ma gli sconvolgenti eventi storici impedirono provvidenzialmente questo innaturale parto a partire dal regime fascista in Italia che per un certo periodo non sembrò dispiacere più di tanto al Cominter.
In questo tumultuoso sconvolgente contesto nessun possibile effetto trascinante poteva avere la pacifista via parlamentare del socialismo riformista di Turati, da parte dei rivoluzionari comunisti di allora non poteva che suonare opportunistica e addirittura fuori dal solco socialista.
Ci volle l'immane sterminio della seconda guerra mondiale per chiudere in Italia con il ventennale regime fascista. A ben riflettere con avvento della costituzione italiana del 1948 si sarebbe dovuto superare la divisione di Livorno del '21 tra socialisti e comunisti. In chiave ideologica possiamo definire la nostra Carta costituzionale un manifesto liberalsocialista per cui (art. 3) vanno salvaguardati tanto i diritti della libertà individuale tanto i diritti sociali e che sancisce un modello di economia mista con stato garante del bene comune come recita il titolo terzo parte economica della Carta. Tutte le forze politiche nate dalla Resistenza hanno forzatamente messo mano alla Costituzione e ne è uscito torto collo uno splendido capolavoro di ingegneria politica e istituzionale. Il limite è stato che i comunisti non la ritenevano sufficientemente comunista, ma neanche sufficientemente socialista secondo i socialisti secondo i canoni del massimalista Nenni, e i liberali non la consideravano sufficientemente liberale, e i democristiani non la consideravano sufficientemente cristiana, tanto che hanno preteso una garanzia aggiuntiva (in realtà un vulnus alla Costituzione laica), quella sancita con il lapidario art. 7:”Lo Stato e la Chiesa Cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.
I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.” Il secondo capoverso sconfessa il primo.
Non voglio rivangare qui la responsabilità delle forze politiche che hanno voluto e votato l'art.7.
E' di tutta evidenza che in Italia sarebbe bastato riconoscersi nella nostra Costituzione e farne il manifesto dell' intera sinistra. Così come analogamente hanno fatto i compagni tedeschi nel 1959 a Bad Godesberg. Ma anche riconoscersi nelle finalità, dichiarate, dell'Internazionale socialista.
Sarebbe bastato, se ... . Si è dovuto invece attendere il tardivo timido strappo di Berlinguer degli anni '80 con l'annuncio che “è finita la spinta propulsiva della rivoluzione d'ottobre” e c'è stato bisogno di attendere il crollo del regime comunista dell'URSS ma anche l'evento della “ via liberista al socialismo” del regime dittatoriale della Cina e infine lo strappo definitivo della Bolognina dopo il 1989 per sancire la fine del PCI però senza svolgere una indispensabile opera di revisionismo e così ridefinire il collante ideologico di riferimento a fare da cornice all'agire politico per intraprendere il nuovo percorso per la costruzione del socialismo-mondo.
Anche in questo caso sarebbe bastato riconoscersi nel “manifesto” socialdemocratico di Bad Godesberg, meglio ancora nella nostra Carta Costituzionale.
Non è andata così, lo sappiamo, ma parimenti sappiamo anche che è proprio in quegli stessi anni c'è stato nella socialdemocrazia europea il processo revisionista della “terza via”, sostanziale abdicazione al liberismo. Condotta spiegabile solo in chiave elitista per cui i dirigenti socialisti europei al governo di molti importanti stati europei hanno fatto la scelta opportunistica di salvare la proprie carriere, vedi Schroeder e Blair, consegnandoci al ventennio teocon-neoliberista in cui siamo ancora immersi.
Abbiamo qui, di necessità, l'occasione storica di elaborare un più aggiornato e articolato pensiero comune a tutta la sinistra senza escludere nessuno, certi soltanto delle nostre radici comuni così bene definite come segue
“Fraternizzare il corpo sociale, sopprimere la barbarie dello sfruttamento da parte dell'uomo” (Morin) è questa a mio avviso, la finalità che deve essere tradotta nel principio valoriale di fraternità e la conseguente prassi del cooperativismo internazionale, nazionale, locale, stella polare del socialismo a cui deve ispirarsi il più articolato impianto ideologico, così come ho già indicato nella mia relazione “Nel solco del riformismo socialista quale modello di economia nel terzo millennio”nel convegno del Gruppo di Volpedo svoltosi nel 2009 a Genova.
E' questo il nuovo senso che deve essere dato allo slogan Glocale, “pensare globalmente e agire localmente”, da integrare con Morin, con “pensare localmente e agire globalmente”. Dunque Fraternità e Cooperativismo principio e prassi ancora da attualizzare.
Questa corrente di pensiero, riporto in seguito i principali autori, aveva già dato i suoi buoni frutti tra fine ottocento e primi del novecento con mutualismo e cooperative agricole e di lavoro, dissolti con la violenza fascista e che solo dopo il 1947 hanno ripreso vigore con le coop rosse bianche e verdi. Fenomeno italiano anche oggi di qualche rilievo ma assolutamente insufficiente, per affrontare le urgenti necessità poste dalla crisi finanziario-economica dopo la fine del 2008 con fallimenti di imprese e soprattutto di cinici e strumentali delocalizzazioni. In Argentina nel 2001 hanno già subito questo sconvolgimento causato dalla armata liberista in modo esplosivo, da noi in Italia avviene in modo strisciante, con costante stillicidio, ma per la dignità della persona umana con lo stesso degradante effetto. Fenomeno cooperativistico dunque insufficiente tanto sotto l'aspetto quantitativo tanto sotto il profilo qualitativo. Per profilo qualitativo intendo, giustappunto, la cultura del cooperativismo, intendo quella della mentalità solidaristica che non significa sublimazione di ogni radice dell'individualità del soggetto pensante, che non è per psicofisiologia autistica - se non quella che si manifesta in forma patologica – ma sempre in relazione con l'altro, all'interno di una comunità. Mentalità solidaristica, del lavoro in équipe finalizzato al buon operare, al lavoro utile, per il bene comune, per l'utilità sociale, ecc., quasi soppiantata dall'ossessivo mantra della competitività adducendo che l'Uomo è egoista ergo deve prevaricare l'altro, il prossimo suo. Assioma liberista per niente scientifico, come per niente scientifico era il marxismo. Da psicologo sostengo che la persona umana in quanto mammifero racchiude in se, geneticamente, tanto l'egoismo dell'istinto di sopravvivenza individuale, tanto l'istintivo altruismo che persegue la continuazione della specie e che si traduce in forza dell'intelligente uomo, venuto al mondo naturalmente senza artigli, applicata con il lavoro di squadra e con la solidarietà del gruppo di appartenenza. In chiave etologica, i dati empirici lo dimostrano, babbuini e bonobi con patrimonio genetico pressoché uguale ma anche molto simile all'animale uomo, hanno comportamenti sociali assai divergenti, i babbuini fortemente aggressivi, struttura gerarchica e maschio dominante, ma questa aggressività può essere rivolta tanto contro il competitore maschio tanto per la difesa dei componenti del gruppo in primo luogo i cuccioli, e i bonobi, “socialisti” pansessuali pacifisti. Certo le condizioni ambientali – l'aspra savana per i babbuini e la lussureggiante foresta per i bonomi - possono avere influito nella scelta comportamentale e pur tuttavia ciò non può essere possibile senza disponibilità genetica.
Poi, siccome la vulgata popolare racconta che tra tutte le specie animali l'uomo sarebbe il più feroce di tutte, l'antropologia ci ha aiutato a scoprire che gli Apachi (dalla parola zuni Apachu che significa "nemico") hanno strutturato comportamenti fortemente aggressivi mentre al contrario gli Hopi (Hopi deriva da "hopitu", i pacifici) sono estremamente pacifici. In questo caso con ambiente pressoché identico.
E infine poi lo dice anche Gesù Cristo, “Ama il prossimo tuo, come te stesso”. Pare che questo sia stato dimenticato anche dai nostri cattolici, ricordate Prodi “competition is competition” bel risultato davvero; mantra oramai nella fase calante, ma ancora attivo e non solo in campo economico privato, ma anche nell'ambito di beni comuni e pubblici servizi. Un solo esempio, la scuola pubblica quella che deve formare la coscienza del cittadino, parola d'ordine, meritocrazia ! invece di valorizzare i diversi talenti e insegnare a lavorare operosamente in gruppo.
Con la scelta di promuovere un progetto per incentivare l'impresa cooperativa, non solo si consente al lavoratore di acquisire i mezzi di produzione e diventare artefice del suo impegno lavorativo (qui non la faccio lunga sulla realizzazione di se stessi mediante il lavoro ma la questione non è secondaria), si crea l'unico impedimento concreto a possibili scellerate delocalizzazioni particolarmente distruttrici di persone e mezzi della nostra economia. Riprenderò sotto il discorso.

Entriamo nel merito
Per quanto potuto dalla rilettura dei sacri testi, ho cercato di individuarne i punti critici, tra cui il perno centrale su cui poggia l'intero sistema capitalista, quello per cui in ogni angolo del nostro universo-mondo “chi detiene i mezzi di produzione” è in condizione di sfruttare il lavoratore; questo l'elemento individuato “scientificamente” da Marx che accomuna tanto il socialismo tanto il comunismo.
“Saranno gli uomini liberamente associati a stabilire cosa e come produrre, e come ripartire i beni prodotti”(Il Capitale) finalità del comunismo di Marx che consente, a mio avviso, la convergenza con il cooperativismo.
La lotta di classe e la rivoluzione armata, il secondo elemento comune a socialismo rivoluzionario e comunismo, ma non di tutto il socialismo, né di quello pre marxista né di quello marxista né tanto meno di quello post marxista. Per quello marxista come sappiamo per un verso, i massimalisti accusati dai comunisti di essere rivoluzionari a parole e dall'altro i riformisti, dal revisionista tedesco Eduard Bernstein (1850-1932), “che, procedendo dalla constatazione che le previsioni marxiane riguardo all'inasprimento della lotta di classe e alla proletarizzazione dei ceti medi non si erano realizzate, negò l'imminenza di un processo rivoluzionario.” in poi e fino all'italiano Turati che a Livorno nel suo discorso esprime queste profetiche parole "Compagni amici, e compagni avversari; non voglio, non debbo dire nemici. …La violenza, che per noi non è un programma, … La dittatura del proletariato, per noi, o è dittatura di minoranza, e allora è imprescindibilmente dispotismo tirannico, o è dittatura di maggioranza, ed è un vero non senso, perché la maggioranza non è dittatura, è la volontà del popolo, è la volontà sovrana, questo culto della violenza non è che un fiore di serra, effimero, che dovrà presto morire.”
E' su questo aspetto, sul rifiuto della violenza che Fausto Bertinotti ha fatto la sua scelta di campo al V congresso, quando portò Rifondazione ad abbracciare le tesi della turatiana non violenza.
Ebbene “dittatura del proletariato” o “dittatura rivoluzionaria del proletariato”, dopo le esperienze fatte, è sperabile che questo teorema non sia oggi più sostenibile.
E' dunque ragionevole pensare che senza più “dittatura rivoluzionaria del proletariato” ci si possa oggi nuovamente considerare tutti socialisti.
Dunque superata la scissione di Livorno tra comunisti e socialisti ? Parrebbe di sì. Ammesso che si vogliano accettare queste considerazioni appena espresse e si volesse ripartire da questa base comune.
Ma il compito non è finito, resta aperta la diaspora socialista, quale tipo di socialismo abbiamo bisogno di realizzare per il 21° secolo?
Personalmente ritengo che si debba recuperare il socialismo delle origini.

Ma da dove ripartire, per rintracciare i fondamentali perduti ? Regredire per progredire dice la psicoanalisi !

Libertà, Uguaglianza, Fraternità
I due principi valoriali di Libertà e Uguaglianza della rivoluzione francese in questi ultimi due secoli hanno fruttificato, la Libertà producendo buoni frutti, il liberalismo: libertà individuali, parlamentarismo, contenimento del potere opprimente dello stato, bilanciamento del poteri (parlamento, governo, magistratura) e frutti cattivi il mercatismo, che ancora oggi avvelena il mondo, mentre il secondo l'Uguaglianza ha prodotto la democrazia, “la legge è uguale per tutti”, la giustizia sociale, e il frutto cattivo, i regimi comunisti, oramai finiti. Dobbiamo ancora far fruttificare il terzo principio-valoriale quello della Fraternità, quello del socialismo delle origini. E’ questo il principio stella- polare del socialismo che deve guidare il destino dell'umanità nel 21 secolo appena iniziato.
Ho già avuto occasione in un’altra circostanza di fare “Elogio della Fraternità” che qui ribadisco. Principio di Fraternità che possiamo declinare in prassi di cooperativismo locale, nazionale, internazionale e realizzare nei vari ambiti e livelli mediante il metodo del riformismo socialista.

Il socialismo delle origini
Qualche riferimento storico tanto per ricordare i benemeriti del passato, per primo Robert Owen (Newtown, 14 maggio 1771 – Newtown, 17 novembre 1858) che è considerato fondatore sia del socialismo che del movimento cooperativo, ma anche
William Thompson (1775 - 1833) che fu un fautore sia del cooperativismo che del sindacalismo e considerò il sindacato come uno strumento di lotta per ridurre il profitto dei capitalisti e per favorire la nascita di un sistema di cooperative, che avrebbe dovuto eliminare progressivamente il sistema di imprese capitalistiche.
Infine i due pensatori più noti, contemporanei di Marx con il quale ebbero dispute accese, il primo è Pierre Joseph Proudhon (1809-1865) a cui si attribuisce la celebre frase “La proprietà è un furto” ma che poi, a ben riflettere, infine arrivò a proporre la cooperazione.
«Proudhon sostiene, polemizzando con Marx, che il comunismo è un concetto mistificante, perché la proprietà intesa come possesso non può essere eliminata.
Si può, cioè, eliminare la proprietà privata dei mezzi di produzione, ma non si può eliminare la proprietà “di fatto”, quella che Proudhon chiama “possesso”. Infatti, dice Proudhon, anche se si abolisce la proprietà privata dei mezzi di produzione, questi diventeranno comunque di qualcuno, perché è impossibile non attribuirne l’uso a qualcuno. … Tale qualcuno, per Proudhon, è il lavoratore, cosicché chi lavora in una fabbrica o in un campo ne è di fatto proprietario in quanto la possiede proprio attraverso il lavoro. E’ da qui che muove l’idea dell’autogestione.
La proprietà, intesa come uso privato ed esclusivo da parte di chi la utilizza tramite il lavoro, non solo non deve essere eliminata, ma deve essere mantenuta e rafforzata, perché essa è l’unico mezzo, l’unica arma, l’unica barriera per tenere a freno lo Stato.» (Nico Berti www.unacittà.it). Preconizzava i disastri dei sistemi comunisti aldilà da venire dell'URSS e della Cina di Mao ? Oggi all'opposto il nostro pensiero va alle multinazionali, gigantesche potenze economico-finanziarie sovranazionali senza confini territoriali senza vincoli, che anzi impongono agli stati leggi liberiste.
Il secondo importantissimo pensatore politico è Giuseppe Mazzini (Genova, 22 giugno 1805 – Pisa, 10 marzo 1872), che fu anch'esso un fervido propugnatore del cooperativismo. Tanto che Mazzini indicava nella cooperazione un principio generale dell'organizzazione sociale, per cui capitale e lavoro sarebbero dovuti confluire nell'unica mano dei lavoratori, gli unici che creavano la ricchezza.

Dunque si ritorna al perno centrale su cui poggia l'intero sistema capitalista, quello per cui in ogni angolo del nostro universo-mondo “chi detiene i mezzi di produzione” è in condizione oggettiva di poter sfruttare i lavoratori. Questione che secondo i rivoluzionari comunisti sarebbe stata risolta come in URSS con la statalizzazione di mezzi di produzione e in generale di ogni forma di proprietà.
L'opposizione in generale al sistema comunista è stata una costante nell'arco di quasi un secolo, oltre che dagli antagonisti liberisti, è stata fatta anche da anarchici, liberali, cattolici, socialdemocratici e liberalsocialisti e dagli stessi marxisti Trosky, Rosa Luxemburg, ma oltre al revisionismo interno al marxismo sopra accennato c'è stato anche un revisionismo specifico covato dall'interno del comunismo stesso. L'autore, anch'esso italiano è stato Bruno Rizzi.
Perchè, sostiene Rizzi, l'apparato burocratico del partito-Stato dell'URSS detenendo in pratica i mezzi di produzione modificava in nulla le condizioni alienanti dei lavoratori in fabbrica, anzi creava condizioni ancora peggiori perché i lavoratori non potevano nemmeno lottare contro il capitalista privato di turno per migliorare salario e condizioni di lavoro. Rimando per questa “geniale” stringente logica condotta con rigoroso metodo marxista a Bruno Rizzi (La burocratizzazione del mondo – Editore Colibrì) sotto questo profilo rivalutato dalla sinistra pensante solo negli anni 70 poco prima della sua morte .
La sua tesi in buona sostanza prevede che i mezzi di produzione ma anche i servizi pubblici devono essere dati in autogestione ai lavoratori.
Ancora qualche nota sul Rizzi per il suo percorso revisionista sempre svolto all'interno dei canoni marxisti: fautore con Bordiga e Gramsci della scissione comunista di Livorno del 21, e però rapidamente critico nei confronti di Leninismo e modello URSS. Per questo altrettanto rapidamente espulso dallo stesso nel Pcd'I. Poi per quaranta anni ideologica mina vagante tra Anarchici, socialisti, radicali senza mai convincere nessuno della sua testarda idea che comunque il lavoro deve essere completamente in mano di chi lo produce o lo svolge. La parola chiave: AUTOGESTIONE, un ritorno alle origini del socialismo.
Posizione a mio parere pienamente conciliabile con le finalità del comunismo di Marx sopra indicate nella frase che qui ripeto “Saranno gli uomini liberamente associati a stabilire cosa e come produrre, e come ripartire i beni prodotti”(Il Capitale).
Con questa chiave di lettura, abbandonata la “dittatura rivoluzionaria del proletariato,”dobbiamo dunque concentrare il nostro “riformismo rivoluzionario” che non è un ossimoro ma, attualmente, necessità storica.
Il primo attiene la Pubblica Amministrazione, il welfare municipale (acqua, gas, trasporti, lavori pubblici, ecc.), imprese di interesse nazionale (elettricità, energia, ecc.) e beni e servizi di pubblica utilità (trasporti ferroviari, reti autostradali, comunicazioni, poste, ecc.)
Il secondo è quello delle grandi industrie private
il terzo è quello economico in cui operano le imprese private.
Ancora una argomentazione per fare capire perché possiamo considerarli tutti quanti sotto il denominatore comune “chi detiene i mezzi di produzione”. Il primo punto essendo in mano pubblica sembra sia solida garanzia per una gestione volta all'interesse generale, dei lavoratori che vi operano e dei cittadini-utenti.
Stessa logica per cui in URSS e nella Cina comunista di Mao le oligarchie burocratiche al potere della gestione dei servizi e delle imprese totalmente statalizzati, in nome di popolo e del partito dirigente, non avrebbero potuto fare altro che fare in particolare il bene dei lavoratori delle fabbriche e in generale al popolo. Ci sarebbero delle brutte sorprese ad aprire il coperchio dell'apparato dello stato e in genere delle amministrazioni pubbliche.
Vediamo ordunque nell'azione quotidiana concreta, con questo criterio di autogestione –cogestione - partecipazione, come svolgere la partita a scacchi tra capitale e lavoro ai vari livelli e negli ambiti lavorativi.

Amministrazione pubblica e beni comuni, imprese e servizi di utilità pubblica
Per questo ambito tra l'idea e la sua realizzazione c'è ancora molto da fare, possiamo tuttavia suggerire a tutti coloro che si stanno impegnando nel campo della psicologia dell'organizzazione aziendale, assessori e dirigenti della pubblica amministrazione, dai Comuni, comprese tutte le aziende miste a partecipazione pubblica e privata, a Province e Regioni, di cercare di metterla in pratica questa idea per la sburocratizzazione di questo consistente ambito di attività lavorativa di certo interesse pubblico. Non dimenticando, vogliamo andare oltre Rizzi, di prevedere anche la partecipazione dei cittadini alla gestione dell'impresa e del servizio pubblico. Ricordo le sporadiche ma attuali sperimentazioni per il bilancio sociale. Segnalo un esempio pratico da cui attingere idee e pratiche, quello della completa ripubblicizzazione degli acquedotti di Parigi, modello di gestione del servizio che prevede, pare, tanto la partecipazione dei lavoratori tanto quella dei cittadini-utenti.
In questo settore di attività lavorativa umana c'è da aspettarsi strenue resistenze, come del resto ai tempi dell'URSS ma anche oggi nella piccola Cuba, anche da parte di consiglieri e assessori comunali, provinciali, regionali, ma anche dai dirigenti di questi servizi che preferiscono dirigere dall'alto il resto della truppa dei sottoposti ma anche da parte degli sfruttati a tutti i livelli per la pigrizia mentale a cui sono stati indotti da questo sistema gerarchico più che funzionale alla produzione di servizi di qualità. Servizi pubblici di qualità che sono umanamente e tecnicamente possibili, per convincersene basta fare una ricognizione ai servizi sanitari qui poco distanti da noi in Francia nell'ex italiana Nizza.
Certo occorre volontà politica, volontà della classe burocratica, volontà dei lavoratori e dei cittadini e per questo ci vorrà un bel po' di tempo. Se il tempo non è maturo però è urgente mettere obiettivo nel programma del partito della sinistra che qui vogliamo fare nascere condividendone collante ideologico e obiettivi strategici.

Ambito imprenditoriale privato
E' questo l'ambito da privilegiare, per la realizzazione del fine per cui è nato il socialismo, quello, prima o poi, di licenziare i padroni. Per questo però occorre proporre soluzioni diverse a seconda della grandezza dell'impresa. Per meglio orientarci presento una breve ma significativa tabella

L'Unione Europea ha uniformato il concetto
di Impresa come segue:
Grandi e medio grandi imprese - occupati- con +di 250
Numero Unione Europea 40.000
Numero Italia 3.020 * 7,5% su Europa

Medie imprese - occupati- con – di 250
Numero Unione Europea 170.000
Numero Italia 19.076 * 11,6% su Europa

Piccole imprese occupati con meno di 50
Numero Unione Europea 1.200.000
Numero Italia 176.661 * 14,7% su Europa

Micro imprese occupati con meno di 10
Numero Unione Europea 19.040.000
Numero Italia 4.943.600 * 20,7% su Europa
Fonte Elaborazioni NetConsulting su dati Eurostat (2003) e Istat (censimento 2001)

Grandi e medio-grandi imprese
E' per questo comparto delle macro imprese, segmento minimale di cui alla sopra indicata tabella (sarebbe interessante avere la mappatura della distribuzione territoriale e l'incidenza delle imprese cooperative), che possiamo lanciare la sfida per l'attuazione della nostra Costituzione di cui al succinto art .44 che recita testualmente
Articolo di legge che non ha mai visto apparire le leggi che avrebbero dovuto stabilirne le modalità peraltro esistenti in altre parti di Europa come Svezia e Germania.
Dobbiamo però prima domandarci perché dal 1947 e fino al Trattato di Maastricht non si siano attuate le proposizioni Costituzionali.
Nonostante gli stessi padri costituenti di scuola liberale affermassero che
“lo Stato deve avocare a sé la gestione delle imprese monopolistiche ...”
Miti e responsabili, quasi socialdemocratici, i nostri liberali di allora, nevvero ?
La risposta da dare al perché dal 1947 e fino al Trattato di Maastricht non si sia dato corso a leggi applicative dell'art. 46 (al terzo punto approfondirò la questione dell'art. 45 sopra solo accennato) è che nella realtà del dopo guerra e a tutt’oggi in Italia i ”padroni”, i naturali antagonisti di classe, sono stati gli strenui oppositori della cogestione. Naturale, che così sia stato, quello che è sembra essere stato innaturale è l'opposizione dei partiti della sinistra primariamente il PCI e fino al congresso di scioglimento a Rimini, tra il 31 gennaio e il 4 febbraio del 1991, ma anche del PSI fino agli anni 80 ancora su posizioni massimaliste e poi al rovescio con il suo pragmatismo governativo senza più orizzonte socialista. Nonostante che entrambe le forze politiche costituenti abbiano consapevolmente, sebbene, debbo arguire dalle posizione successive, poco convintamente, contribuito a redigere interamente la Costituzione e la parte economica della stessa che la caratterizza in senso sociale. (LA COSTITUZIONE ECONOMICA DELL’ITALIA NELLA NUOVA EUROPA. UN’ INTERPRETAZIONE STORICA - ANTONIO MAGLIULO). A onta di queste storiche interpretazioni diventa estremamente rilevante, come riporta lo studio stesso sopra citato, che con il Trattato di Maastricht, ribadito da quello di Lisbona, si è modificata a nostra di cui al titolo terzo, in senso liberista senza che nessuno partito, tanto a destra che a sinistra se ne sia accorto. E nel caso anche peggiore che se ne sia accorto che non abbia gridato forte allo scandalo dello sfregio provocato alla Costituzione.
Dunque dal Trattato di Maastricht in poi sappiamo da chi e perché la “Costituzione Economica” è stata piegata in senso liberista.
Per poter fare fronte e rispondere efficacemente a questo scacco e che ha creato l'egemonia liberista del mercato globalizzato e che perdura da un ventennio nonostante la crisi dei mercati finanziari e di quella dell'economia materiale della fine del 2008 mi pare utile fare la storia delle occasioni mancate per contrastare lo strapotere del capitale (lavoro morto) – rispetto al capitale vivo – il lavoro dell'impresa, quello che crea la reale ricchezza. Ho detto che dal dopoguerra e fino ai giorni nostri in Germania e in Svezia la cogestione si è realizzata adeguatamente.
Facendo diversi tentativi su Google per rintracciare qualche esempio di Cogestione in Italia mi hanno dato esito negativo. Forse qualcuno dei presenti potrà segnalarmene almeno un caso. Neanche la fabbrica Olivetti, con il capostipite Adriano, l'imprenditore socialista dal volto umano, mi pare che la cogestione non sia mai stata attuata. Penso per il veto imposto dalla Confindustria Italiana.
Vediamo dunque i due principali protagonisti dell'opposizione alla Cogestione dell'impresa: il PCI e il PSI, ma anche DC;
i sindacati tanto confederali (referenti non solo ideali di PCI, PSI e di DC) tanto autonomi di destra e di sinistra.
L'opposizione del PCI e conseguentemente della CGIL alla Cogestione si fonda su ragioni ideologiche per cui la lotta di classe tra capitalisti e lavoratori non può dissolversi nell'abbraccio mortale della cooperazione tra capitale e lavoro. Sappiamo che nessun revisionismo del comunismo ha mai previsto il rientro nell'antico alveo socialdemocratico. La cogestione è possibile solo nell'ottica socialdemocratica del cooperazione tra lavoro e capitale. Negata la via socialdemocratica al socialismo negata conseguentemente la cogestione. Azione lineare. La contraddizione è del PSI per cui i fratelli operai socialdemocratici in Germania nell'immediato dopoguerra hanno accettato prontamente la cogestione d'impresa pienamente realizzata da parte del sindacato (unico), in Italia pur facendo i relativi e vari distinguo nei confronti del PCI (perché legata all'URSS, fatti di Ungheria, Cecoslovacchia, ecc.) ma per quanto riguarda la questione della Cogestione dell'impresa il PSI si è sempre mantenuto sulle stesse posizioni del PCI. Fatto poco noto, il PSI è rientrato nell'Internazionale socialista alla fine degli anni cinquanta.
Senza qui tirare in ballo la storica cinghia di trasmissione, stessa posizione di CGIL e UIL.
Anche la DC che peraltro nella fase costituente si era spesa maggiormente su questo articolo della Costituzione ha pensato bene, di fronte a queste opposizioni politiche e sindacali della sinistra di essere condiscendente con la Confindustria. Conseguentemente CISL dunque ben allineata.
Poteva mai andare diversamente ? Di questa possibilità in Italia se ne è appena accennato. Certo è che le esperienze Tedesca e Svedese erano note a qualche sindacalista di alto livello bene informato. Mi riferisco a Bruno Trentin al tempo segretario confederale CGIL e precedentemente segretario generale della FIOM e poi dell'FLM.
A questo proposito qualche citazione da – Trentin – Amato - Magno, De Donato Editore – Bari 1980.
Mentre il secondo dei tre autori è proprio quel Giuliano Amato attualmente co-autore di testi confindustriali assieme alla signora Marcegaglia.
Da Bruno Trentin “La frontiera della programmazione e i compiti del sindacato:
Questo per sapere che la realizzazione della Cogestione in Germania era cosa nota ma era anche nota la questione ben più dirompente quella del riformismo socialdemocratico, che pur con lenta gradualità in Svezia si stava progettando di fare passare di mano la proprietà dei mezzi di produzione delle grandi imprese dai capitalisti ai lavoratori. Sto parlando del Piano Meidner.
Sentiamo Trentin: Non dico con questo che Trentin fosse sparato sulla cogestione e poi semmai lo fosse stato ci avrebbero pensato altri a farlo desistere. Come è stato ampiamente dimostrato del silenzio sull'argomento fino ad oggi con il dibattito su Marchionne emigrante in America..
Ma vediamo la nota di Trentin a piè di pagina sul Piano Meidner.
Sappiamo che i socialdemocratici vinsero le successive elezioni
con Olof Palme, famoso in tutto il mondo per le sue politiche pacifiste e antirazziste, fu al che governo dal 1982 al 28 febbraio 1986 quando un killer lo uccide con due colpi alla schiena. Ad aprile del 1990 il quotidiano svedese “Dagens Nyheter” scrisse che Il Gran Maestro della loggia P2 Licio Gelli avrebbe spedito, tre giorni prima dell’assassinio, questo telegramma a un agente Cia: “dite al vostro amico che l’albero svedese sarà abbattuto”. Aveva sul tavolo di primo ministro il Piano Meidner da trasformare in legge.
Il colpevole come tutti gli omicidi politici di quell' epoca non è mai stato scoperto. Pochi anni orsono il processo per prescrizione dei termini è stato definitivamente archiviato. E' il caso di ricordare che l'offensiva neoliberista era già in corso e si stava realizzando in allora con golpe di stato come in Cile, appoggiando dittature militari in Sud America e non si disdegnavano operazioni di killeraggio individuale. Ripeto qui quello che ho avuto occasione di dire per la commemorazione di Nenni il 25 aprile scorso a Genova
Ma le “forze capitaliste del male”, non mancarono di occuparsi, mia la fantasticheria, di fare assassinare il socialdemocratico Olof Palme capo del governo Svedese che con il Piano Meidner stava per minare le fondamenta del capitalismo svedese. Se fosse stato applicato il piano Meidner (sottrazione graduale del capitale ai capitalisti svedesi - in allora ancora in carne ed ossa come da noi gli Agnelli – e assegnato ai lavoratori) l’esempio si sarebbe presto riverberato in tutta Europa e forse, con il tempo, anche negli USA. Questo il peggiore dei rischi che il capitalismo internazionale non poteva in alcun modo correre
Con l’assassinio di Palme fu assestato un duro colpo alla socialdemocrazia svedese ma anche a quella europea nel suo complesso, dal quale non si è ancora oggi ripresa.
In seguito, dopo il colpo di Stato in Cile, l’avanzata neoliberista fu inarrestabile ed ebbe il suo totale successo e senza fare esplodere nessuna bomba atomica né sull’URSS né sulla Cina, né ci fu più alcun bisogno di attuare nessun colpo di stato. Dopo il crollo del 1989 del regime sovietico dell’URSS e la conversione della dittatura cinese da sistema comunista a dittatura politica con sistema economico liberista, non ce ne fu più necessità alcuna.
Del resto il pensiero unico neoliberista coniugato con il conservatorismo religioso – tanto protestante tanto cattolico – già attivo in modo sotterraneo negli anni ottanta, diviene dilagante negli anni novanta e fino ai giorni nostri.
Il Piano Meidner dopo la morte di Palme fu accantonato e poi archiviato dai successivi governi svedesi socialdemocratici e a maggior ragione da quelli conservatori come è l'attuale al governo dal 2006.
Sebbene sopravviviamo in tempi bui e il liberismo-teocon è ancora egemone nel mondo nonostante la crisi di finanza ed economia mondiale della fine del 2008, aspettando tempi migliori, sulle tracce della Mitbestimmung tedesca e del Piano Meidner svedese possiamo impostare la nostra linea strategica di radicale riformismo socialista che possa avere qualche possibilità di muovere per dare scacco al re capitale e così finalmente licenziare i padroni della grande impresa.
Se in Italia si fosse attuata la cogestione anche solo per la Fiat che ha per 50 anni attinto imponenti risorse e agevolazioni pubbliche non sarebbe stato immaginabile il ricatto di Marchionne di delocalizzare gli stabilimenti di Mirafiori in Croazia e vederci spostare il centro direzionale a Detroit. Ma ci voleva, oltre alla Costituzione italiana, la ponderazione dei lavoratori socialdemocratici tedeschi tutti riuniti in un unico sindacato.

Medie imprese e piccole imprese
Il tessuto economico italiano, come da tabella sopra riportata è costituito da medie imprese (tra 50 e 250 addetti) con 19.706 occupati e da Piccole imprese (tra 10 e 49 addetti) con 176.661 occupati rispettivamente l'11,6% e 14,7% del totale di quelle europee. Non c'è stato verso di rintracciare dati più aggiornati; interessanti sarebbero quelli dopo la crisi del 2008 anni 2009-2010. Ma abbiamo un governo parolaio e populista che al rigore dei dati statistici non bada per nulla, specie se sono statistiche che lo sbugiardano.
E quando con ritardo dà i numeri, come nel caso dell'incidentistica stradale, tende a barare.
Certamente avrei anche bisogno per il necessario approfondimento anche dei dati specificatamente riferiti alle cooperative non importa se rosse, bianche o verdi. L'unico dato è da fonte giornalistica in occasione abbastanza recente dell'informazione data all'avvenuto patto tra Confcooperative, Legacoop e AGCI (La Stampa 9/1/2011), patto denominato dal cui articolo si ricavano alcuni numeri: 43.000 il numero delle cooperative colà confluite, 1,1 milioni di occupati, 127 miliardi di fatturato complessivo. Non è dato sapere se questo 43.000 imprese sono grandi e medio grandi, medie, piccole, e micro. Né è dato sapere la tipologia, Però sarebbe assai importante sapere quante di lavoro, quante sociali, quante di consumatori.
Non va sottaciuto il vergognoso fenomeno delle finte cooperative che butta discredito su quelle vere.
Comunque questo quadro è sufficiente per il contributo che voglio dare visto che non posso certo svolgere uno studio da ricercatore scientifico, ma è un ragionamento per cercare di individuare le strategie per sfilare pacificamente quanti più mezzi di produzione al capitalista-padrone e assegnarli ai lavoratori.
Vediamo ora quali possibili forme giuridiche possono essere adottate per queste imprese di media grandezza.
L'autogestione nella forma giuridica di cooperativa, la più nota, quella della più antica tradizione socialista già citata sembra essere quella più a portata di mano sempre che le remore mentali non si mettano per traverso.
Lo sviluppo delle imprese cooperative nelle sue varie tipologie, pur attualmente presenti in Italia rappresenta (facendo il rapporto con il complessivo dato di tutte le imprese da quelle Grandi a quelle Micro) in base ai miei calcoli un modestissimo 1%.
A mio avviso occorre incrementare questa percentuale in modo più consistente almeno in questo settore delle medie e piccole imprese.
Per almeno due ordini di motivi, il primo da sempre valido quello già chiarito di eliminare la separazione tra capitale e lavoro a favore della forza lavoro e il secondo motivo balzato improvvisamente alla ribalta con la globalizzazione, contenere per quanto più possibile le delocalizzazioni selvagge proprio nel settore delle medio e piccole imprese. Stiamo assistendo allo stillicidio di medie e piccole imprese che chiudono e bellamente delocalizzano, prima lo stabilimento a Bologna di calze OMSA, ora la piccola impresa di giubbotti militari nel napoletano magari aperta con soldi pubblici solo pochi anni orsono.
L'esperienza fatta durante la crisi Argentina nel 2001 in poi, peraltro numericamente limitata ma estremamente significativa, di occupazione da parte dei lavoratori di imprese, giustappunto, medio- piccole e dopo occupazione attivazione mediante autogestione con esito finale di trasformazione dell'impresa in forma cooperativa ci deve sollecitare a fare esattamente lo stesso da ora in avanti qui in Italia.
I lavoratori argentini hanno dovuto penare per ogni tappa del loro percorso da quella eroica dell'occupazione fino a quella di richiedere prima una legge che consentisse loro di trasformarsi in cooperativa e rilevare la proprietà dell'impresa. Fatica improba che però è stata coronata da successo. Ma fatica anche di diventare imprenditori di se stessi cambiando rapidamente, di necessità, la forma mentale da dipendente senza responsabilità a socio lavoratore con piena responsabilità. Imparare la vita di assemblea per eleggere i propri dirigenti, e ad autogestire i vari settori lavorativi. Ma anche imparare a stare sul mercato e magari a creare circuiti, nuovi circuiti di approvvigionamento materiali e di distribuzione del prodotto. C'è stato da fare una vera e propria rivoluzione della cultura del lavoro. Alcuni risultati di questa epopea dei lavoratori sono riuscito ad acquisirla direttamente con il viaggio che ho fatto di recente in Argentina. Su questo argomento un po' di informazioni possono essere rintracciate su www.circolocalogerocapitini.it sotto argomento “autogestione cogestione imprese”.
Se fino ad ora qui in Italia non si è reagito a questo stillicidio di chiusure-delocalizzazioni, ma anche di semplici e finali chiusure forse è dovuto al fatto che il fenomeno è sottotraccia e ai lavoratori è stato proposto fino ad oggi il percorso tradizionale della cassa integrazione fin che si può e poi licenziamento e avvio di calvario della riconversione lavorativa previste dalle nostri percorsi delle politiche del lavoro previsti dalle leggi. Mi chiedo se ai lavoratori in cassa integrazione di medie e piccole imprese sia mai stata data l'opportunità di decidere la conversione della impresa in cui sono dipendenti in impresa cooperativa. Eppure in Italia a suo tempo qualcosa di buono è stata fatta per dare attuazione all'art. 45 della Costituzione con la cosiddetta legge Marcora, Ministro democristiano di allora. (Legge 27 febbraio 1985, n. 49 - Provvedimenti per il credito alla cooperazione e misure urgenti a salvaguardia dei livelli di occupazione.)
Legge di grande efficacia che ha subito modifiche peggiorative nel 2001 imposte dalle solite direttive europee in nome dalla sacra competitività da assicurare ai mercati per cui lo Stato non può dare sostegni alle imprese (mentre la nostra Costituzione di cui Questa legge con le modifiche citate pur tuttavia dovrebbe trovare le sue declinazioni nelle leggi regionali (in Liguria
art. 1 (principi generali e finalità)
1 La Regione in attuazione dell'art. 45 della Costituzione, riconosce il ruolo economico e la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di
speculazione privata …
2 Per il raggiungimento delle finalità di cui al comma 1 la Regione favorisce e promuove la formazione, lo sviluppo e il consolidamento delle società cooperative e dei loro consorzi, incentiva i valori e la cultura della cooperazione, promuove e sostiene le organizzazioni di rappresentanza regionale delle cooperative operanti in Liguria che agiscono senza scopo di lucro.
...
Art. 2
(Beneficiari degli interventi)
1.Possono essere ammessi ai benefici della presente legge
a) le associazioni di rappresentanza riconosciute ai sensi dell'articolo 3 del decreto legislativo 2 agosto 2002 n. 220 – Norme in materia di riordino della vigilanza sugli enti cooperativi, ai sensi dell'art. 7 comma 1, legge 3 aprile 2001 n. 142 recante “Revisione della legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento alla posizione del socio lavoratore” presenti a livello regionale con proprie sedi in almeno tre Province della Liguria.

Art. 5 (Interventi a favore delle imprese cooperative)
1. La Giunta regionale costituisce presso la Finanziaria Ligure F.I.L.S.E. Spa un fondo denominato “Fondo regionale per le cooperative” che opera mediante la concessione di agevolazioni finanziarie alle imprese cooperative e destinato in particolare a:
2. a) favorire la nascita di nuove imprese cooperative attraverso la concessione di contributi finalizzati alla copertura delle spese di assistenza tecnica-gestionale connesse all'attività; ...
Ordunque questa dovrebbe essere la via aurea procedendo nel solco di un concreto riformismo socialista in campo imprenditoriale per quanto riguarda medie e piccole imprese mediante strumenti di legge già disponibili. Non so dire se in concreto praticabili non conoscendo l'entità dei fondi messi a disposizione e non conoscendo le pratiche agevolanti il processo costitutivo, tanto giuridiche tanto psicologiche indispensabili quanto le stesse risorse economiche. Ignoro anche le risorse e le sinergie messe a disposizione da parte della appena nata “Alleanza delle cooperative italiane”.
Per quanto riguarda specificatamente le medie imprese c'è una altra possibile via che ho rintracciato nel mio viaggio in Argentina. La forma cooperativa è stata la scelta pressochè esclusiva da parte di tutte le “imprese recuperate” con una sola eccezione.
Sentiamo con le parole stesse di José Abelli:
E questa come funziona?
Per la Zanello abbiamo cambiato modello, dopo il fallimento abbiamo invitato dirigenti e ingegneri a far parte del nostro progetto. Era imprescindibile: un trattore ha 1.700 componenti.
Comunque anche questa non è una società di capitali ma di lavoro, di conoscenze, di saperi.
Il 33% del capitale è dei concessionari, una rete di 40 negozi che gestiva la distribuzione ed erano anche loro in gravi difficoltà; il 33% è dei dirigenti (ingegneri, avvocati, ragionieri); un altro 33% è dei lavoratori organizzati in cooperativa e l'1% è del municipio di Las Varillas, dove ha sede la fabbrica.
Questo accordo è stato sancito a dicembre 2000, un anno prima della sommossa. Abbiamo incominciato a produrre il 14 febbraio con un trattore che ci avevano dato in prestito. Siamo ripartiti con 60 operai, di cui 40 avevano il «privilegio» di ricevere un sussidio di disoccupazione, che all'epoca era di 150 pesos (35 euro) e altri 20 non prendevano nulla perché non c'era nulla da prendere.(Un'altra fabbrica è possibile di Claudio Tognonato Un incontro con José Abelli – Il Manifesto 21/4/2007)
Ho avuto il grande piacere di incontrare José Abelli in quel di Rosario, Provincia di Santa Fé governata dal presidente Hermes Binner, socialista, un po' il gemello in grande, del nostro presidente della Puglia Nichi Vendola. Buon segno per queste mie speranze, Abelli discorreva con Giuliano Poletti il presidente della italiana Legacoop.
Avanti dunque, compagne e compagni, nel solco del riformismo socialista, sotto la buona stella polare del principio della fraternità, attuato con la cooperazione, che in questo caso ha segnato un precedente di eccellenza accomunando attori della distribuzione del prodotto, tecnici e manager, operai in cooperativa, e emblematico ma nel ruolo istituzionale, il Municipio di Las Verillas, garante del radicamento territoriale della fabbrica che sancisce l'indissolubilità di impresa e territorio. Abbiamo molto da fare per poter respirare questa aria di cooperativismo in campo economico che non può essere in alcun modo disgiunto dalle buone pratiche ecologiche.

Micro imprese
Mi restano da trattare le micro imprese (tra 1 e 9 addetti) che sono in Italia 3.947.000 un numero impressionante.
Ho già fatto rilevare il modesto 1% di imprese cooperative rispetto alla gamma completa che va dalla grande alla micro impresa. Volendo fare anche una comparazione unicamente tra il dato sopra riportato delle micro imprese e il dato complessivo delle 43.000 cooperative restiamo sempre al palo del 1%, magari con un insignificante n +0,09%.
Sembra impossibile pensare che si possa trattare di SPA SA SNC SRL e non so bene cos'altro. Immagino siano imprese artigiane o di vendita a carattere familiare.
Anche in questo caso conoscere la tipologia giuridicamente del dato bruto del rilevantissimo dato riferito alla micro impresa sarebbe di grande utilità per pensare di attuare politiche economiche e del lavoro di sostegno, anche con la possibilità di trasformarsi in imprese di cooperativa di lavoro.
I possibili tipi di aiuto che mi vengono in mente sono tanti. Mi domando se va in questa direzione e se sia adeguato il progetto “Mille cooperative in tre anni” di Legacoop, attualmente pubblicizzato.
Credo che con gli strumenti indicati a proposito delle leggi regionali si possa incentivare da subito una nuova cultura dell'impresa intensificare le politiche di lavoro e impresa tese a sviluppare un altro modello di economia consapevoli che, parafrasando José Abelli, un altro tipo di impresa è possibile !
Invece che l'individualista fai da te con partita IVA, progettare e realizzare un grande progetto con il quale cominciare una nuova partita per l'egemonia cultuale della fratellanza dell'altruismo, della solidarietà e della cooperazione.
Mi piace chiudere con un altro passo del libro citato di Morin.
“Quindi, civilizzare la Terra, solidarizzare, confederare l'umanità rispettandone le culture e le patrie, trasformare la specie umana in umanità diventa l'obiettivo fondamentale e globale di qualunque politica che aspiri a un tempo al progresso e alla sopravvivenza della umanità.
Ecco che cosa prolunga e trasforma l'ambizione socialista originaria.”


Bibliografia

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BESOSTRI Felice – Fili rossi Trent'anni nel socialismo – Ed. L'Avvenire dei lavoratori - Zurigo 2005

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CALOGERO Guido - In difesa del liberalsocialismo – Marzorati Editore - Milano 1972

CROCE Benedetto – Come il Marx fece passare il comunismo dall'utopia alla scienza – Laterza 1948 Bari

GALLI Giorgio – Il pensiero politico occidentale – B.C. Dalai Editore Milano 2010

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IL DIBATTITO DI LIBERAZIONE AA.VV. – La politica della non-violenza – M.R.C. Liberazione Roma 2004

MEIDNER Rudolf – IL CAPITAL SENZA PADRONE – Edizione Lavoro – Roma 1980

ORSINI Alessandro –‘ L'eretico della sinistra – Bruno Rizzi élitista democratico’ – Franco Angeli Milano 2004

POISSON Ernest – La République coopérative .- Bernard Grasset, Editeur – Paris 1920

RIZZI Bruno – La burocratizzazione del mondo – Edizione Colibrì – Paderno Dugnano (MI) 2002

RUFFOLO Giorgio – Il capitalismo ha i secoli contati – Einaudi Editore Torino 2008

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TRENTIN Bruno, AMATO Giuliano, MAGNO Michele – Il piano d'impresa e il ruolo del sindacato in Italia - De Donato Editore – Bari 1980
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Anna Falcone

Ringrazio la “Lega dei Socialisti di Livorno” per lo sforzo organizzativo profuso, insieme al Network per il Socialismo Europeo”, nell’organizzazione di questo incontro. Io partecipo oggi a nome dell’associazione “Sinistra e Futuro”, una delle associazioni fondatrici del Network, nata già da più di due anni proprio con il fine di contribuire a tracciare una nuova direzione e un nuovo orizzonte per il futuro della Sinistra italiana, tentando di ridisegnarne ‘mission’, obiettivi, priorità e identità politica. Ciò ci rende particolarmente sensibili al tema di questo dibattito che, partendo dalla memoria storica della scissione di Livorno, ci invita tutti a riflettere sugli esisti delle successive frantumazioni della Sinistra italiana, sul suo progressivo indebolimento, sulla sua attuale fragilità politica e sulla necessita di ripensarla, per rafforzarne valori comuni, corroborarne il peso politico e ridare credibilità e futuro alle sue ragioni.
Noi ci incontriamo oggi all’esito della costituzione del nostro “Network per il Socialismo Europeo” e in un momento di grande fermento fra le varie anime della Sinistra. Molti fra quanti si riconoscono nella nostra grande famiglia si ritrovano oggi in diversi contesti è occasione per affrontare con la massima lucidità e serenità, con il più largo pluralismo e riconoscimenti, quella analisi che la fine di un Secolo, e di una importante fase storica, impone a chi con coerenza e responsabilità vive per la realizzazione dei nostri comuni ideali di libertà ed uguaglianza. In questo dialogo franco e consapevole circa gli errori del passato, le conquiste, che pur ci sono state, e le più recenti sconfitte, che rischiano di essere vanificate nel presente, tutti siamo diversamente giunti alla conclusione che la Sinistra, nella sua ricchezza plurale e nelle sue spinte evolutive, o è unita o è destinata a sgretolarsi sotto il peso di spinte e forze meglio organizzate, sostenute e rappresentate in un mondo globale e ‘altrimenti’ governato.
Questo processo di evaporazione politica è ulteriormente aggravato dallo scollamento fra rappresentanti politici, dirigenti e cittadini, dalla incapacità di cogliere i primari bisogni di chi è governato, le istanze più nuove, le nuove fragilità e dare risposte e soluzioni concrete e credibili ai problemi delle classi più deboli, delle famiglie in difficoltà, delle donne, dei giovani, dei disoccupati, degli emarginati. Il dato è aggravato dalla progressiva disaffezione e perdita di fiducia nella politica, che si traduce in una percentuale altissima di astensionismo e mancata partecipazione alla vita dei partiti e, più in generale, ai processi partecipativi e decisionali pubblici. Sempre di più la politica è vista come un sistema chiuso ed autoreferenziale, i cui rappresentanti usano ruoli e funzioni pubbliche per coltivare in realtà interessi privati. Circa la metà della popolazione italiana ha rinunciato a partecipare alla vita politica ed ai momenti elettorali, semplicemente perché non crede più ai suoi rappresentanti ed alla possibilità di incidere con un voto (quasi mai libero e incondizionato) o con le loro idee al miglioramento delle proprie condizioni di vita e all’indirizzo politico del Paese. Molti di loro appartengono alle fasce sociali meno abbienti ed a più alto rischio di emarginazione ed esclusione. Questo dato è il più grande fallimento della Sinistra italiana, il più grave rischio involutivo che corre la nostra democrazia.
Noi ci troviamo a discutere di tali criticità in uno dei momenti più bui per la democrazia italiana, sia per l’evidente crisi delle Istituzioni, sia per i gravissimi conflitti fra poteri, in cui la lotta ‘per’ il potere, e per un ‘potere che non tollera controlli’, assorbe ogni energia di chi ‘decide’, nella più totale indifferenza per le emergenze di vita e di sopravvivenza di tanti cittadini, spesso nell’impossibilità degli stessi di arginare questa deriva politico-istituzionale. Quello che potrebbe sembrare un problema solo politico e di partecipazione si traduce, in realtà, in un grave vulnus democratico e costituzionale. L’esempio più lampante è di questi giorni: oggi, dopo 60 anni di Repubblica, un solo uomo si arroga il potere di decidere quali articoli della Costituzione si applicano e quali no, di abrogare di fatto alcune delle più importanti norme dello Statuto dei Lavoratori, decide che il futuro dei lavoratori e della contrattazione collettiva dipendono unicamente dal potere economico e – attenzione – di un potere economico che non ha più la testa neanche in Italia, ma probabilmente a Detroit, se non in qualche altro luogo. Un uomo solo decide i diritti. Un uomo solo decide di non avere doveri. Un uomo solo decide che la sovranità popolare si riduce e si piega alle derive del consenso plebiscitario e della delega in bianco ad un leader carismatico, assoluto e ‘legibus soluto’ o, peggio, al di sopra delle leggi e da ogni forma di sindacato legittimo.
Non è un fatto singolo, compagni, ma è un precedente che inaugura la deriva verso una democrazia plebiscitaria ed a-costituzionale, la vittoria non solo del c.d. “turbo capitalismo”, ma di un capitalismo fortemente accentrato nelle mani di pochi, slegato dagli Stati e dalla sovranità popolare, che non ne riconosce le leggi, né quindi la legittimazione democratica dei suoi poteri interni, che scavalca e calpesta con sprezzante indifferenza. Un capitalismo cieco e sordo gestito non più da una classe, non più da un gruppo di imprenditori, bensì da pochi uomini e gruppi bancari, persone che non producono, ma lucrano sul lavoro altrui tramite ardite, quanto irresponsabili, speculazioni finanziarie lanciate nelle piazze e nei mercati globali, in una dimensione dove l’unica legge è quella del più forte e la dignità delle persone, il valore delle vite e del lavoro non hanno pregio, né significato. Il profitto puro, slegato da qualsiasi legge e fini di rilevanza sociale, cieco e sordo davanti alle istanze della società, granitico nella sua spietata corsa verso il solo fine della massimizzazione dei profitti e concentrazione dei capitali nelle mani (poche) della finanza parassitaria. Sono queste mani che hanno innescato la crisi economica. Una crisi voluta: l’inizio di quella che alcuni economisti hanno battezzato come “shock economy”, un modello caratterizzato dal controllo finanziario sulle oscillazioni macroeconomiche del mercato globale. Un controllo totale, che consente ad una economia concentrata nelle mani di pochi, e libera da regole e limiti, di dettar legge sugli Stati e sulle persone. Un modello che grazie al controllo sui mercati, sulle sue variazioni positive e negative e, quindi, anche sulle sue crisi, determina l’andamento delle monete, degli scambi, la crescita o la recessione di intere economie nazionali e sovranazionali. In una parola governa sui governi e sulle loro scelte politiche, sulla possibilità di investire o meno, di programmare il futuro o limitarsi a ricucire il presente. Più subdolamente, la c.d. “shock economy” mira a dirigere ed utilizzare a vantaggio dei suoi fautori le paure che le crisi innescano, convincendo, o tentando di convincere le persone dell‘ insostenibilità economica dei diritti e dello Stato sociale, della necessità di cedere porzioni progressive di libertà e diritti, in cambio di una generica e fumosa ‘sicurezza generale’, bene primario in un mondo tanto più globale quanto più ‘pericoloso’ e insicuro. In definitiva: l’idea, indiscussa ed indiscutibile, dell’impossibilità di garantire insieme libertà, uguaglianza e giustizia sociale, tradotto in linguaggio politico, di realizzare delle compiute Socialdemocrazie.
In Italia la situazione è ancor più drammatica, perché il nostro Paese non solo non è rappresentato in questo ‘turbo capitalismo globale’, ma ha perso negli ultimi anni buona parte della sua rappresentanza di Sinistra, e le forze attualmente presenti in Parlamento non sono in grado, alla prova dei fatti, di condurre una opposizione convincente, né di costruire una alternativa politica credibile contro quell’agglomerato di demagogia, menzogne e interessi personali che ha sostituito sui banchi del Parlamento, la Destra politica del Paese.
A questo ricatto globale, alla crisi democratica del Paese dobbiamo reagire con una nuova spinta ideale e con l’elaborazione e la proposta di un nuovo modello di sviluppo immediatamente spendibile e realizzabile. A partire dall’economia, perché è qui che la Sinistra ha fallito più gravemente, delegando ad ideologie liberiste e neocapitaliste la determinazione dei modelli di produzione della ricchezza, come unici modelli possibili. O spesso cedendo acriticamente alle sirene del liberismo senza limiti e senza regole per rilanciare economie asfittiche e povere di idee e ideali sociali, solidali e realmente meritocratici. C’è una ‘Costituzione economica’ che ancora aspetta di essere attuata, ma che qualcuno sta cercando di cancellare ancor prima che sia sia riusciti ad attuarla. Ci sono norme fondanti del nostro ordinamento che riconoscono e garantiscono la libertà dell’iniziativa economica, ma nel contempo vietano che essa possa svolgersi “in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Norme che chiedono che la proprietà privata “riconosciuta e garantita dalla legge” deve poter essere accessibile a tutti e disciplinata in modo da assicurane l’utilità sociale. Norme che, in una visione lungimirante ed evolutiva dei modelli aziendali, di produzione e responsabilizzazione del lavoro “ riconoscono “il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”, e proprio “ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione”. Quando abbiamo iniziato a vergognarci di queste fondamentali conquiste di libertà e di civiltà? Quando abbiamo rinunciato a realizzarle? Anche grazie a questo oblio, a queste debolezze, oggi un lavoro, una casa, una famiglia, un progetto di vita libera, un futuro sono diventati chimere per troppe persone.
Un economia sana non può che ripartire dal riconoscimento dell’uguaglianza ed uguale accesso a tutti ai diritti, alla educazione, alla cultura, alle libertà economiche e politiche, alle pari opportunità di una società libera, democratica e solidale, dalla valorizzazione dei talenti, della varia ricchezza, della dignità delle persone e di ognuna di loro a prescindere dal censo, dal sesso o dal territorio in cui sono nate; dalla ‘de-mercantilizzazione’ del lavoro, intesa oggi come merce e non come valore; dalla ricostruzione di un sistema di sicurezza sociale che non sia elemosina di Stato, ma sostegno, riqualificazione, riprogrammazione delle politiche economiche e sociali, per far rientrare uomini e donne nel mondo del lavoro, non cancellarle silenziosamente dalla vita attiva; da una rivisitazione delle professioni volta a garantire trasparenza, libertà di ingresso e qualificazione, non baronie ereditarie e privilegi; da un sistema fiscale e di accesso al credito che aiuti e premi le imprese sane e gli imprenditori onesti; da un sistema bancario che agevoli il microcredito e il sostegno allo sviluppo, da Nord a Sud, e sia compartecipe di una strategia nazionale, non soggetto di rapina e intollerabili speculazioni; da un rilancio della ricerca e della cultura come strumento di ricchezza e primario obiettiva strategico di ogni reale sviluppo; dalla valorizzazione delle energie alternative disponibili e dal finanziamento degli studi su altre fonti di energia sicure e pulite; dal sostegno alle famiglie, agli anziani, ai nuovi nati con centri, asili e strutture educative di qualità; dalla liberazione delle risorse delle donne, unico vero motore di solidarietà sociale in questo Paese, che devono poter contribuire con le loro idee ed i loro talenti alla rinascita del Paese, senza più essere vittime del più subdolo dei ricatti quello che contrappone affetti a libertà, lavoro e realizzazione personale a figli e famiglia. In una democrazia la libertà è per tutti, senza menzogne e senza ricatti. E la libertà, la pari dignità, la realizzazione di tutti è l’unica vera garanzia di successo per quella democrazia e per quel Paese.
E’ questo che il disperso popolo della Sinistra si aspetta da noi: un nuovo progetto ambizioso e possibile, e con esso una nuova classe dirigente in cui credere ed avere fiducia, su cui costruire il nostro comune futuro. La sfida democratica a cui siamo chiamati, sta nel provocare quel salto di qualità, quel passaggio da una democrazia promessa ad una democrazia effettiva, da una rappresentanza politica formale, ad una partecipazione sostanziale, libera e consapevole, di tutti i cittadini alle scelte pubbliche. Le nuove tecnologie ci danno in tal senso utilissimi strumenti di interazione, dibattito e discussione, utili e necessari per far rinascere il senso del ‘noi’, e con esso la consapevolezza di come l’unione di tanti possa contrapporsi, con forza e dignità, alla cieca arroganza di pochi.
Eppure questo percorso non può più passare dai bei discorsi o dal solo entusiasmo di chi vuole cambiare. Dobbiamo lavorare, e con grande impegno, e con tutte le forze della Sinistra a nuove inedite soluzioni al problema occupazionale, energetico, ambientale, della produzione e redistribuzione della ricchezza, della circolazione di uomini, idee e risorse, dello sviluppo sostenibile, dell’uguaglianza sostanziale fra uomini e donne, delle pari chances e diritti fra generazioni, della convivenza rispettosa e costruttiva fra etnie, popoli e culture. E per far questo dovremo fare sintesi e tesoro del meglio che ha potuto esprimere in esperienze, idee, organizzazione la Sinistra tutta, integrando le istanza che vengono dalla cultura ambientalista e, soprattutto, dai nuovi movimenti dalla società civile. E pure le nostre idee non bastano: dobbiamo chiamare a ragionare con noi, in un nuovo grande momento di rifondazione civile politica e sociale, le migliori menti del nostro tempo, i talenti emarginati e inascoltati, i giovani, le donne, le culture altre con cui le nostre società sono
chiamate a confrontarsi. Dovremo - noi che abbiamo vissuto di ideologie e simboli - andare oltre i nostri nomi, le nostre famiglie politiche e le nostre identità. E’ necessario. E’ indispensabile. Perché il futuro sia veramente un nuovo inizio fondato su ideali e gli obiettivi politici comuni e da ridisegnare insieme, non una freccia lanciata nel cielo e zavorrata delle ambiguità, dei personalismi, delle divisioni del passato. E’ questa la nostra prova di responsabilità, la condizione di esistenza per una Sinistra che non si arrenda ai ricatti esterni, né a se stessa, ai suoi limiti ed ai suoi condizionamenti storici. Che il passato non sia più un muro invalicabile, ma un tesoro di ricchezza ed esperienza a cui attingere, da ricordare, ma anche da dimenticare, se necessario, in ogni modo da superare.
Diciamocelo chiaramente: il momento è talmente grave che chiunque a Sinistra si ostini a perseguire una politica di bottega e autoconservazione, è semplicemente un irresponsabile e, soprattutto, non è coerente con i fini della Sinistra.
Occorre rinnovare una classe dirigente che ha fallito nella credibilità personale e nella proposta politica. Occorre lavorare a un percorso federativo che miri alla nascita di un nuovo soggetto della Sinistra italiana, unito e plurale con un forte radicamento nel Socialismo Europeo, nella cultura ecologista, libertaria e riformista. Chiunque ancora oggi si permetta di escludere chiunque fra i soggetti della Sinistra riformista da un tavolo di incontro e confronto, semplicemente, è fuori dalla Storia. Ogni soggetto della Sinistra ed i tanti movimenti della società civile, in cui si identifica una base che oggi non vota più a sinistra, sono tutti portatori di istanze sociali e valori che devono trovare una giusta sintesi nel dibattito che dobbiamo aprire a partire da subito.
Sia chiaro a tutti. Solo uniti e forti di una nuova proposta politica potremo essere credibili agli occhi degli italiani. Solo uniti potremo sperare di rilanciare il ruolo storico e sociale della Sinistra. Solo uniti si vince. Fondamentale, in tal senso, è la necessità di una sintesi, che la Storia ci chiede di fare, fra le migliori esperienze e risultati della Sinistra e del riformismo italiano: sono più di 15 anni che ci sottraiamo a questo doveroso passaggio. Non chiedo a nessuno inutili abiure, o di rinnegare la sua identità passata e la sua Storia, ma solo una onesta presa di coscienza dei tanti errori del passato e delle immense opportunità del futuro, per le tante forze disperse della Sinistra, se solo saranno capaci di andare oltre se stesse e le loro divisioni, ormai antistoriche. La crisi democratica in atto e l'esclusione di fatto della Sinistra dalla scena politica italiana richiedono scelte coraggiose e adeguate alla gravità del momento. A partire dai prossimi appuntamenti elettorali. Anche qui, chi volesse giocare ancora alle sterili alchimie, alle strategie delle alleanze senza prospettiva, destinate a sopravvivere il tempo di una campagna elettorale, ai colpevoli silenzi pur di conquistare il favore del ‘principe’, alle facili ritrattazioni è fuori dalla responsabilità del presente, è cieco nei confronti del futuro.
E’ tempo di una nuova Sinistra. Una sinistra che risponda alla globalizzazione dei ricatti, con la globalizzazione dei diritti e la riqualificazione della politica, nei contenuti, nei progetti e nei suoi rappresentanti.
Anche solo porne le basi è un lavoro estremamente difficile, lo sappiamo, ma non per questo possiamo sottrarci. E’ una sfida a cui devono lavorare tutti, le parti sane e responsabili dei partiti, ma anche e imprescindibilmente i movimenti, i circoli, le associazioni che si muovono e si riconoscono negli ideali della Sinistra. Sarà rinascita se ci sarà la base, se finalmente partiti si riapriranno ai cittadini, alla democrazia e partecipazione interna. Queste elezioni devono decretare, con l’inizio di una nuova stagione politica, la fine dei “sultanati” e della gestione personale dei partiti. E’ lì che nasce la degenerazione della Sinistra, la sua incoerenza fra una ‘mission’ politica di ‘liberazione dal bisogno’ e ‘valorizzazione dei meriti’, e una pratica inquinata da troppi “dirigenti” che sull’uso clientelare del bisogno e la mortificazione dei talenti hanno costruito le loro carriere. I proclami di vittoria e le ipocrite soddisfazioni sono funzionali al tentativo di legittimare queste classi dirigenti che hanno tradito gli ideali della Sinistra e fallito nei fatti, ma non si rassegnano a cedere il passo al nuovo, a guardarsi allo specchio e vedere che, senza possibilità di errore, “il re è nudo” e non c’è chi possa rivestirlo a parole continuando a ingannare i cittadini e l’elettorato. Che sia chiaro a tutti: siamo quasi spariti e, nell’area Socialista, numericamente irrisori. Ciò non significa che sia sparita o finita la Sinistra. La gente, però, non voterà più a Sinistra se la Sinistra non ritroverà:
a) una sua unità interna basata su una visione nuova di società più lungimirante, appetibile e moderna di quella proposta dalla Destra (penso a quanto fatto in Spagna in occasione delle ultime elezioni politiche, ovvero, alla convention dei migliori cervelli mondiali che Zapatero convocò per riscrivere programmi e futuro del Socialismo spagnolo. Sarebbe impossibile una operazione analoga per noi soli socialisti, ma insieme a tutti i compagni della Sinistra si può, anzi si dovrebbe, fare);
b) rappresentanti di riconosciute capacità, che mettano la riuscita di questo progetto di ‘rifondazione’ e ‘rinnovamento’ prima delle proprie carriere politiche, persone in cui gli elettori si possano riconoscere e di cui si possano fidare. Facciamocene una ragione: quasi nessuno crede più alla sola ideologia, viviamo una fase post-ideologica e di gravissima crisi ideale e valoriale, in cui i cittadini votano chi ritengono più capace e meglio attrezzato per risolvere i loro problemi più urgenti e quotidiani. Il voto ideale, sociale, politico è tutto da ricostruire.
Le alleanze e le strategie verranno poi e saranno determinate dalla nostra forza di soggetto compiuto e credibile della Sinistra, dagli obiettivi e caratterizzazione che ci saremo dati e, quindi, dal successo di questa prima fase. Certo è che nessuna forza di ispirazione Socialista potrà trovare un coerente collocazione in nessuna area degli ignavi, o, come si dice oggi, ‘terzopolista’. Il Socialismo o è di Sinistra o non è. Ogni alleanza elettorale, pur indispensabile nel nuovo quadro politico che si va delineando, dovrà essere sostenuta da una attenta valutazione circa la sua utilità ai fini della realizzazione degli obiettivi politici, non dagli interessi elettoralistici locali e/o personali. Abbiamo pagato il prezzo la mera strategia del ‘primum vivere’ (a costo di caricare chiunque sul carro), dei compromessi che ciò ha comportato nella selezione delle candidature e delle classi dirigenti, della zavorra di opacità e sospetto che si sono portate dietro, dell’emarginazione colpevole di tante menti libere e dei migliori e più radicati militanti di base. Non può esserci spazio per alcun ‘personalismo’, alcun ‘inquinamento esterno’ in una forza politica seria che si proponga il difficilissimo compito di riportare i cittadini al centro dell’azione politica, i loro diritti e libertà, la giustizia sociale, la solidarietà, la dignità delle persone, la libertà del bisogno e dai condizionamenti dei ‘poteri nudi’ quali priorità di tale azione politica. In questo non possono esserci ‘compromessi’.
Per questo è quanto mai necessario tornare ad essere uniti, perché solo uniti saremo forti e autorevoli, verso i cittadini, ma anche nel confronto e rapporto politico con le altre forze. Altrimenti, inutile ingannarsi, subiremo di destino di essere fagocitati, senza accorgercene (o facendo finta di non volersene accorgere) da altre forze e da altri poteri, subirne le scelte, legittimarne a priori, e senza poter negoziare il proprio peso politico, le strategie. Anche per questo è necessario ripartire dalla base e da un dibattito sui temi che costituisca l'amalgama di valori condivisi e comuni, il nuovo D.N.A. della Sinistra. L'Unità si deve costruire questa volta su obiettivi comuni, non su mera opportunità di sopravvivenza. Vogliamo vivere e operare, non sopravvivere come inutili atomi di un sistema che non determiniamo e sul quale non siamo in grado, da soli, di incidere.
A noi Socialisti è chiesto anche di più. Chi è socialista, e lo è davvero, nei valori, nelle priorità politiche, prima che nelle tessere, deve dare oggi al Socialismo una chance di rinascita, anche in una forza politica che abbia un nome nuovo, ma che possa e voglia inglobare e rilanciare in un nuovo progetto politico i valori del Socialismo. Chi è di sinistra, in ogni sua articolazione, deve avere il coraggio di fare un passo indietro rispetto alla sua asfittica autonomia e passata identità, per farne tanti in avanti. Realisticamente non abbiamo altra speranza di futuro. E’ un passaggio difficile, ma non impossibile. Passa necessariamente dalla scomposizione e ricomposizione delle forze del centro-sinistra, dalla rifondazione dei partiti politici sul modello democratico e partecipativo, indicato dall’art. 49 della Costituzione, ma ancora deliberatamente inattuato, dal riconoscimento di dignità politica ai tanti movimenti popolari e spontanei che testimoniano la voglia di rinascita civile, sociale e politica di questo Paese. Noi siamo e vogliamo essere, con questi uomini e queste donne, uomini e donne del nostro tempo, forti delle nostre radici passate, ma determinati ad andare avanti per realizzare quelle idee e quel progetto sociale equo, solidale e libertario che viene prima di noi, del nostro nome, delle nostre singole identità, e che è la nostra anima sempre, passata, presente e futura.
Noi siamo ciò che facciamo, prima ed a prescindere dai nomi, dai simboli,
dalle parole. Che sia un augurio ed una guida per tutti noi.
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Francesco Somaini – presidente Circolo Rosselli - Milano
Compagne e compagni,
Devo dire che a me riesce francamente piuttosto difficile, e mi suscita per molti versi delle perplessità, pensare che noi si sia venuti qui a Livorno, in questa bella città, e dal così alto significato evocativo, per discutere davvero di come si possano o si debbano superare le ragioni di quella lontana frattura di novant’anni or sono che segnò la separazione della componente comunista dal Partito Socialista Italiano.
Intendiamoci: io non penso assolutamente di negare che quella del 1921 sia stata una data centrale nella storia della Sinistra italiana (e più in generale nella storia d’Italia), né voglio certo sostenere che non sia importante riflettere storicamente su quella vicenda.
Al contrario: penso che ragionare di storia sia sempre una buona cosa, e credo che la vicenda della scissione di Livorno del ’21 meriti senz’altro di essere ripensata, anche perchè sono anch’io convinto, come ricordava poco fa Fabio Vander, che fu in realtà una vicenda un po’ più complessa di come essa è stata frequentemente raccontata e proposta dalle diverse vulgate, socialista e comunista.
Riflettere su quella pagina di storia è dunque certamente opportuno. Ma questo non è un convegno di storici. E noi siamo qui per ragionare di politica, cioè delle prospettive future del Socialismo e della Sinistra italiana.
In questa prospettiva, nel quadro cioè di un ragionamento proiettato verso il futuro, io trovo appunto fuorviante parlare della necessità di un superamento di quella lontana frattura.
Lo penso essenzialmente per due ragioni.
La prima è che su un piano strettamente concettuale non mi pare che sia in realtà affatto venuta meno la necessità di affermare che il Socialismo non è pensabile al di fuori di una cornice di democrazia e di libertà. Idee come quelle di una presa violenta del potere e della fondazione del Socialismo per mezzo di una dittatura (fosse pure una dittatura del proletariato) non credo possano essere considerate accettabili. I comunisti del 1921 (e per vero dire anche una parte rilevante di coloro che rimasero nel PSI) erano convinti che quelle idee fossero condivisibili. Ma oggi non sarebbero in alcun modo riproponibili, e del resto gli stessi comunisti italiani, nel corso della loro storia, se ne seppero sbarazzare, per cui proprio non si vede per quale motivo noi, oggi, ci dovremmo porre il problema di colmare, dopo novant’anni, la siderale distanza che ci separa da chi sosteneva, allora, quel tipo di opzioni.
La seconda ragione per cui considererei davvero fuorviante parlare di un superamento della frattura tra Comunismo e Socialismo è data dal fatto che - sul piano storico – il Comunismo è in realtà già stato chiaramente sconfitto e superato nel corso del Novecento. I regimi comunisti si sono infatti rivelati invariabilmente oppressivi, dispotici e liberticidi; e non mi pare che ci possa interessare l’idea di un “recupero” culturale del Comunismo.
Piuttosto, vorrei semmai ricordare, a questo riguardo, un episodio che mi pare suggestivo, e di cui qualche tempo fa mi capitò di discutere piuttosto a lungo sulla mailing list del gruppo di Volpedo. E’ un episodio che ha per protagonista Bettino Craxi (ebbene sì, proprio lui!), e che risale a quel giorno di novembre del 1989 in cui si verificò la caduta del Muro di Berlino. L’arrivo di quella notizia era in un certo senso la certificazione che il Comunismo sovietico era definitivamente crollato. E proprio allora Craxi decise di far esporre dal balcone della sede socialista di via del Corso, a Roma, una grande bandiera rossa. Il significato di quell’atto era quello di far capire che il Comunismo era finito, ma che esisteva ancora una bandiera rossa che poteva sventolare con orgoglio, ed era la bandiera del Socialismo democratico e libertario: la bandiera del Socialismo europeo.
Sia chiaro compagni: io non sono in realtà affatto tenero o accondiscendente (e tanto meno assolutorio) nel mio giudizio storico e politico sulla figura di Craxi e sul Craxismo. Tra l’altro, trovo che anche il modo con cui Craxi gestì proprio la stagione politica seguita al crollo del Muro di Berlino sia stato nel complesso negativo, soprattutto perchè egli agitò in modo strumentale la parola d’ordine dell’Unità Socialista, presentandola come una sorta di pretesa annessionistica verso l’ex PCI. Craxi pensò cioè di umiliare i comunisti con un atto che fu da loro giudicato come offensivo, perchè agli occhi di chi aveva compiuto un lungo percorso umano, ideale e politico dentro la storia del Comunismo, e che anche con sofferenza ne stava vedendo la fine, Craxi esibì con protervia una proposta di resa senza condizioni. Così la proposta dell’Unità Socialista, formulata in quel modo, finì anche comprensibilmente per essere rifiutata, il che rese la prospettiva di una riunificazione sostanzialmente impraticabile.
Senza dimenticare tutto questo, voglio però rendere onore al “Cinghiale” per quel bel gesto della bandiera, che mi pare debba in effetti essere ancora considerato suggestivo ed importante.
Perchè sì, Craxi aveva ragione: il Comunismo era finito, ma il Socialismo poteva e può ancora spiegare al vento le proprie bandiere.
E aggiungo anche, sempre a proposito di Craxi, che egli fu dopo tutto anche colui che dette modo agli ex-comunisti di entrare a far parte dell’Internazionale Socialista (anche questo un fatto di notevole significato ed importanza)... Il che mi fa concludere – sia detto per inciso – che anche il giudizio storico su Craxi e il Craxismo dev’essere necessariamente un giudizio articolato e complesso, che deve tenere conto di luci e di ombre.
Ma per tornare a noi, resta comunque il fatto che proprio non mi pare si possa dire che rientri oggi tra i nostri compiti cercare di superare le ragioni della scissione del ‘21.
No. Le ragioni di quella scissione sono in definitiva già superate: il verdetto è già stato pronunciato dalla storia del Novecento. Non c’è bisogno di tornarci sopra.
Direi invece che il nostro compito è semmai quello di interrogarci sulla possibilità di rifondare una Sinistra credibile in questo Paese, e di chiederci se questa rifondazione possa essere socialista, o meglio se possa avvenire sotto il segno del Socialismo europeo.
E’ questo il vero motivo per cui siamo qui.
E a me pare di poter dire che ad entrambe queste domande noi potremmo e dovremmo dare una risposta decisamente affermativa.
E’ evidente però che non si tratta di una risposta scontata.
Che infatti la Sinistra in Italia non sia messa bene è dimostrato palpabilmente dal fatto che oggi essa non è nemmeno presente in Parlamento: cosa che (se prescindiamo dagli anni della dittatura fascista) non era mai accaduta dagli anni Settanta dell’Ottocento, dai tempi cioè dei radicali storici (come Felice Cavallotti e Agostino Bertani) e poi di Andrea Costa, che fu il primo deputato socialista, eletto nel 1882.
E quanto poi alla questione se la rinascita della Sinistra debba avvenire o meno sotto il segno di una rinnovata cultura politica di impianto socialista, anche questo non è un punto che si possa dare per acquisito a priori. Voi tutti infatti sapete che in questo Paese, da qualche anno a questa parte, si è spesso sentito ripetere da parte di molti che in realtà non solo il Comunismo, ma anche il Socialismo e la Socialdemocrazia sarebbero morti con il XX secolo. E del resto sapete altresì che in Italia esiste un partito – il PD – di cui è certo sempre più difficile riuscire a capire che cosa sia e che cosa voglia essere, e che però sin dalla nascita ha trovato uno dei propri pochi assunti teorici fondativi proprio in questa idea che il Socialismo e la Socialdemocrazia non siano che un relitto del passato.
Noi naturalmente non accettiamo questo stato di cose. La necessità di dar vita ad una nuova Sinistra credibile e seria ci pare infatti un’esigenza non procrastinabile, e nel contempo intendiamo affermare e ribadire con forza che riteniamo che l’assunto concettuale su cui si è formato il PD sia in realtà del tutto sballato.
Noi infatti non soltanto crediamo che il Socialismo sia vivo, ma pensiamo altresì che la messa in campo di politiche socialiste e socialdemocratiche sia un’esigenza vitale a fronte dei giganteschi problemi posti dalla globalizzazione.
C’è innanzitutto un colossale problema di diseguaglianza. La forbice della distanza tra ricchi e poveri si è enormemente accresciuta negli ultimi decenni. Ancora alla fine degli anni Sessanta, lo ricordava non più tardi di ieri su “La Repubblica” la bella recensione di Adriano Sofri al libro-testamento di Tony Judt, l’amministratore delegato di una grande multinazionale aveva un reddito che ammontava a 66 volte quello di un normale operaio. Oggi un grande manager può guadagnare più di 900 o addirittura 1000 volte quel che guadagna un suo dipendente. Di Sergio Marchionne si è appreso ad esempio che tra stipendio, azioni, stock options e titoli gratuiti, guadagna più di 37 milioni euro l’anno: l’equivalente di 1.037 operai FIAT. E questo viene a proporre i suoi diktat sulla contrazione dei diritti degli operai? Siamo al di là del bene e del male.
E’ evidente che esiste un problema di redistribuzione della ricchezza, di regolazione dei processi economici e produttivi, di trasformazione in profondità delle modalità di gestione delle imprese.
La sbornia ultraliberista avviatasi a partire dagli anni Ottanta ha infatti prodotto colossali squilibri, e quello che è stato definito come «il feticismo per l’autoregolamentazione del mercato» si è rivelato una gigantesca mistificazione.
C’è dunque bisogno di politiche socialiste e socialdemocratiche, condotte in primo luogo a livello europeo, che arginino queste spinte poderose, rimettano in piedi i sistemi di welfare, consentano autentiche politiche redistributive, incidano sui meccanismi di
produzione rimettendo in discussione il rapporto tra capitale e lavoro, arginino lo strapotere di un capitalismo finanziario sempre più aggressivo ed incontrollato e infine mettano un freno alle conseguenze perverse della pura finanziariazzazione dell’economia. Oggi, come sapete, i migliori partiti socialisti europei si sono avviati a riconsiderare in modo profondo quelle tentazioni mercatiste da cui si sono lasciati eccessivamente trascinare negli anni Ottanta e Novanta e nei primi anni Duemila.
Il “blairismo” è ormai stato abbandonato o è in fase di rapido abbandono (anche in Inghilterra), e con esso sta tramontando l’idea, che per un certo tempo aveva preso piedi anche nel nostro campo, che il mercato fosse in grado di produrre da sé maggiori opportunità ed occasioni di superamento della diseguaglianza. Si è visto che il mercato da solo produce squilibri e genera ingiustizia. E così sta di fatto maturando un nuovo Socialismo, in cui stanno venendo fuori posizioni nuove, che rimettono al centro il ruolo decisivo della politica, senza per questo immaginare quelle forme di rigido dirigismo statalistico che erano state pensate in passato.
Tutto ciò mi pare un segno di grande vitalità, che dimostra come il Socialismo sia in continua e feconda evoluzione.
D’altronde è stato giustamente osservato che per un Socialismo all’altezza del XXI secolo si tratta di aggiornare l’agenda degli obiettivi anche con nuovi filoni politico-culturali, portatori di nuovi temi e nuove sensibilità. Oggi, per esempio, è impossibile per i Socialisti prescindere da nodi che un tempo sembravano meno urgenti: affrontare i grandi problemi ambientali legati all’idea di uno sviluppo sostenibile, difendere ed estendere, non solo nelle nostre società ma in tutto il mondo, la democrazia e la partecipazione, promuovere i diritti civili e le libertà individuali (il che investe anche i nodi della laicità), combattere le discriminazioni di genere, favorire un nuovo ordine internazionale, promuovere una globalizzazione dei diritti e della libertà…
Il nuovo Socialismo, come già osservava Besostri nella bella relazione introduttiva, dovrà dunque, evidentemente, saper assumere e fare propri anche gli apporti di altre correnti politico-culturali: del migliore liberalismo, del nuovo repubblicanesimo, del femminismo, dell’ambientalismo, della democrazia deliberativa…Rispetto a questi filoni, non si tratta da parte dei socialisti di praticare delle forme di annessione culturale, ma di aprirsi, piuttosto, a feconde contaminazioni. Sappiamo, ad esempio, che un vero liberale (parlo evidentemente di un liberale di Sinistra) potrà insegnarci cose importanti in tema di libertà o di diritti della persona. Il Socialismo spagnolo di Zapatero, ad esempio, è stato su questi temi, delle libertà e dei diritti civili, particolarmente avanzato, perché ha saputo trarre vantaggio da altri apporti culturali. Questo tipo di contaminazione va immaginato e praticato anche in altri campi ed in altri contesti.
Si tratta, in altre parole, di pensare al Socialismo come a una sorta di grande contenitore in grado di accogliere in modo inclusivo apporti diversi e di combinarli proficuamente tra loro dando luogo a sintesi equilibrate: un grande fiume, potremmo dire, che si alimenti dell’acqua di tanti affluenti. Il Socialismo del resto non è qualcosa di immobile, di fisso, o di eterno, che si stagli lontano nell’orizzonte come la linea di un traguardo da superare o come un fine da raggiungere. No. Esso – lo spiegava già Eduard Bernstein alla fine dell’Ottocento – è soprattutto movimento: è appunto come un fiume che avanza, e che persegue con pragmatismo obiettivi concreti e vicini, il cui contenuto muta e si aggiorna via via che mutano le circostanze e le situazioni storiche. Le battaglie socialiste, insomma, non sono date una volta per tutte, ma cambiano e si rinnovano continuamente, mentre restano evidentemente fermi i grandi principi ispiratori di fondo, che sono quelli dell’estensione della libertà, della lotta contro l’ingiustizia, della promozione dell’eguaglianza tra gli esseri umani.
In questa prospettiva, porre il problema di rimettere in piedi la Sinistra italiana e di portarla sulle posizioni del Socialismo europeo (un Socialismo che peraltro si sta a sua volta rinnovando e rimettendo in profonda discussione) significa allora porsi più che altro l’obiettivo di far uscire la Sinistra stessa da una condizione di minorità e di provincialismo, di sottrarla all’autoreferenzialità e all’auto-contemplazione del proprio ombelico, e di aprirla verso quanto di meglio si sta discutendo in Europa e nel mondo. E’ un progetto ambizioso, non c’è dubbio, ma non è un progetto irrealistico, poiché in realtà la trasformazione del Socialismo Europeo in un vero soggetto politico transnazionale è oggi la sola via maestra per imprimere un’accelerazione decisiva all’organizzazione politica dell’Europa, il che è a sua volta la premessa indispensabile per la messa a punto di risposte adeguate alle sfide della globalizzazione, rispetto alla quale i singoli Stati nazionali non più sono in grado di poter operare da soli. L’ipotesi del rilancio della Sinistra su posizioni socialiste è dunque un progetto audace, ma nel contempo realista, poiché è il solo che abbia in fondo un’effettiva concretezza e praticità (quella stessa concretezza che spingeva Filippo Turati a definire i veri Socialisti come i “realizzatori”). Non ci sono, in altre parole, alternative più valide.
Come area di ispirazione socialista e libertaria, noi dobbiamo allora avere l’ambizione di poter dare un contributo a questi processi.
Dobbiamo evidentemente anche avere la consapevolezza dei nostri limiti e il senso delle proporzioni; e quindi renderci conto di essere ancora una piccola cosa. Ma nel contempo non dobbiamo essere timidi.
Questo interessante coagulo di un’autonoma area socialista, che si è venuto addensando in questi mesi attorno ai nostri circoli, alle nostre associazioni, alle nostre riviste, ai nostri network e ai nostri gruppi di iniziativa politica rappresenta un segno di vitalità che mi pare importante e prezioso. Dobbiamo renderlo più incisivo sul piano delle proposte (il che che significa anche attrezzarci sempre meglio sul piano dell’analisi della realtà). Ma dobbiamo nel contempo consolidarlo sotto il profilo organizzativo, il che significa per un verso cercare di coordinarci in modo più stabile e continuato (pur nel rispetto dell’autonomia di ciascuno), e per un altro verso mantenersi il più possibile autonomi rispetto alle forze politiche attualmente in essere.
Questa dell’autonomia mi pare anzi una questione davvero centrale perché si possa effettivamente aspirare ad una reale capacità di iniziativa.
Almeno in questa fase politica, credo infatti che noi si debba rimanere assolutamente autonomi ed indipendenti rispetto ai partiti attuali, proprio per essere più efficaci nel nostro obiettivo di favorire un rimescolamento generale della Sinistra italiana. La nostra possibilità di risultare incisivi rispetto ai processi politici che ci preme favorire passa cioè anche dal non lasciarci fagocitare da quei soggetti partitici che vorremmo in qualche modo costringere a modificarsi.
Parlare di autonomia non significa ovviamente teorizzare l’ipotesi inverosimile della nostra autosufficienza. L’autosufficienza è la pretesa, del tutto velleitara nelle attuali condizioni, di correre da soli (un’ambizione che i Socialisti hanno già sperimentato in questi anni con pessimi risultati). L’autonomia è un’altra cosa: prevede convergenze con aree più vaste, è funzionale alla costruzione di processi politici più vasti, ma insiste sul fatto che occorra comunque preservare la nostra specificità, non solo sul piano delle idee, ma anche su quello più propriamente organizzativo.
Dobbiamo perciò essere autonomi rispetto al PSI, al quale ci uniscono certo molti legami, ma che come cantava Giorgio Gaber, ci pare davvero “il peggior partito socialista d’Europa”.
Dobbiamo essere autonomi rispetto al PD, da cui, si è detto, ci separa un’icompatibilità nel giudizio di fondo sul Socialismo e la socialdemocrazia.
E dobbiamo essere autonomi anche rispetto SEL, che è certo una forza politica alla quale guardiamo con interesse, ma di cui non ci deve sfuggire, a mio modo di vedere, il fatto che il suo stesso costituirsi in un partito vero e proprio – in contraddizione con quel processo aperto, plurale ed inclusivo che si era inaugurato con la stagione originaria di Sinistra e Libertà – abbia spesso determinato il cristallizzarsi di gruppi dirigenti precostituiti ed autoreferenziali, con le loro rigidità e le loro chiusure (talvolta funzionali più alle esigenze e alle aspirazioni di piccoli gruppi dirigenti periferici, incapaci di guardare al di là del loro particulare, che non alla costruzione di un processo politico più ambizioso). Se davvero SEL vuole essere il seme di qualcosa di più ampio, occorre cioè che quel seme si possa mettere in discussione, che sia pronto a riconoscere la propria inadeguatezza ed insufficienza (il che è esattamente l’opposto del dare vita ad un partito fatto e finito).
Insomma, se davvero vogliamo aiutare il progetto di Nichi Vendola di sparigliare il Centro-Sinistra (senza peraltro cadere in forme di culto delle leadership carismatiche), dobbiamo aiutare lo stesso Vendola ad andare al di là ed oltre i partiti oggi esistenti e spingere affinchè si possa mettere in moto un processo più aperto, più vasto e più articolato.
A questo processo credo che noi – come area socialista – potremmo dare un significativo contributo. Ma perché questo accada il nostro compito dovrebbe essere a mio vedere quello di fungere da pungolo dei partiti esistenti, per favorirne il rinnovamento e il superamento e per stimolare l’intera Sinistra a un processo di ripensamento. Il che, però richiede appunto che come area noi si resti in qualche misura esterni alle realtà già esistenti. Pensare di portare tutta la piccola galassia della nostra area all’interno di un solo contenitore o di un solo partito mi sembrerebbe in altre parole un errore e le soluzioni di tipo meramente “entrista” non mi pare ci porterebbero molto lontano.
Soprattutto, io troverei davvero esiziale per i nostri obiettivi che noi ci riducessimo a diventare una sorta di componente interna di un solo partito; e peggio ancora che diventassimo magari una mera base d’appoggio per le ambizioni personali di Tizio o di Caio, e per le battaglie personalistiche di qualcuno all’interno di questa o di quella formazione.
Cerchiamo, compagni, di volare più alto. Cerchiamo di preservare una capacità di autonoma iniziativa, perché questo ci renderà più credibili e più efficaci.
Bene, quello che volevo dire era in buona sostanza questo: che non si tratta di pensare a ricomporre la frattura di Livorno del 1921 – un fatto ormai lontano, già superato dal procedere della storia – ma di costruire, invece, dei processi politici nuovi.
Dalla lezione del 1921 io vorrei però egualmente trarre un elemento di riflessione ed acquisire un insegnamento che mi sembra molto più stringente ed attuale dell’ipotesi (che, lo ripeto, mi pare invece anacronistica e superata) della ricomposizione di quella frattura.
Permettetemi allora di toccare brevemente anche quest’ultimo argomento, prima di concludere.
Quale è, dunque, questo ammaestramento che dovremmo trarre dalla rilettura della vicende del Congresso livornese del 1921?
Vedete, compagni e compagne, al tempo del Congresso di Livorno, Comunisti, Massimalisti e Riformisti si divisero su tempi e modalità di compimento della rivoluzione socialista, e sui metodi da seguire per raggiungere quell’obiettivo.
Tutto quel Congresso si svolse in definitiva sul tema della rivoluzione, senza accorgersi che intanto in Italia già stava montando la reazione fascista.
A rivedere con il senno di poi la vicenda del 1921 si ha cioè come un’impressione di straniamento. I delegati delle varie componenti non stavano minimamente cogliendo il vero punto centrale della situazione di quel delicatissimo frangente storico, che era la terribile minaccia reazionaria che stava per abbattersi sul Paese. A Livorno parlarono di rivoluzione, e non si preoccuparono della concreta minaccia di sovvertimento degli ancor fragili ordinamenti democratici del Regno d’Italia, che il Fascismo stava già dispiegando.
Come ebbe a scrivere lucidamente Massimo Salvadori, Livorno si connotò cioè come il luogo di “una battaglia non combattuta per la difesa della democrazia”.
Certo: i riformisti di Turati riuscirono a non farsi espellere dal PSI e a mandare in fumo il disegno di Lenin che aveva disposto la conquista dei Partiti Socialisti da parte dei comunisti. In questo senso non c’è dubbio che Turati fu il vero vincitore di quel Congresso, tant’è che furono appunto i comunisti ad uscire dal partito (fondando il loro PCd’I, con Amedeo Bordiga quale segretario). Ma quella vittoria di Turati fu in definitiva una vittoria di Pirro, perché legò i riformisti ad un partito a maggioranza massimalista, il PSI di Serrati, che in nome dell’intransigenza rivoluzionaria non era disponibile ad alcun tipo di intesa con le forze “borghesi”. Turati, che pure aveva chiaramente compreso la necessità di dar luogo ad una stagione politica di incisive riforme (basti rileggere a questo proposito il suo grande discorso del 1920, il celebre “Rifare l’Italia”) rimase cioè prigioniero, di fatto, di un partito immobile, incapace di fare alcunché per mettere davvero un argine all’avanzata della reazione fascista e per aprire una reale fase riformatrice. La storia d’Italia avrebbe avuto probabilmente un corso diverso se in quel passaggio cruciale i parlamentari socialisti (o per lo meno quelli di orientamento riformista, che erano la maggioranza) si fossero potuti adoperare, concretamente, per la salvezza ed il rafforzamento della democrazia. Ma questo, per come stavano le cose nel PSI di quel tempo, sarebbe potuto avvenire solo a prezzo di una “scissione riformista” : quella scissione che Anna Kuliscioff, come è stato ricordato anche questa mattina, aveva appunto auspicato già nel 1920, proprio pensando alla possibilità per i riformisti di contribuire ad equilibri politici più avanzati, ma che invece non ebbe luogo che due anni dopo, e cioè nell’ottobre del 1922, con la nascita del Partito Socialista Unitario (di Turati, Treves, Matteotti e Buozzi). Ma a quel punto era ormai troppo tardi: la crisi del sistema liberale era infatti giunta al capolinea, e non mancavano che tre settimane alla Marcia su Roma. Giacomo Matteotti nel giugno del 1924 avrebbe pagato con la vita la sua inflessibile opposizione al Fascismo. Ma l’ascesa del Fascismo stesso avrebbe potuto essere impedita, se, in tempo utile, i Socialisti, o almeno la parte più lucida di loro, avessero saputo offrire al Paese uno sbocco politico. Invece ciò non accadde: a Livorno tutti – comunisti, riformisti e massimalisti – parlarono solo di rivoluzione, senza capire che tutti quanti sarebbero stati in breve spazzati via.
Ecco compagni e compagne, io davvero non vorrei che la Sinistra compisse, oggi, lo stesso errore fatale di allora.
Voglio dire, cioè, che è certamente vero che qui c’è la necessità di rifondare con urgenza la Sinistra italiana, di sfidare il PD, di mettere in moto un processo di profondo rimescolamento, di riscrivere completamente la nostra agenda politica, di sbarazzarsi delle infatuazioni liberistiche degli anni passati, di far emergere e consolidare una solida cultura socialista e socialdemocratica, di fermare un capitalismo aggressivo e ricattatore, di mettere un freno ai debordamenti chiesastici e clericali….
E’ tutto vero; è tutto giusto. Ma esiste, prima di tutto, un’emergenza democratica non meno seria ed urgente di quella dei primi anni Venti del XX secolo.
Perché, certo, qui non ci sono le squadracce con i manganelli, ma c’è un potere mediatico micidiale; e c’è una legge elettorale che ha istituito un premio di maggioranza per cui chi vince le elezioni si prende tutto.
Le prossime elezioni politiche – quando saranno – saranno dunque un passaggio cruciale nella storia del nostro Paese. Se Berlusconi dovesse vincerle, magari perché i suoi avversari non hanno saputo fare un fronte comune, rischia di saltare davvero l’intera tenuta delle istituzioni democratiche repubblicane. La prossima legislatura, non dimenticatolo, eleggerà anche il presidente della Repubblica. In questi anni, Ciampi e Napolitano hanno rappresentato delle presidenze di garanzia. Ma con Berlusconi al Quirinale queste garanzie salterebbero. Saremmo davvero al rischio molto concreto dell’instaurazione di un regime.
La partita è dunque decisiva. Non si possono compiere passi falsi. Il Berlusconismo deve essere fermato. E bisogna anche essere consapevoli che Berlusconi per non essere sconfitto, e non dover rendere conto dei suoi reati, sarà pronto a tutto. Io non pavento soltanto il pericolo di un uso sempre più spregiudicato e aggressivo dei media, ma anche quello di veri e propri brogli elettorali, e forse perfino quello delle bombe: ovvero di una sorta di nuova strategia della tensione.
Occorre dunque essere consapevoli della gravità estrema della situazione.
Io mi sento francamente rabbrividire quando sento con troppa faciloneria tanti Soloni sentenziare della morte del Berlusconismo.
No compagni e compagne. Attenzione a dare frettolosamente per conclusa quella vicenda! Il Berlusconismo è certamente in difficoltà. Ma ha una sua capacità di tenuta e di ripresa che sarebbe folle sottovalutare. Quello ha sette vite, come un gatto! E possiede armi micidiali: un potere economico mostruoso, un impero mediatico colossale, un’enorme capacità di corrompere, di comprare, di intimorire, di minacciare e di ricattare.
Stiamo ben attenti dunque a dare il Berlusconismo per finito. Si dice del resto che quando una nave affonda i topi abbandonino la nave. Ma alla Camera e al Senato stiamo assistendo in questi giorni al fenomeno inverso: i topi salgono sulla nave berlusconiana e la puntellano.
Allora io credo che noi tutti ci si debba fare carico di reagire. Occorre mettere in piedi un fronte di difesa repubblicana il più possibile ampio ed esteso, per superare questa emergenza democratica.
A questa istanza credo che noi – pur con le nostre piccole forze e la nostra flebile voce – non dovremmo in alcun modo sottrarci.
La rifondazione della Sinistra, il rilancio del Socialismo, sono i nostri obiettivi e sono già di
per sé un compito immane. Ma c’è un’urgenza ancora più immediata.
Non ripetiamo, compagni, gli errori del 1921!
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Carmelo Giuseppe Nucera – Consiglio Nazionale PSI – Lega dei Socialisti Calabria
Care Compagne, cari Compagni,
Un forte ringraziamento a quanti, in primis i Compagni di Livorno, ci hanno dato la possibilità, in questo luogo della memoria, per scambiare le nostre riflessioni a 90 anni da quegli avvenimenti.
La vecchia contrapposizione fra Comunisti e Socialisti, fra Riformisti e Rivoluzionari, oggi non ha senso: E’ urgente che tra le diverse anime e tradizioni della sinistra si costruisca una sorta di “nuovo patto identitario” che possa delineare il profilo della Nuova Sinistra del XXI secolo.
Il Socialismo Europeo non è al tramonto: deve fare meglio.
In Italia è la sinistra che è stata rasa al suolo! (forse perché ha rinunciato al Socialismo) Oggi molti compagni di spessore intellettuale quali: Macaluso, Vendola, Tamburrano, Ruffolo, Turci, provenienti dal Pci/DS/SD/SEL, non hanno difficoltà nel riconoscersi nella cultura del Socialismo Democratico. Quindi, l’affermazione dell’identità socialista è un’idea che può accomunare tutti e non è punitiva per nessuno.
”,. E’ arrivato il tempo per la costruzione, in Italia, di una Nuova Sinistra, collegata ai valori del Socialismo Europeo che non si piega ai potenti, che difende la dignità del lavoro che difende la democrazia.”
Vendola si pone l’obiettivo della scomposizione e ricomposizione della Sinistra. E questa linea deve essere la linea dei Socialisti in qualunque posto operano.
Il PSI deve contribuire alla costruzione di un nuovo soggetto della Sinistra; vorrei ricordare le parole di Vendola “Oggi non siamo al punto di arrivo, ma al punto di partenza, oggi abbiamo piantato un seme… La nostra bussola è il Socialismo.” Se questa linea è vera io, Socialista, tutti i socialisti dovrebbero sostenerla.
Mirafiori ha smentito che gli operai si sono imborghesiti e non credono più a niente, che votano lega o stanno a casa; a Mirafiori una parte ha votato sotto il ricatto del pane, l’altra parte ha votato per difendere la dignità della persona. E... se ci sono ancora operai pronti alla fame per difendere la libertà, allora non tutto è perduto!
E’ quanto ha affermato Peppino Tamburrano, presidente della Fondazione Nenni.
E a proposito di Nenni vorrei rilevare che nelle celebrazioni della sua nascita il PSI non ha dato il risalto dovuto. Nenni amava dire che “IL SOCIALISMO SERVE PER PORTARE AVANTI CHI E’ RIMASTO INDIETRO” penso che non c’è un altro modo semplice per sintetizzare la funzione del Socialismo..
Il voto a Mirafiori è una vittoria politica che la sinistra non ha fatto nulla per meritare. Lo ha affermato Franco Bartolomei della Direzione del PSI ed io sono molto d’accordo.
L’alta percentuale dei NO espressi dai lavoratori FIAT in presenza di un forte condizionamento psicologico, rappresenta un segnale di contrapposizione al tentativo della destra di modificare i rapporti sociali e le relazioni sociali con atti di imperio.
Per la sinistra questo voto rappresenta un’occasione per avviare finalmente una riflessione critica che deve portare alla rifondazione di una nuova forza unitaria della Sinistra.
Quello che non si può accettare è di prevedere obblighi per una parte dei lavoratori, come la clausola di responsabilità in materia di scioperi o il maggior gravame sulle condizioni di lavoro, senza alcun obbligo per l’azienda che non deve neanche esplicitare il piano industriale.
Il Piano Industriale Fiat sembra un segreto militare! Il governo assente e inconcludente senza una politica industriale; il Sindacato deve sedersi attorno ad un tavolo! Deve riprendere il cammino dell’unità i Socialisti sono sempre stati sensibili ai temi dell’unità dei lavoratori.
A Livorno nel suo intervento Turati predisse Che : “E’ L’AZIONE LA GRANDE PACIFICATRICE, LA GRANDE UNIFICATRICE, ESSA CREA L’UNITA’ DI FATTO CHE NON TROVIAMO NELLE FORMULE”.
Faccio alcuni esempi dove vedo l’impegno della Nuova Sinistra che vogliamo costruire: La ‘Ndrangheta, La Calabria, I Giovani la Questione Meridionale, Il Mediterraneo.

La Calabria è soffocata dalla ‘ndrangheta e dai suoi complici annidati negli apparati pubblici e privati, nelle istituzioni e se questa mala pianta non verrà estirpata non ci sarà un futuro per i giovani che hanno diritto ad un’altra Calabria, normale, civile e democratica. Per questo bisogna sottrarre alla ‘ndrangheta gli spazi che le consentono di avere un ruolo preponderante nella gestione del mercato del lavoro, degli appalti , dei finanziamenti pubblici e nella devastazione del territorio.
Bisogna proteggere chi fa bene il proprio lavoro nel rispetto della legalità.
Forse, i giovani calabresi sono la prima generazione della storia della repubblica che non hanno un progetto di futuro; le precedenti generazioni, anche nel dopoguerra, coltivavano la speranza di cambiamento lontani dalla rassegnazione e sempre in cerca di una via d’uscita.
Oggi in ogni famiglia, nel Sud in particolare, l’assillo principale è il futuro dei figli; l’emigrazione per un giovane del Sud, non è più una sicura soluzione, poiché il problema della inoccupazione investe il Paese. Uno studio della CGIL fa una radiografia seria della condizione di oltre mezzo milione di giovani calabresi tra i 15 ed i 35 anni, ed oltre il 38% sarebbe disposto ad andare via se potesse. Emerge con chiarezza che la disoccupazione produce un esercito di persone che non sono in grado di progettare una vita propria, di provvedere ad un acquisto importante, di accedere ad un mutuo. Il lavoro è la preoccupazione maggiore.
Vi è, inoltre, la convinzione che per ottenere un lavoro non è premiato né il merito né la necessità; prevalgono, invece, i criteri dell’amicizia, della raccomandazione, della politica e della malavita organizzata. Il rifiuto della politica è generalizzato, così come la partecipazione; d’altro canto non c’è nessuno che promuove una partecipazione attiva dei giovani. A chi muove le fila della politica fa sicuramente più comodo che essi rimangano così come sono senza disturbare il manovratore.
La Politica dei Partiti si presenta con doppi e tripli incarichi elettorali, Deputati e Senatori nominati dal capo. E’ estremamente importante che un sindacato come la CGIL, che tanti vorrebbero mettere all’angolo, trovi la forza per porre la questione che tocca anche la responsabilità del Sindacato; la speranza è che “il problema dei giovani” diventi contagiosa per partiti e istituzioni e che ” diventi farina per costruire il pane del futuro che ai giovani è stato rubato”.
Colgo l’occasione per denunciare il “Federalismo in Salsa Calabrese” quale
la legge sulla cumulabilità degli incarichi collegata alla finanziaria della Regione Calabria,(il Consigliere Regionale può cumulare l’incarico con il ruolo di Sindaco, o di Presidente di Provincia o di Assessore. Le Forze Politiche che hanno un briciolo di buonsenso chiedano formalmente al governo di impugnare il provvedimento legislativo approvato dal Consiglio Regionale, perché palesemente incostituzionale che non trova condivisione nella maggioranza dei cittadini calabresi. E nello stesso tempo di fermare il Progetto di Legge Elettorale del Governatore della Calabria abolendo le preferenze.
Nel 1861 il mezzogiorno d’Italia restava sconosciuto alla gran parte dei governanti che si affidavano al Gen. Cialdini e alle sue cruenti rappresaglie degli “Emigranti/Briganti, mentre era necessario conoscere la realtà del mezzogiorno. In questo clima nascono le grandi inchieste Leopoldo Franchetti, Sidney Sonnino che fecero chiarezza sulle condizioni di vita e sulla struttura economica del Sud. Franchetti , vostro concittadino di Livorno, spiegava il brigantaggio: “la vita dei contadini è tale che fare il brigante è un miglioramento piuttosto che un peggioramento della loro condizione”.
Umberto Zanotti Bianco,Leopoldo Franchetti, Pasquale Villari, Salvemini, tutti studiosi e politici “ Meridionalisti alcuni non Meridionali”, che per primi richiamarono l’attenzione dell’opinione pubblica sulla complessa problematica di rilevanza nazionale, costituita dalle condizioni di particolare arretratezza economica, sociale del Mezzogiorno che fu definita “Questione Meridionale”. L’Italia scopre la miseria della realtà del Sud in occasione del terremoto di Messina e di Reggio Calabria del 1908 con oltre 100 mila morti; è in questo contesto che nel primo decennio del novecento nasce l’ANIMI: Ass. Naz. Per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia per opera di Umberto Zanotti Bianco sceso al Sud con Giovanni Malvezzi su impulso di Antonio Fogazzaro (Tommaso Scotti, Bonaldo, Stringher, Giuseppina La maire, Santillana) e tanti altri.
La speranza di Salvemini di legare le aspettative del Sud con il Socialismo e di Gramsci per un’alleanza tra gli operai del nord e i contadini del Sud, non si è realizzata, rimane un serio obiettivo per la Nuova Sinistra.
Concludo ricordando un discorso di Pertini
“Io sono orgoglioso di essere cittadino italiano, ma mi sento anche cittadino del mondo, perciò, quando un uomo in un angolo della terra lotta per la sua libertà ed è perseguitato perché vuole restare un uomo libero, io sono al suo fianco con tutta la mia solidarietà di cittadino del mondo”.
In questi giorni non ho sentito la solidarietà dell’Europa, non ho sentito la solidarietà del PSE verso le popolazioni della costa Sud del Mediterraneo che lottano contro le dittature, per le libertà anzi i Governi dell’Europa compresa l’Italia con quelle odiose dittature, hanno rapporti di affari.
Il Mare Mediterraneo nel silenzio del mondo civile sta diventando un grande cimitero
La nuova forza della Sinistra in Italia dia l’attenzione all’Area e ai popoli del Mediterraneo e il ruolo che esso merita.
Ritornando nei nostri territori, riapriamo la discussione sui temi che qui abbiamo trattato, mettiamo insieme le Forze che si richiamano ai valori del Socialismo, il Paese, il Popolo ha bisogno della bussola che la sinistra unita deve dare.

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Paolo Gastaldo – Circolo Guido Calogero – Aldo Capitini Genova

Dopo la fine del comunismo sovietico (89–anni 90), il declino tocca anche alla
socialdemocrazia e al welfare europeo.
L’ impero vuole imporci la globalizzazione, il che determina la creazione di una neolingua (da la “Fine della storia” di Francis Fukuiama 1992 testo ideologico del neoliberismo nord americano) si assiste quindi alla rimozione del marxismo e di tutto ciò che riporta alla storia del socialismo e instaura la telecrazia berlusconiana in Italia e l’ opposizione acquiescente del DS poi PD !.
Nel quadro europeo dell’alterazione della socialdemocrazia virata, con il revisionismo blairiano, vulgata mistificatoria della Terza via di Giddens, a neoliberismo teocon americano di George W.Bush anni 99/2000; ma prima si segnala nel 1995 anche WTO Clintoniano nell’ esaltazione dell'abolizione di dazi doganali e libera circolazione persone e merci.
Quindi il trionfo qui da noi del modello bipartitismo americano maggioritario condiviso dal Pds (dopo svolta Occhettiana della Bolognina sul cambio di nome al PCI ) che condivise però anche il neoliberismo. Ma anche partecipazione alle guerre (già governo dell’ Ulivo nel dopo Prodi con un D’Alema (1999) che da fedele premier atlantico e atlantista dispone l’ attacco aereo italiano su Belgrado !
Dopo la finta opposizione e il governo di finta sinistra ulivista 96/2001, poi ancora parentesi Ulivista pienamente neoliberista-teocon 2006/08.
Fino alla truffa elettorale del 2008 che causa con il’ yes we can Veltroni e i suoi accordi con Berlusconi – mediante legge porcellum (Calderoli), l'espulsione della sinistra dal Parlamento Italiano dopo 150 anni.
Con il risultato della II^ Repubblica che gli ambientalisti italiani cifrano dal 95 ad oggi in una enorme valanga di cemento pari all'estensione di Toscana e Umbria messe assieme.
Nel consumo pernicioso ed attuale del suolo fino alla media di ben 150 ettari giorno cementificati nell'ex Bel Paese.
Quindi quale sinistra nel 21° secolo ? in Italia ?
Intanto il ritorno alla pluralità, alla Costituzione come Manifesto dei valori condiviso e da lì costruire una Terza Repubblica che ridia valore alla democrazia nell’uscita definitiva dal Berlusconismo e ad un progetto politico oltre che all’unire semplicemente la sinistra della diaspora del 1921 tra socialisti e comunisti (oggetto di questo convegno) possa includere un modello di sviluppo che inglobi il pensiero moderno di figure come Bauman, Rifkin, Clein, Latouche e che il neoliberismo del mercato globale venga trasformato in società con modello economico ecologico compatibile e decrescita virtuosa del mercato locale e del ritorno al lavoro locale, nonché alla valorizzazione delle soggettività sociali escluse ed espulse dalla globalizzazione.
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Francesco Striano - Circolo SEL Tigullio - Genova

Care compagne e cari compagni,

fa piacere poter trovare oggi spazi di riflessione politica volti ad un ripensamento e ad una rifondazione culturale di quella che vuole essere la Sinistra del XXI secolo. Una Sinistra unita, plurale e post-ideologica, dove questo termine non deve, però, indicare l’abbandono delle idee cardine della Sinistra novecentesca, quanto, piuttosto, un loro ripensamento.
Penso ad un processo triadico, di stampo hegeliano, di tesi, antitesi e sintesi, in cui la sintesi non è una fusione di tesi e antitesi, ma la tesi stessa, che, dopo aver lungamente fatto esperienza dell’antitesi, torna a se stessa, rinnovata e rinvigorita.
La nostra tesi è, ovviamente, il Socialismo, che deve rimanere punto di riferimento di qualunque soggetto politico che voglia dirsi di Sinistra. Anzi, volendo spingersi oltre, direi che orizzonte ultimo deve rimanere quello di una società comunista. Ma come raggiungere tale orizzonte? La via rivoluzionaria ha storicamente dimostrato la propria inadeguatezza, nonché l’impossibilità del “socialismo reale in un solo paese”. La Sinistra (italiana, europea e internazionale) deve puntare ad una trasformazione in senso socialista dell’economia e della società in senso egualitario per vie democratiche.
La nuova Sinistra, quindi, deve essere, innanzi tutto, socialdemocratica.
Ma non solo.
Nel tendere all’uguaglianza non bisogna perdere di vista e sacrificare la libertà. Trovo, infatti, che il Socialismo sia tutt’altro che inconciliabile con il meglio della cultura liberale (ovviamente parlo solo di liberalismo e non certo di liberismo).
Quella che immagino io, dunque, è una Sinistra che voglia tutelare le libertà individuali, inserendole in un più ampio contesto sociale, una Sinistra libertaria e liberal-socialista.
Infine, per concludere, penso sia necessario inserire un ulteriore elemento; venendo dal contesto universitario, conosco bene alcune derive violente della lotta studentesca, e, come non appoggio la via rivoluzionaria, non posso tanto meno dare la mia approvazione ad un insurrezionalismo di stampo vagamente anarchico.
La Sinistra che auspico deve abbracciare la teoria e la pratica della non-violenza e della disobbedienza civile.
Credo, insomma, che la Sinistra del XXI secolo debba essere, per così dire, una “fusione” di Karl Marx, Piero Gobetti e il Mahatma Gandhi, con tutti i relativi retroterra e le relative prospettive; forte di queste radici culturali, deve saper rivolgere il proprio sguardo all’oggi, ma, soprattutto, al domani.
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conclusione sessione mattinata

Norberto Fragiacomo – PSI Trieste
Livorno, novant'anni dopo

Compagne e compagni carissimi,
permettetemi anzitutto di ringraziare la Lega dei Socialisti di Livorno, che ha voluto invitarmi a questo straordinario convegno, a questo incontro delle forze vive della Sinistra italiana.
Essere qui oggi, in mezzo a voi, per concludere i lavori di quest’intensa mattinata è un piacere e un onore: mi auguro di essere all’altezza, e di non deludervi.
Si dice, a ragione, che chi non conosce il passato non è in grado di progettare il futuro, perché l’albero del presente affonda le sue radici in ciò che è stato e, per quanto riguarda specificamente la Sinistra italiana, la situazione attuale dipende, in una certa misura, dalla scissione avvenuta 90 anni orsono. Non è nostro compito giudicare, condannando o assolvendo i protagonisti di quell’evento lontano: dobbiamo tuttavia sforzarci di capire e, dopo aver compreso, di andare oltre.
Nessuno strappo è mai definitivo, quando si condividono dei valori fondamentali. Quello di Livorno, tuttavia, fu storicamente inevitabile. La portata degli accadimenti verificatisi nel secondo decennio del secolo scorso, ed il ritmo infernale con cui si susseguirono scioccarono i contemporanei: in una delle sue pagine più belle, Stefan Zweig testimonia la sconcertata incredulità sua e dei pacifici villeggianti viennesi di fronte alla notizia dell'eccidio di Sarajevo, preludio alla dichiarazione di guerra; ne "Il placido Don", il conflitto, la stessa Rivoluzione, la guerra civile sono vissuti come una forza cieca, irresistibile che afferra e distrugge uomini incapaci di rendersi conto di ciò che davvero succede. Foglie nella bufera, spaesamento totale.
Anche il nostro Paese è scosso da convulsioni imprevedibili: la svolta massimalista del PSI genera la "settimana rossa", seguita da una guerra che pare non avere fine, e reclama un tributo di 600 mila vittime. Nel 1917 giungono, da oriente, gli echi di un gigantesco sommovimento rivoluzionario, che appare a molti come l'alba di una nuova era, e costringe i socialisti ad interrogarsi sulla validità delle strategie fino allora adottate. Il riformismo, la politica dei piccoli passi sembra perdente, un retaggio del passato da ripudiare al più presto. Scrive Antonio Gramsci, nell'estate del '17: “I socialisti hanno accettato la realtà storica prodotto dell’iniziativa capitalistica; sono caduti nell’errore di psicologia degli economisti liberali: credere alla perpetuità delle istituzioni dello Stato democratico, alla loro fondamentale perfezione. Secondo loro la forma delle istituzioni democratiche può essere corretta, qua e là ritoccata, ma deve essere rispettata fondamentalmente.” In pratica, si sarebbero imborghesiti, ed accettando la logica parlamentare avrebbero perduto di vista quello che potremmo definire il loro fine istituzionale, cioè l’edificazione di una società socialista.
All’accusa, mossa dai comunisti, di “degenerazione” – in sostanza, di tradimento - così risponde, nell’aula di Livorno, Filippo Turati, punto di riferimento della minoranza riformista del partito e critico del bolscevismo: “Quando la mentalità della guerra sarà evaporata, quando (…) il socialismo dei combattenti sarà svanito, allora quando l’esperienza, la riflessione avranno fatto scuola e lezione nei cervelli di tutti, io credo fermamente che l’unità, che oggi è tanto dispregiata e combattuta, l’unità del Partito tornerà a trionfare. (…) Ciò che ci distingue non è la generale ideologia socialista, la questione dei fini (…), ma una pura e semplice valutazione della maturità delle cose e del proletariato a prendere determinate posizioni in un dato momento (…) ogni scorciatoia non fa che allungare la strada; la via lunga è la sola breve. E l’azione è la grande pacificatrice, è la grande unificatrice; essa creerà l’unità di fatto.”
Un appello all’unità, quindi, mentre sta maturando la frattura.
Aveva dunque ragione Turati, e torto Gramsci, Bordiga e gli altri? Troppo semplice dare giudizi a posteriori, senza tener presenti il clima dell’epoca, l’entusiasmo per l’impresa di Lenin, il biennio rosso appena trascorso – occasione persa, ma concreta.
Certo, Stalin trasformò ben presto il sogno dei figli dell’Arbat in un incubo atroce, poche delle promesse della Rivoluzione furono mantenute; nell’Europa occidentale, invece, la “via lunga” condusse, nel secondo dopoguerra, ad una stagione di riforme che regalò ai lavoratori Stato sociale, libertà ed un diffuso benessere.
In Italia l’età dell’oro riformista coincise con l’esperienza del centro-sinistra, culminata nell’approvazione dello Statuto dei lavoratori (1970) e conclusasi, non a caso, con la caduta del muro di Berlino, nell’89. Ho detto “non a caso”, perché il venir meno della minaccia sovietica porta alla revoca, decisa dai detentori del potere economico internazionale, di buona parte delle concessioni fatte alle masse lavoratrici al solo scopo di comprarne la fedeltà, in previsione di un confronto est-ovest. Intendiamoci: ovunque in Europa, il ruolo dei socialisti nell’edificazione del welfare state è stato benefico e determinante, ma le conquiste sociali sono state in qualche maniera facilitate da circostanze geopolitiche favorevoli. I successori di Turati devono ringraziare, oltre che se stessi e gli elettori, anche Vladimir Lenin.
Sostenere l’esistenza di un legame, sia pure indiretto, tra le politiche riformiste postbelliche e la Rivoluzione d’ottobre parrà a taluni blasfemo, ma consideriamo l’evolversi della situazione italiana dopo il 1989: Democrazia Cristiana e Partito Socialista, carichi di colpe ma non privi di meriti, scompaiono dalla scena insieme ai loro leader storici, mentre scendono in campo nuovi movimenti, votati alla privatizzazione dell’economia e della politica. Si assiste distrattamente alla metamorfosi del PCI – in realtà, la novità più clamorosa – che, mutati nomi e pelle, si converte senza esitazioni al culto liberista, e, perso qualche pezzo per strada, si reinventa filoamericano.
Siamo ben al di là della presunta “degenerazione” rimproverata da Gramsci ai riformisti, cioè dell’adesione turatiana alla logica democratico-parlamentare: per crudele ironia della sorte, gli epigoni degli scissionisti abbracciano (forse per impulso sincero, forse per opportunismo - comunque acriticamente) quella stessa ideologia del profitto a tutti i costi contro la quale Karl Marx aveva lanciato i suoi strali. Il liberismo si erge a pensiero unico, vanamente contrastato, a sinistra, da sparute minoranze.
Le privatizzazioni, cioè la svendita dell’industria di Stato, sono il pubblicizzatissimo primo atto; fanno seguito la precarizzazione del rapporto di lavoro, voluta da ambienti interni al centrosinistra non meno che dal centrodestra, la liberalizzazione dei servizi pubblici, il tacito assenso alle delocalizzazioni, l’erosione sistematica delle protezioni sociali. Passa lo slogan “privato è bello”, mentre l’intervento pubblico in economia, che ha consentito la crescita del sistema-paese al tempo della guerra fredda, è condannato alla damnatio memoriae. L'esigenza di rispettare i parametri di Maastricht – legge divina del liberismo europeo (1992) – viene addotta a giustificazione di qualsivoglia sacrificio imposto dall’ élite ai ceti deboli.
Frattanto gli strumenti di propaganda lavorano a pieno regime, stravolgendo persino il significato delle parole: il termine “riforma”, in precedenza adoperato per designare interventi migliorativi in campo economico e sociale, viene speso senza parsimonia al fine di rendere meno impopolari scelte dolorose ed oggettivamente regressive. Abbiamo così il riformismo reazionario dei D’Alema, del “mai stato comunista” Veltroni, dei “socialisti” clericali alla Sacconi: un riformismo sui generis che perfino il moderato Filippo Turati, ne sono sicuro, avrebbe trovato ripugnante.
Incapace di esprimere figure del calibro di Blair, Schroeder o Zapatero – politici niente affatto socialisti, ma dotati – la pseudosinistra nostrana fa leva sull’antiberlusconismo per garantirsi una magra sussistenza, riuscendo ad occultare il fatto che dell’indifendibile, odioso Trimalcione di Arcore essa condivide, in fondo, l’ideologia.
Improvvisamente, però, succede qualcosa: la folle corsa dei finanzieri americani a profitti sempre più stratosferici, frutto di giochi speculativi e senza connessione alcuna con la crescita dell’economia reale, dà il via ad una crisi che, per gravità, è paragonabile soltanto al terremoto di Wall street del ’29. Per mettere in salvo i colpevoli, cioè in primis le banche d’affari, il governo statunitense stanzia risorse colossali, sostanzialmente a fondo perduto, mentre la disoccupazione sale alle stelle e i cittadini restano senza casa. Nell’epoca della globalizzazione è impossibile arginare il contagio, che presto si estende all’Europa. Il 2010 si annuncia come un annus terribilis: a febbraio-marzo la Grecia rischia la bancarotta, e viene momentaneamente salvata solo al prezzo di pesantissime rinunce, il cui peso ricade sui lavoratori, gli studenti, i pensionati. Colpisce la tipologia delle misure richieste dal Fondo monetario e dall’Unione Europea: interventi sugli stipendi, le pensioni, la spesa pubblica; eliminazione dei contratti collettivi “che frenano lo sviluppo”, mentre rendite e patrimoni non sono toccati. E’ solo il primo di una serie di diktat liberisti, indirizzati a Stati sovrani e al mondo del lavoro. Con la scusa della globalizzazione e della crisi, qualcuno punta alla dissoluzione del modello europeo di Stato sociale.
In Italia è Marchionne a prendere l’iniziativa: per continuare la produzione prima a Pomigliano e poi a Mirafiori pretende l’accettazione di accordi ultimativi, che restringono i diritti sindacali e la libertà dei dipendenti. La politica dà il suo avallo compiaciuto, in nome dell’innovazione e della necessità; ma non tutto va per il verso giusto.
Diversamente dagli altri sindacati, la FIOM di Maurizio Landini non piega la schiena: denuncia violazioni alla carta fondamentale, dietro cui s’intravede la precisa volontà padronale di cancellare i diritti collettivi e ridurre all’impotenza i lavoratori e le loro rappresentanze. Dalle Alpi alla Sicilia, mica solo a Mirafiori.
I metalmeccanici della CGIL rifiutano di firmare il patto leonino e rilanciano, mettendo in discussione lo stesso modello di sviluppo globale, che toglie ai poveri per dare ai ricchi. Lo scontro, da sindacale, diviene squisitamente politico e, grazie alla rinomanza della Fiat – che in Italia è da cent’anni sinonimo di industria – ed alla determinazione della FIOM, finisce sulle prime pagine dei giornali. Il contegno arrogante di Marchionne, che punta i piedi e minaccia di andarsene se non si vota come dice lui, ed il servilismo del governo berlusconiano fanno il resto, suscitando un moto d’indignazione in un’opinione pubblica che giaceva assopita: è ammissibile – ci s’inizia a chiedere – che un manager guadagni mille volte più dei suoi dipendenti e, soprattutto, è compatibile con la democrazia un sistema economico-industriale autoritario, in cui l’opinione del cittadino-lavoratore conta meno di zero? Insomma: non sono soltanto gli intellettuali, qualche ex sindacalista e Paolo Ferrero a prendere le parti della FIOM: il dubbio che il capitalismo odierno sia antidemocratico e faccia abbastanza schifo comincia a serpeggiare un po’ ovunque.
Questo confuso bisogno di Sinistra che gli italiani esprimono viene percepito da Nichi Vendola: in un’intervista a “Il Piccolo”, il leader di SeL invita le forze progressiste a creare un fronte unico con la FIOM in difesa dei diritti minacciati, coinvolgendo anche gli studenti in lotta contro la riforma Gelmini. Si tratta, in realtà, di un aut aut, che costringe il PD ad uscire allo scoperto, svelando il totale appoggio dei suoi dirigenti alla causa capitalista. Le parole di Fassino, Veltroni, Chiamparino e D’Alema fanno il giro di un Paese incredulo; ma è il “sì a Marchionne senza se e senza ma” dell’ambizioso “rottamatore” Renzi - giovanissimo erede degli italiani descritti da Machiavelli e Guicciardini - il degno epitaffio per il PD-partito-di-sinistra.
Meglio così: l’equivoco è stato risolto davanti all’Italia intera, “in prima serata” verrebbe da dire. Probabilmente Nichi Vendola aveva messo in preventivo la reazione dei democratici, perché la sua proposta è l’embrione di un programma politico: quello di rifare la Sinistra, costruendo – come domanda la FIOM – un Partito del Lavoro. I presupposti ci sono: l’esito del referendum di Mirafiori ha dimostrato, se non altro, che la sinistra fasulla del sì non sa dar voce alle aspettative ed ai timori di chi lavora. Consentitemi una veloce precisazione. Quando parlo di sinistra fasulla, mi riferisco ai rappresentanti, non certo alla base elettorale: il “popolo delle primarie”, pur assottigliatosi nel corso degli anni, non manca mai di mostrare il proprio attaccamento alla causa progressista e merita, oltre a simpatia e rispetto da parte nostra, una speciale premura che lo ripaghi delle amarezze sofferte.
Unità, dunque – come auspicava, come profetizzava Turati – tra le forze che, oggi al pari di ieri, non si rassegnano alla deriva liberista della società, e pongono al centro dell’attenzione le esigenze dell’uomo, non quelle del Capitale.
C’è poco da inventarsi, cari compagni: quelle forze sono rappresentate da noi, Socialisti di sinistra, rimasti nel PSI o confluiti in SeL; dai Comunisti; da una parte del sindacato e dall’avanguardia studentesca. Quelli del 2011 sono gli stessi del ’21, nuovamente desti dopo l’ubriacatura rivoluzionaria.
A ben guardare, ciò che ancora ci divide è poca cosa: malanimi, sospetti, vecchi rancori legati ad un passato ormai sbiadito. Ognuno può continuare, a casa sua, a fare il gioco della torre con Lenin e Turati, o con Berlinguer e Nenni – purché abbia ben chiaro in testa che vogliamo tutti fondamentalmente la medesima cosa.
Vogliamo il Socialismo, quel Socialismo del XXI secolo che tanto il compagno Vendola quanto i documenti congressuali della Federazione della Sinistra indicano come il fine da perseguire; da perseguire uniti, lo ribadisco, perché da soli si corre verso lo sfacelo – nostro, del Paese e della struttura sociale innalzata con tanta fatica nel corso dei decenni.
Il Presidente Vendola ama ripetere che Sinistra Ecologia e Libertà è soltanto un punto di partenza, il seme che deve morire per far nascere la pianta: lo stesso discorso valga per i movimenti in cui ci riconosciamo attualmente, che seguiteranno a vivere nella nuova aggregazione.
Compagni, non è una tessera di partito a renderci socialisti: è quello che proviamo nel cuore, sono i nostri ideali che si traducono in atti coerenti! Ed è anche la capacità che abbiamo di discutere liberamente, di riflettere e di far riflettere.
Quest’apertura mentale, questa disponibilità ad ascoltare le ragioni altrui senza lasciarsi condizionare da pregiudizi di sorta sono un contributo non secondario alla riuscita del progetto, un progetto in cui investiamo il nostro futuro.
Sia dunque Livorno la prima tappa di un cammino comune, che restituisca speranza ed orgoglio a quella larga fetta della popolazione italiana oggidì mal rappresentata dal PD ed attratta dalla tentazione del voto protestatario o dell’astensionismo.
Il tempo, tuttavia, non sta dalla nostra parte: la riunificazione deve attuarsi il più velocemente possibile.
Le circostanze appaiono favorevoli, grazie anche al fatto che, finalmente, la Sinistra italiana dispone di un potenziale leader unitario, forse addirittura di due. Nichi Vendola non è il messia, ma ha – tra le tante – una dote indispensabile per il successo dell’impresa: sa parlare al popolo, entusiasmarlo, far sentire il cittadino partecipe di una missione collettiva. Inoltre, riassume in qualche modo in sé le due tradizioni della sinistra: di formazione comunista, condivide dichiaratamente i valori del Socialismo italiano.
Il motore della Storia non sono solamente i processi economici, né gli spostamenti delle masse, come pretende Tolstoj, in odio a Napoleone: talvolta un singolo individuo può fare la differenza. Essenziale è che sia ben supportato: senza il genio di Bonaparte non ci sarebbe stato il capolavoro di Austerlitz, ma è altrettanto vero che senza l’eccezionale affiatamento dei soldati francesi e l’abilità dei comandanti il piano perfetto sarebbe morto sulla carta. Per farla breve, intorno a Vendola deve crescere una nuova leva di dirigenti e quadri preparati, affidabili e onesti, in grado – adoperiamo un’espressione fuori moda – di fornire il buon esempio.
Ma veniamo agli aspetti programmatici, che contano anche più della leadership.
Qualche giorno fa, il Segretario del PSI Nencini, eludendo una domanda su riformismo “buono” e riformismo “cattivo”, ha affermato che nel 2011 non possiamo riproporre le medesime ricette degli anni ’60-’70. Ineccepibile: d’altronde, nessuno si sognerebbe oggi di fotocopiare lo Statuto dei lavoratori e farlo rivotare dal Parlamento, fosse anche per estenderlo alle piccole imprese.
La questione è un’altra: recuperare lo spirito che animava i riformisti di mezzo secolo fa, per escogitare soluzioni idonee a migliorare il tenore di vita dei lavoratori - che restano i nostri azionisti di riferimento - e non invece a peggiorarlo. Non è soltanto un fatto di giustizia distributiva: fino all’altro ieri la tivù ci esortava a spendere e spandere per far ripartire l’economia, ma è piuttosto improbabile che chi si è visto decurtare lo stipendio e deve confrontarsi con generalizzati aumenti tariffari marca UE abbia una gran voglia di shopping.
Rilevo che, nel corso della mattinata, sono state esposte talune idee interessanti, su argomenti già abbastanza noti a chi ha un minimo di dimestichezza con i siti d’area. Volendo, potremmo racchiuderle in una formula: attuare la Costituzione economica, perché è proprio la Carta fondamentale ad individuare il contenuto di una futura, possibile stagione di riforme “buone”.
L’informazione in tempo reale sulla vertenza Mirafiori ha condotto l’opinione pubblica alla scoperta dell’acqua calda: la democrazia si ferma ai cancelli delle fabbriche, dentro comanda il padrone, punto e basta.
Esistono opzioni alternative alla monarchia, raramente illuminata, dell’imprenditore/manager? L’articolo 46 della Costituzione ne prevede una: il diritto – e sottolineo il termine “diritto” – dei lavoratori a collaborare alla gestione dell’impresa. In Italia, a differenza che in Germania, la cogestione non è mai diventata realtà: il precetto risulta clamorosamente inattuato. Non è arduo intendere il perché dell’inerzia legislativa: se i lavoratori avessero voce in capitolo sulle politiche industriali, precariato, delocalizzazioni e licenziamenti di massa sarebbero banditi, al più se ne sentirebbe parlare come del babau delle fiabe, che nessun bimbo, per fortuna, ha mai incontrato. Si noti che la cogestione è qualcosa di più e di diverso rispetto al mero obbligo di consultazione: nel suo significato autentico, essa implica un rapporto paritario tra Capitale e Lavoro che si traduce, nei fatti, in una democrazia aziendale. Sembra incredibile, ma per disinnescare la minaccia del marchionnismo sarebbe sufficiente l’approvazione di una legge rispettosa della Carta costituzionale.
Per alcuni, l’abbiamo udito, la cogestione delle fabbriche costituirebbe solo un traguardo volante: quello vero si chiama autogestione da parte dei lavoratori. Non è utopia: in Argentina, dopo la catastrofe economica di un decennio fa, le maestranze hanno assunto il controllo della produzione in numerose aziende fallite o destinate al fallimento, che in taluni casi sono state nazionalizzate, in altri trasformate in cooperative. Lavoro e Capitale finiscono per coincidere, e si raggiunge l’obiettivo di “licenziare il padrone”.
Vetero comunismo? Direi proprio di no, a meno che non si voglia iscrivere d’ufficio Robert Owen al Partito Comunista Sovietico: fu il mitissimo padre del Socialismo britannico, quasi duecento anni orsono, a lanciare e mettere in pratica l’idea di sostituire il sistema capitalista con uno basato sulle cooperative di produzione. Il tentativo andò male, perché - anche quella volta, come nella vicenda Fiat – l’arbitro, cioè il governo, era venduto.
Ciò che qui importa evidenziare è che l’istituto dell’autogestione non è di per sé in contrasto con il dettato costituzionale, che subordina l’iniziativa privata al rispetto dell’utilità sociale (art. 41, 2° comma), consente l’espropriazione delle imprese “strategiche” con loro contestuale socializzazione (art. 43) e, da ultimo, promuove e favorisce la cooperazione (art. 45). Nessun ostacolo giuridico vieta, quindi, di pubblicizzare le banche, che di un sistema economico sono il polmone, né di porre fuori legge la speculazione o di aumentare la progressività impositiva su redditi e patrimoni (art. 53).
Sintetizziamo, omettendo i particolari: il programma riformista dei Socialisti del XXI secolo è già scritto in Costituzione. Residua però un interrogativo, alquanto insidioso: sussistono le condizioni per realizzarlo?
Quarant’anni fa, l’abbiamo visto, la classe lavoratrice aveva un potere contrattuale ben superiore a quello odierno, e le economie nazionali erano assai meno interconnesse, sia a livello europeo che mondiale. Ipotizziamo che una potente multinazionale americana decida, di punto in bianco, di chiudere un suo stabilimento in Italia per trasferirlo altrove, e che il nostro governo reagisca con l’esproprio: come escludere ripercussioni, anche gravi, sui rapporti bilaterali, alla luce dell’influenza che i gruppi economici d’oltreoceano esercitano sulla politica degli Stati Uniti? Cerchiamo di non dimenticarci che lo stesso modello della cogestione è lontano anni luce dalla mentalità di un “tagliatore di teste” milionario. Andiamo avanti: una cooperativa od un’impresa socializzata abbisognerebbero, almeno nella fase di avvio, di agevolazioni, aiuti, sussidi pubblici; ma qualsiasi distorsione del mercato è puntualmente sanzionata dall’Unione Europea, che ha elevato la tutela della concorrenza – cioè delle lobby economico-finanziarie - a dogma di fede. Ben che vada, uno Stato che avesse la sfrontatezza di riappropriarsi del suo ruolo, intervenendo nell’economia, sarebbe assalito da sciami di speculatori. Come se non bastasse, la globalizzazione è una dura realtà: l’unica via per proteggere l’industria nazionale sarebbe quella di chiudere le frontiere alle merci prodotte nelle nazioni in cui non vengono rispettati standard minimi di difesa del lavoro. La conseguenza sarebbe l’immediato isolamento, esiziale per quegli Stati che, come l’Italia, dipendono dall’estero per le materie prime.
Tirando le somme, un singolo Paese, anche sviluppato, non può permettersi, nel 2011, il lusso dell’autarchia. Un Paese no, ma un continente sì: perché il Socialismo del XXI secolo si affermi in Italia, occorre che trionfi in Europa.
Una volta unita, la Sinistra italiana dovrebbe farsi promotrice di una conferenza paneuropea, aperta a tutte le forze di opposizione al sistema capitalista: partiti, sindacati, movimenti giovanili. Risponderebbero in molti, io credo: a paragone del PD, non solo la Linke, anche l’SPD del dopo Schroeder può sembrare un’organizzazione massimalista. Insieme si tratterebbe di approvare un programma per far fronte all’emergenza, attuabile in tutti gli Stati membri dell’Unione: un programma provvisorio, e soprattutto conciso, capace di assurgere – veicolato da scioperi massicci e proteste di piazza – a formidabile strumento di pressione sulle istituzioni politiche ed economiche.
Un’azione coordinata e pacifica è più efficace, e molto più socialista, di cento rivolte disperate.
Un riformista postmoderno ha di recente esortato la sinistra a dimenticarsi di essere l’erede del terzinternazionalismo a e ricordarsi di essere soprattutto “nazionale”. In tempi di crisi globale, è opportuno tenere a mente il prezioso consiglio, per poi fare esattamente il contrario.
Se divisi siam canaglia, stretti in fascio siam potenti – questo non è più Nencini, è di nuovo Turati.
Viva il Socialismo, compagni, quello autentico!

Pomeriggio

Tavola rotonda
LANFRANCO TURCI
Network per il Socialismo Europeo

Cominciamo col presentarci ai nostri ospiti che ringrazio di cuore per aver accettato l’ invito a concludere con i loro contributi l’incontro di oggi. Innanzi tutto chi siamo noi che abbiamo organizzato il convegno?Siamo la Lega dei socialisti di Livorno,una associazione di compagni socialisti aderenti ai vari partiti della sinistra e in prevalenza a Sel, il Gruppo socialista di Volpedo e il Network per il socialismo europeo.
Una parola sul Network che si è costituito solo pochi mesi fa.
Si tratta di una associazione nazionale che si propone di mettere in rete e provare a unificare su una comune piattaforma politico culturale la molteplicità di circoli, gruppi, riviste online e singoli compagni sparsi (molti, ma non tutti, provenienti dalla storia socialista), militanti nei partiti del centro sinistra o fuori dai partiti, uniti dalla comune insoddisfazione per l’assetto attuale della sinistra italiana. Insoddisfatti e convinti che solo una profonda riorganizzazione della sinistra attorno a un grande partito unitario, popolare e di massa collegato al socialismo europeo,può consentirle di porsi all’altezza della grave situazione in cui viviamo.
Stamattina abbiamo sviluppato un dibattito assai ricco attorno al tema:”Dalla scissione comunista di Livorno all’unione per il socialismo nel 21°secolo”. Il tema è stato svolto al futuro, non quindi per riaprire la disputa storica circa chi avesse avuto ragione fra Bordiga, Gramsci o Turati . Si è voluto invece sottolineare che, dopo il fallimento del comunismo e la caduta del muro, e ancor più dopo il fallimento della cosiddetta seconda repubblica, alle varie forze di sinistra del nostro paese non resta altra opzione che ritrovarsi nella grande famiglia del socialismo europeo. Attraverso la adesione al PSE, anche se ne costituisce un’espressione organizzativa ancora del tutto inadeguata. Sottolineo l’uso delle preposizioni fatto nel titolo, suggerito da Besostri: abbiamo scritto socialismo NEL 21° secolo non DEL 21° secolo, perché abbiamo voluto indicare quel socialismo come un campo aperto, in gran parte ancora da esplorare, non certo un modello in sé compiuto e definito una volta per sempre nelle forme del secolo passato. Infatti ne parliamo mentre siamo ancora all’interno di una crisi economica internazionale che evoca quella del ’29. Una crisi che si è manifestata e si manifesta in una distruzione enorme di ricchezza, nella perdita di decine di milioni di posti di lavoro, nell’aumento drammatico delle disuguaglianze, nell’arroganza senza limiti del capitale finanziario, nella compressione delle condizioni di lavoro e nei nuovi tagli allo stato sociale in America come in Europa, nella crisi del debito pubblico che sta mettendo a rischio la sopravvivenza stessa dell’Euro e della Unione Europea, e infine – non dimentichiamolo - nelle rivolte che stanno cambiando il volto dei paesi sud del mediterraneo, e che esprimono una nuova voglia di libertà insieme alla disperazione della miseria. Da questa crisi il mondo uscirà profondamente cambiato, anche nei suoi equilibri strategici e egemonici. Ma come ne uscirà la sinistra e il socialismo europeo? Alla base di questa crisi stanno i meccanismi del capitale finanziario internazionale, ma sta prima ancora una cultura e una dottrina che hanno plasmato le istituzioni e le politiche nazionali e internazionali. Stanno il neoliberismo e le politiche ispirate al Washington consensus che ancora, a tre anni dall’inizio della crisi, la fanno da padrone in Europa, attraverso i partiti conservatori e la loro degenerazione populista e xenofoba che si esprime nei nuovi partiti di destra. Qui si motiva meglio la nostra sollecitazione alla riunificazione nella famiglia del socialismo europeo. Voglio richiamare l’attenzione dei nostri ospiti sul fatto che alla luce delle diffuse sconfitte elettorali e della crisi economica internazionale si è aperto un importante dibattito critico in molti partiti socialisti e socialdemocratici sulla linea prevalente nell’ultimo decennio. Sulle terze vie a la Blair e a la Schroeder, ma potremmo dire anche a la D’Alema o a la Veltroni. Sulla idea che si era fatta spazio in gran parte della sinistra circa l’inevitabile avanzata della globalizzazione guidata dal capitalismo finanziario, cui si sarebbe trattato di affiancare unicamente politiche di modernizzazione e di prudente solidarietà sociale. La crisi impone invece di ricercare un nuovo paradigma economico e sociale , ripropone l’antagonismo fra capitalismo e socialismo e il recupero del rapporto con le basi popolari e il movimento dei lavoratori in gran parte messi da parte in questi anni di ispirazione liberal liberista. E’ in questo quadro che si ripropone la convergenza della sinistra italiana verso il socialismo europeo. Che ne pensano i nostri ospiti?
L’altro elemento della nostra piattaforma è l’obiettivo di far emergere dall’attuale contraddittorio assetto della sinistra italiana, attraverso possibili processi di scomposizione e ricomposizione, un grande partito popolare, unitario, collegato al socialismo europeo, collocato a sinistra in confronto all’asse mediano del PD attuale. Il PD continua a presentarsi come un soggetto senza bussola. La rimozione della tradizione comunista italiana, con quel tanto di storia socialista in essa incorporata, e il rifiuto alla Bolognina di scegliere l’opzione socialista, hanno avviato una deriva senza meta, aperta alle influenze moderate e liberiste, come si è visto anche nella recente vicenda della Fiat. Senza neppure la capacità di sfruttare i vantaggi del bipolarismo coatto. L’esito peggiore immaginabile per chi di noi viene da quella storia e si trova oggi in questa assemblea. Il piccolo PSI vive ormai come il fantasma residuale del suo passato, più dedito ai retrobottega della politica che alla riscoperta di un suo protagonismo. Anche la Federazione della sinistra non riesce a decollare. Appare come una piccola nicchia presa più dai riti trascorsi che dalla capacità di misurarsi con i problemi del paese. E poi c’è il giustizialismo gridato e senza respiro di Di Pietro. L’unica novità sulla scena politica per molti di noi è rappresentata da Vendola e da Sel. Non si può non dare atto che Sel ha cominciato a muovere le acque a sinistra. C’è oggi un po’ più di fiducia. La ”narrazione” di Vendola, per quanto immaginifica, e più allusiva che strutturata, ha dimostrato col suo successo il bisogno diffuso di ritrovare i luoghi ideali e sociali della sinistra. Non a caso, anche forzando in confronto alla sua storia personale e al vissuto di tanti militanti di Sel, egli ha riconosciuto nel socialismo la bussola per il futuro. Certo, Sel da sola non può bastare. Il grosso delle forze di sinistra, la maggioranza dell’eredità elettorale del Pci ancora attiva sta tuttora nel Pd. Sarebbe stupido ignorarlo o pensare di ricominciare una sorta di accumulazione primitiva partendo dal pur importante 8-9%. Vendola, chiudendo il recente congresso di Sel, è ricorso all’immagine del seme che deve morire per germogliare e fruttificare. E’ una affermazione importante, che se avrà un seguito coerente potrebbe avviare davvero quel rimescolamento delle carte a sinistra che qui auspichiamo. Cosa ne pensano i nostri ospiti? La ritengono una ipotesi percorribile? E, se sì, quando si dovrebbe cominciare? Dobbiamo ancora restare a lungo inchiodati, come davanti alla testa della medusa, ad attendere giorno dopo giorno l’esplosione della emergenza Berlusconi? O non è il caso di cominciare a costruire subito, non attendendo la restaurazione democratica di un ipotetico CLN, le basi culturali, programmatiche e organizzative di una sinistra che possa parlare con una sua voce autonoma al paese, ai movimenti di questi mesi e anche a quella parte delusa che si è messa per ora in disparte?
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Emanuele Macaluso – direttore Il Riformista

Nell’affrontare il tema del convegno la tentazione è quella di guardare al passato e di guardare alle responsabilità. Non c’è dubbio che ci sono delle responsabilità, soprattutto se il tema è come dal comunismo si potesse passare al socialismo europeo. Era possibile nel 1989, all’indomani del crollo del muro di Berlino e a mio avviso qui c’è una responsabilità storica attribuibile a chi allora guidava il PCI che fece una svolta, necessaria, ma senza un obiettivo, senza indicare con chiarezza quale fosse l’approdo, anzi con molte riserve sulla possibiltà di un approdo nel socialismo. Ma la responsabilità è anche di chi nel momento della svolta fece la scissione rifondando un partito comunista: nell’uno e nell’altro caso si andava verso una situazione senza sbocco. Nel PSI la situazione non era poi differente, Craxi nell’89, anziché sfidare il PCI e Occhetto sul terreno della costruzione di una forza socialista, si pose l’unico obiettivo di tornare a Palazzo Chigi, scegliendo così il CAF anziché l’unità delle forze socialiste (se escludiamo la farsa dello slogan nel simbolo elettorale). Craxi non capì che il mondo cambiava, non c’erano più nemmeno le ragioni che avevano suggerito a Pietro Nenni di andare verso il centro-sinistra e cioè la necessità di sbloccare una situazione che era bloccata dalla cortina di ferro. Noi ci siamo trovati di fronte al fatto che la scelta di Craxi inevitabilmente portò il PSI all’autodistruzione e il PCI, spezzato in due tronchi, non ho potuto conoscere evoluzioni diverse da quelle alle quali abbiamo assistito. La rifondazione comunista si è ridotta, ormai, alla scissione del 2%, alla scissione dell’atomo. Allo stesso tempo il PDS, poi DS, ha costruito il Pd, partito che ha accomunato due fallimenti (va ricordato quando Scalfari scrisse che i Ds e la Margherita erano al capolinea).
Oggi la democrazia italiana si trova in una situazione grave, può del resto esistere una Democrazia senza partiti? A destra è andato delineandosi il partito personale, quello che sta avvenendo in questi giorni ci fa vedere quale tumore si sia annidato nel partito di Berlusconi. Dall’altro lato noi non abbiamo un partito. Leggiamo articoli come quello di Salvati sul Corriere che lamenta il fallimento del bipolarismo dovuto (a suo parere) alle coalizioni eterogenee, va invece rilevato che ci sono partiti eterogenei: il Partito Democratico non ha una base politico-culturale comune, non ha le condizioni per poter affrontare la crisi della democrazia con un suo progetto, con una sua linea coerente. Considero la situazione attuale gravissima, non so quali possono essere gli approdi, ma la resistenza berlusconiana, che sta avendo un successo incredibile per la situazione in cui grava, vive della mancanza di un’alternativa credibile. Un Paese non può reggere una democrazia senza un governo e senza un’opposizione: a fronte di un governo in crisi, l’opposizione, che governa una parte del Paese, dovrebbe avanzare una linea politica e avere un rapporto saldo con le masse lavoratrici.
Questa situazione si determina in un momento in cui il socialismo europeo attraversa un’altra grande crisi e difficoltà, perché di fronte al capitalismo globalizzato, di fronte a tutti i problemi che si pongono, che sono di dimensione europea e mondiale, assistiamo a un partito socialista europeo che non ha nessuna funzione e l’internazionale socialista sembra essere spartita. Di fronte alla globalizzazione, nel momento in cui si richiede il massimo di presenza globale della sinistra, abbiamo l’assenza più totale. Mi ha molto colpito il fatto che a fronte di un rivolgimento incredibile, epocale, nei paesi che sono vicini a noi, dall’Egitto alla Tunisia -penso alle foto di queste grandi masse di donne e di giovani- non c’è nulla nella sinistra europea, nemmeno un atto di collegamento, di solidarietà. Una volta c’era un movimento che, anche con degli eccessi, partecipava alle grandi trasformazioni globali. Oggi non c’è niente, nessuno pensa che questo sommovimento possa interessare il mutamento dei rapporti mondiali, che riguardi la liberazione della donna e dell’uomo in una parte importante del mondo.
Il problema è quello di nuovi rapporti mondiali in una situazione in cui lo sviluppo economico non avviene più nelle zone che erano tradizionalmente le locomotive dello sviluppo. Il ruolo dell’Europa, e quindi dell’Europa politica, diventa essenziale, centrale. Qui si innesta la questione del ruolo del socialismo europeo, e va tenuto presente che l’Italia non è presente nel socialismo europeo (il Pd è nel gruppo parlamentare, sia pure con una sua particolare collocazione, ma non è nel partito socialista europeo), la presenza è limitata al piccolo partito socialista. Bisogna assolutamente risolver questa anomalia: è necessario operare in quella dimensione e in quelle sedi per affrontare i caratteri nuovi che ha lo sviluppo mondiale. Abbiamo la necessità di porci il problema di adeguare le nostre valutazioni a quello che è il capitalismo oggi. Non credo infatti che stiamo assistendo all’ultima crisi del capitalismo. E’ cresciuta la produzione, anche attraverso la presenza di “nuovi capitalismi”. Paesi come la Cina, pur avendo un partito che si continua a chiamare comunista, esercitano una forma di governo autoritario intrecciato con uno sviluppo turbo-capitalistico impressionante. Nell’ex Urss abbiamo assistito a uno sviluppo capitalistico violento e brutale. Anche in Africa e in alcuni paesi del medio-oriente registriamo uno sviluppo del capitalismo. Semmai il problema è che il capitalismo finanziario e la sua capacità di svilupparsi, a danno anche di altre forze capitalistiche, ha messo in crisi alcune strutture capitalistiche anche in Italia e negli stessi USA. Questo non significa affatto che siamo al crepuscolo del capitalismo: é il fenomeno della mondializzazione del capitalismo che mette in crisi i capitalismi nazionali. La nuova e diversa fase dello sviluppo capitalistico pone nuove e diverse contraddizioni. Da qui la necessità, per la sinistra, di fronteggiare queste contraddizioni senza considerare il capitalismo nelle forme e nei modi in cui era in passato. E nel dibattito presente nel socialismo europeo, in tutti i partiti socialisti si è avviato un ripensamento molto serio, critico sulla fase degli anni ‘90 e c’è anche verso una riscoperta della dimensione europea. Il periodo in cui c’erano 12-13 governi europei retti da socialisti, non è stato certo il periodo in cui l’unità politica dell’Europa ha fatto passi avanti, perché c’era della diffidenza, non solo da parte del partito laburista -che è stato sempre negativo nei confronti dello sviluppo dell’unità politica europea- ma anche di altri partiti socialisti. Tuttavia quella fase corrisponde all’adesione, da parte di una parte importante dei partiti socialisti europei, a quelle che allora erano le grandi correnti liberiste (non voglio qui aprire il discorso sul blairismo e sulla guida di Schröder in Germania - ma va considerato che Inghilterra e Germania erano i due poli fondamentali del socialismo europeo in quel momento storico). Ritengo che uno dei problemi che dobbiamo porre al Partito democratico sia questo: in Italia ci deve essere o no una sinistra che ha un ruolo nell’Europa, che abbia un collegamento e una presenza attiva e combattiva all’interno dell’Europa nel momento in cui si avverte l’esigenza di governare determinati processi in una dimensione almeno continentale?
Dobbiamo avere pazienza, equilibrio, un forte senso di responsabilità, perché non possiamo nemmeno porci in una situazione di disperazione, bisogna pensare razionalmente quello che c’è da fare: oggi quello che possono fare le forze che hanno più consapevolezza delle ragioni più di fondo del socialismo è quello di fare una battaglia politico-culturale. C’è l’esigenza di ricostruire, di una ripresa di identità e di pensiero della sinistra (che non va mortificato nei tatticismi miserabili) che abbia una dimensione politicamente forte. E’ nei confronti della forza più organizzata, più numerosa, che oggi è radunata nel Pd, che va condotta una battaglia politica senza sconti, una battaglia politica argomentata e molto forte che non abbia come obiettivo la rottura di quel partito, perché altrimenti avremo solo altri pezzetti di sinistra sparsa, mentre un partito che vuole definirsi di massa deve essere un partito socialista, e non esiste partito socialista senza il popolo. Senza il popolo non c’è un partito della sinistra. Il Pd è in crisi senza vedere nella crisi uno sbocco. Una battaglia politica deve fornire uno sbocco: un grande partito della sinistra che abbia una base politico-culturale legata al socialismo europeo e che sappia trovare una capacità di sintesi del travaglio del socialismo italiano.

Giuseppe Vacca - Presidente della Fondazione Istituto Gramsci di Roma
Relazione scritta non pervenuta. Si può recuperare il suo intervento orale nel sito di Radio Radicale.

Giuseppe Tamburrano – Fondazione Nenni
Vicende recenti hanno fatto terra bruciata della sinistra in Italia. Come possiamo pensare di ricostruire su questa terra bruciata una sinistra, un’idea, un movimento, un partito che io continuo a chiamare socialista?
Dobbiamo porci concretamente la domanda se è possibile ancora parlare socialismo e, nel caso, di quale socialismo soprattutto in sedi come questa, che sono fuori da ogni logica burocratica di partito, da ogni ricerca di posizionamento per un posto di consigliere comunale o provinciale.
In Europa ci sono certamente esempi di partiti socialisti, ma sono come chiese sconsacrate, sono strutture in cui l’idea di socialismo è totalmente assente. L’Italia sta peggio perché non c’è neppure una struttura.
La sinistra è fallita – si dice; ma con la crisi iniziata nel 2008 è crollato anche il mito di un mercato sovrano, che non ammette intromissioni, che si autoregola, è crollato il pilastro del capitalismo. Ne hanno preso atto governi come quello di Obama, che ha ripristinato il cosiddetto big governement, un impegno diretto dello stato su banche, industrie etc. La difesa del “libero mercato” senza limiti la sento oggi fare solo nelle file della cosiddetta sinistra: per esempio ho sentito Veltroni protestare contro chi reclama gli interventi dello stato: “Ma volete tornare ai manager pubblici?”. Ma, per tutti gli altri, il mito del mercato è in braghe di tela.
Siamo intanto a una fase che appare di svolta storica: le disuguaglianze crescono, la crisi dell’ecosistema si aggrava, ci sono le guerre, il terrorismo, il disordine mondiale di cui l’eruzione del mondo arabo è un sintomo. Un tempo, in questi casi, si usava ricorrere all’analisi marxista, si cercavano spiegazioni di fondo per intravedere una prospettiva di cambiamento. Oggi il ceto politico italiano di sinistra se la cava con qualche dichiarazione e neanche si pone gli interrogativi di fondo.
Io vorrei lanciare un seme, uno stimolo, cominciando dall’identità, da quella che un tempo si chiamava l’ideologia cioè l’interpretazione del mondo, ponendo con franchezza la domanda: “E’ morto il socialismo o è tramontato il socialismo legato a una certa fase dello sviluppo?”
E ne porrei un’altra, relativa all’Italia: “Può il socialismo rinascere all’interno degli steccati, degli apparati della cosiddetta politica?”. Io sostengo di no. Oggi “la politica” è fango e cenere, il fango della destra, la cenere della quercia e dell’ulivo.
L’idea socialista adeguata al mondo di oggi può rinascere solo altrove. Si è parlato della Fiat. Si è visto con chiarezza che Marchionne è un “padrone”, un padrone d’altri tempi adeguato ai giorni nostri. Non vuole intrusioni, non vuole controlli, neppure quello della Marcegaglia. Ebbene nel referendum Marchionne ha vinto, ma quasi la metà dei lavoratori ha votato no, contro il proprio stesso salario per difendere la propria libertà e la propria dignità. Ci sono ancora soggetti sociali che resistono, che affermano questi valori etici anche in questa Italia berlusconizzata. E lì che può rinascere il socialismo.
C’è dell’altro. In una recente copertina dell’“Economist” si legge Print e stradivarius.
Vi si parla del fatto che già oggi è possibile costruire con il computer un modello di violino e affidarlo a una fabbrica digitalizzata che lo realizza nei minimi particolari. Voglio dire che c’è stata una rivoluzione tecnologica che potrebbe ridurre di molto l’asservimento al lavoro, che potrebbe liberare per gli individui un tempo da vivere in libertà, secondo le proprie scelte e preferenze. E’ quella che Marx, ma anche Keynes, pensavano fosse la prima fase del socialismo.

Fausto Bertinotti – presidente emerito della Camera dei Deputati
 Il problema della mutazione dell’agenda politica è uno dei problemi fondamentali, forse il problema principale, della sinistra. Si dovrebbe, infatti, mettere all’ordine del giorno lo stato di salute della sinistra politica in Italia. So bene che questo tema potrebbe essere sovrastato, come è sovrastato, da molti altri elementi: la drammatica congiuntura economica e sociale, la rinascita di movimenti che chiedono di interrogarsi molto sulla loro natura e sulle loro dinamiche, la dimensione internazionale della crisi ed altro ancora.
Ma, senza una modificazione dell’agenda, la politica, e in particolare quella della sinistra, risulta inesistente, in un panorama politico in cui le scelte, le decisioni avvengono altrove, fuori dalla sfera della politica e progressivamente fuori dal quadro istituzionale, in una condizione che assomiglia assai più a quella di un governo oligarchico della società, piuttosto che a un’organizzazione democratica della medesima. Non mi riferisco solo all’Italia di Berlusconi ma tendenzialmente all’Europa. Questa operazione politica che sarebbe necessaria per mutare l’agenda è sollecitata da due elementi. Anzitutto da una vera e propria precipitazione, in Europa, della contesa sull’organizzazione del modello economico e sociale.
 Potrà sembrare una semplificazione, ma il modello sociale europeo - che da ormai lungo tempo è stato messo in discussione da destra - è oggi aggredito a fondo dalla crisi proprio in ciò che resta del compromesso democratico realizzato nel dopo-guerra dopo la vittoria contro il nazi-fascismo. Questa precipitazione di uno scontro di società configura una vera e propria regressione di civiltà, una drammatica regressione. In questo senso, le decisioni delle classi dirigenti europee, maturano nella incapacità o non volontà di innovare il modello di sviluppo, nella sfida di una competizione internazionale sempre più aspra che vede spostare gli epicentri dello sviluppo capitalistico in altre parti del mondo, rendendo
sostanzialmente periferica l’Europa dopo aver avviato il declino degli Stati Uniti d’America. Questa condizione di incertezza sul futuro fa scegliere alle classi dirigenti il dominio incontrastato del mercato nella sua forma brutale di assolutizzazione della competitività.
Ciò si definisce in una condizione in cui la democrazia viene sostanzialmente sospesa e sostituita da una presunta ineluttabilità delle scelte.
Questa ineluttabilità delle scelte riguarda sia la dimensione sovranazionale - basti pensare alle scelte della Banca Centrale Europea - sia le dimensioni nazionali pressoché commissariate dall’oligarchia europea (nell’ultima direttiva sono in discussione sanzioni in presenza di una dinamica salariale che si discosti da quella attesa).
Se ci si sposta dalla dimensione macroeconomica a quella microeconomica, il modello diventa quello del diktat di Marchionne: la messa in discussione del diritto di sciopero, del ruolo del sindacato, non sono il portato di una cattiveria marchionniana, ma la conseguenza della scelta di organizzare la produzione, e in particolare l’organizzazione del lavoro, in una forma intrinsecamente autoritaria, tanto autoritaria da non poter consentire l’espressione di soggettività da parte dei lavoratori in nessun caso.
Questa operazione, che configura una messa in discussione radicale del compromesso europeo (tanto che credo si possa addirittura parlare della fine della democrazia del dopo-guerra), tratteggia un cambiamento di fondo dei grandi soggetti attivi, il partito e il sindacato, che vengono sottoposti a una mutazione genetica.
Alla politica, messa così in discussione, viene infatti richiesto un rapporto servile mentre si tende a realizzare una impermeabilità delle scelte governo rispetto ai movimenti, i quali sono così sospinti verso i lidi della rivolta, proprio per l’impossibilità di realizzare obiettivi parziali.
Basti pensare alla situazione francese: sei scioperi generali in un mese e mezzo senza che Sarkozy variasse, neppure parzialmente, la sua operazione di prolungamento dell’età pensionabile.
Si sono cioè sostanzialmente tagliati i canali di collegamento tra la società e le istituzioni, quelli che consentono la manifestazione delle rivendicazioni, la canalizzazione delle istanze sul terreno della democrazia al fine di influenzare le sedi delle decisioni. Dall’altro lato c’è una stagione dei movimenti che chiede di essere indagata: non c’è parentela tra i movimenti di ieri e quelli di oggi, e non c’è per moltissime ragioni, attribuibili alle trasformazioni delle culture, dei soggetti, alla diversa composizione sociale di classe.
Ma la principale mutazione si legge nel fatto che, per la prima volta, si tratta di movimenti che in larga misura prescindono dalla storia del movimento operaio così come l’abbiamo conosciuta dopo il 1917, nelle sue forme concrete di organizzazione di partito e di sindacato quali interlocutori fondamentali e permanenti dei movimenti.
Non si tratta più, infatti, di una critica mossa dai movimenti nei confronti dei partiti e del sindacato (come ad es. nel biennio ’68-’69 e in forme diverse nel 1977), ma di una totale indifferenza dei movimenti rispetto ai soggetti politici organizzati.
Il movimento ha preso forme di supplenza nella lotta anche per quanto concerne l’efficacia, persino auto-spettacolarizzandosi per ovviare alla mancanza di socializzazione organizzata del conflitto, cioè in mancanza della costruzione di una potenza democratica capace di poter produrre dei risultati all’interno di un processo di sviluppo del movimento.
 Così tutti i movimenti, persino quello della Fiom, si danno una caratterizzazione carsica adottando le movenze e le espressioni di un movimento tra i movimenti, con un proprio linguaggio, una propria specificità, una propria liturgia.
La storia da cui veniamo aveva, oltre che la forza organizzata, quella potenza strepitosa che si chiama ideologia.
Questo mezzo secolo di lotte è stato caratterizzato da un riferimento chiaro al socialismo, al partito, al sindacato.
 La costruzione del movimento operaio poteva anche avere battute di arresto, subire sconfitte, ma esso proiettava la speranza di ottenere un risultato domani e rendeva accettabile, quando si realizzava, il compromesso in ragione di un rapporto tra l’obiettivo parziale e l’attesa, dichiarata, di un processo di trasformazione della società.
Ci sono stati dei momenti in cui il movimento operaio è rimasto in una fase indefinita, di ricerca incompiuta, come ad esempio dalla Comune di Parigi al 1917.
Dal 1917 tutti (comunisti, socialisti, socialdemocratici) si trovano a confrontarsi con la rivoluzione sovietica o, per lo meno, con le sue conseguenze sull’ordine mondiale, senza poterne prescindere, tanto è vero che quando quella storia finisce, in una sconfitta drammatica, a entrare in crisi sono tutti i partiti della sinistra, non solo i partiti comunisti.
Noi siamo, credo, in una fase non dissimile da quella intercorsa tra la Comune e la fine dell’800, quando si cercava la forma di organizzazione della politica che potesse rispondere alla mutazione storica che stava manifestandosi con la gigantesca modernizzazione del capitalismo.
La sconfitta del movimento operaio del Novecento, che, ancora, ci pesa addosso drammaticamente, non ha fatto venire meno le ragioni di quella nascita, perché il capitalismo finanziario globalizzato accentua quella sfida, non la riduce, mettendo in discussione la stessa democrazia. Nel più generale rapporto tra capitalismo e democrazia mi sento di poter dire che c’è un’incompatibilità almeno tra il capitalismo finanziario globalizzato e la democrazia.
Questa incompatibilità fa rinascere acutamente la questione dei diritti.
C’è chi sostiene che i diritti individuali e liberali valgano sempre (il voto, la libertà di pensiero, ecc… ), mentre i diritti sociali dipendono dall’andamento dell’economia.
Se l’economia va bene i diritti sociali sono riconosciuti, altrimenti essi vengono compressi. La relazione in effetti c’è, ma essa va considerata come bi-univoca: non c’è semplicemente la relazione che dall’economia va sui diritti, ma c’è anche quella che va dai diritti sull’economia.
Non si scappa: se vogliamo i diritti dobbiamo ora modificare questo modello economico-sociale.
Da qui rinasce la questione socialista. Sembra un paradosso ma proprio dove abbiamo avuto una grande tradizione comunista questa verità fatica ad emergere.
Forse anche perché gli ex comunisti hanno pensato che i partiti da cui sono venuti sono stati gli unici titolari della trasformazione. Invece il problema nasce e rinasce con il capitalismo e i suoi cambiamenti.
 E con il problema della trasformazione si ripropone anche la questione dell’organizzazione della sinistra politica. Qui siamo di fronte a due fallimenti.
Parlo prima del mio, quello su cui ho lavorato a lungo.
Il fallimento della costruzione di una seconda sinistra, di una sinistra di alternativa, radicale che, fuori dalla formazione maggioritaria della sinistra italiana, potesse, in un rapporto dialettico e complesso con questa, riaprire la questione della trasformazione della società. Alla stessa stregua bisognerebbe riconoscere, dall’altra parte, che l’operazione del Pd è altrettanto fallita, come dimostra l’impotenza del partito di fronte a ogni problema acuto della società italiana, da Mirafiori alla transizione democratica
resa possibile dalla crisi di Berlusconi.
 Dal riconoscimento di due fallimenti potrebbe riaprirsi la questione di un big-bang della sinistra intera, in ogni sua componente, che si ponga il problema di costruire una soggettività unitaria e plurale, attraverso un’operazione includente di tutte le forze di sinistra e di natura costituente capace di configurare una formazione che abbia almeno un respiro europeo.
Da dove si ricomincia? Bisognerebbe ricominciare, credo, dalla costruzione di un soggetto interprete di un nuovo ciclo del socialismo europeo.
Di tutte le grandi idee del ‘900, ognuna delle quali si poteva riassumeva in una parola, ne rimane una, ha detto Frei Betto, che, sia pure acciaccata ma meno acciaccata di altre, ci permetterebbe di rimetterci in cammino.
Si chiama socialismo.
 
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Lidia Menapace - intervento a margine della tavola rotonda

   Riccardo Lombardi è ricordato per l'alto profilo etico (dovrebbe far arrossire Cicchitto il solo suono del suo nome, se fosse ancora capace di arrossire): ma merita di essere citato e studiato anche per la sua riflessione politica, in particolare  sull'argomento che ci interessa, cioè come si possa delineare un progetto che vada oltre l'orizzonte capitalistico oggi.
     Orbene, egli  non amava essere definito "riformista", né si entusiasmava per il riformismo. Considerava il termine poco chiaro e interpretabile come mero riferimento a lavori (utili, certo) di manutenzione del capitalismo, senza  metterne in discussione fondamenta, pratiche, forza, durata ecc. Preferiva essere e dichiararsi  un "riformatore" e dare il via ad azioni "riformatrici" più che riformiste.
   Che differenza poneva tra  i due termini e le due pratiche? Il riformismo poggia sulla convinzione che l'assetto capitalistico sia sempre riformabile e sempre nel verso progressivo; la dizione "azione riformatrice" indica che l'azione per correggere o modificare l'assetto capitalistico è possibile, deve essere avviata nel suo verso progressista e comunque positivo, e avere esiti durevoli e utili a fini di giustizia e di libertà.
    Per esprimermi assumendo un altro  lessico, di un altro grande maestro, sarebbe come dire che il capitalismo è anche capace  di imitare grandi riforme al punto che esse possono anche essere chiamate (da Gramsci) "rivoluzioni  passive".
    Noi ci muoviamo su di un percorso stretto, ma visibile e chiaro tra  manutenzione capitalistica e rivoluzione passiva.
    Per capire dove stiamo, è necessario analizzare lo stato del capitalismo entro il quale agiamo: orbene è in corso da circa sei sette anni una crisi capitalistica strutturale e globale. Di ciò sembra difficile dubitare, anche se molto spesso non si usa questa definizione, ma solo quella di crisi finanziaria.  Della crisi in corso il solo precedente usabile è la Grande Depressione del 1929-33.
   Per uscire dalla quale, in presenza di un già evidente, ma non così massiccio come oggi, fenomeno di finanziarizzazione dell'economia, e una possibilità ancora "umana" di spese militari, si avviò su suggerimento di Keynes quella  massiccia immissione di denaro pubblico nell'economia, che portò alla fine "fuori dalla crisi", ma dentro la seconda guerra mondiale  (1940-1945).
   Si può oggi riprovare, per "uscire dalla crisi", una ricetta neokeynesiana?  con tutta evidenza no,  perchè la finanziarizzazione  dell'economia è tale che la finanza è tout-court padrona dell'economia capitalistica ed è già successa Hiroshima. Il ricorso alla guerra  è follia. Si  dice MAD  (Mutual Assurance of Destruction) il ricorso al contenuto degli arsenali atomici, che sono capaci di "distruggere 11 volte il pianeta", espressione in sè folle: ma se ci dessimo molto da fare con lotte in tutto il pianeta per riformare gli enti preposti al controllo  atomico, si approderebbe ad altro che a rendere quegli arsenali capaci di "distruggere il pianeta 10 volte"? non è forse vero che qui occorre un altro cammino, che conduca  la guerra a diventare un tabù come l'incesto, prima nelle coscienze dell'umanità che nell'azione delle diplomazie? E se il capitalismo in crisi  sembra poter poggiare sul vorticoso crescere de Pil in Cina India e Brasile, non vi è forse posto per azioni riformatrici che prevengano uno scontro intercapitalistico tra Cina e USA o USA e India o USA e America latina, riflettendo sul "modo di produzione asiatico", o sui fermenti di socialismo nel continente latino- americano?
  Samir Amin che ora dirige a Dakar il Forum sociale mondiale sostiene che non bisogna voler "uscire dalla crisi capitalistica" perché sarebbe come voler tornare a un capitalismo riformato, che oggi non si dà, perché siamo a un bivio della storia tra "socialismo o barbarie": ed è meglio perciò cercar di "uscire dal capitalismo in crisi".
  Su tale analisi della crisi poggia una mia convinzione,secondo la quale forse sta cominciando la crisi finale del capitalismo, non che il capitalismo sia finito: forse ne comincia la crisi finale, che sarà lunga e non crollista, perchè il capitalismo è un sistema  molto complesso, con molti livelli e strumenti, non solo finanziari e militari, ma soprattutto culturali. E una lotta senza quartiere sulla cultura è possibile utile e fattibile, per costruire una diffusa coscienza anticapitalistica e  antipatriarcale.
Come possibile e utile è costruire lotte volte nel verso di rendere chiara l'antinomia tra capitalismo e  ragione, tra capitalismo e civiltà; e sempre più visibile la pericolosa sciocchezza di cadere in una idea di riformismo che  produca la rivoluzione passiva dello scivolamento del capitalismo verso una barbarie  senza confini, nemmeno quelli delle nostre coscienze, inquinate dall'industria culturale capitalistica.
 Ma insomma, siete amici miei o del giaguaro?


Interventi pervenuti per lettera

Alfonso Gianni – Ufficio di Presidenza SEL nazionale
Care compagne e cari compagni riuniti a Livorno, mi scuso con voi per non essere nella condizione, per una coincidenza imprevista, di onorare l’invito che mi avevate rivolto di partecipare al vostro importante convegno. Invito graditissimo, proprio perché il tema di cui discutete mi sta a molto a cuore e non da oggi.
Dal mio punto di vista potrei dire che la stessa nascita di Sinistra Ecologia Libertà muove esattamente dalla necessità di superare la storica divisione tra socialisti e comunisti e di dare vita e corpo alla sinistra del XXI secolo. Come vedete non ho usato aggettivi. Penso infatti che basti il sostantivo – sinistra – a definirci. La sinistra sans phrase, si potrebbe dire con gusto della parafrasi, è quella che dobbiamo costruire.
In questo modo evitiamo di infilarci in una disputa su chi avesse avuto ragione nel 1921. Non affermo affatto che una discussione su un tema questo sia inutile o che debba essere evitata per ragioni di opportunità. Tutt’altro. Mi sento un sostenitore della storia controfattuale, del tipo “cosa sarebbe successo se…”. Ma, appunto, si tratta di storia. E questa compete in primo luogo a chi ha la capacità e la pazienza di spendersi sui documenti e le testimonianze e sulla base di questi ricostruire un quadro attendibile. Non è argomento di un convegno solo. E’ un lungo lavoro che ognuno di noi ha probabilmente già intrapreso per conto suo, ma il cui esito non può essere immiserito in dichiarazioni di occasione.
Per noi è oggi più importante capire che la divisione fra riformisti e rivoluzionari non ha più senso alcuno. Entrambi i concetti sono stati sottoposti alla dura critica della storia. Se si può a buon ragione parlare di una eterogenesi dei processi rivoluzionari, non si può non constatare anche la deriva in tecniche di governo per la conservazione dell’esistente di tante vocazioni riformiste. In realtà di fronte ai nuovi grandi processi storici, in primo luogo la grande globalizzazione capitalistica dell’ultimo quarto di secolo, la sua attuale crisi, il crollo dei paesi del cosiddetto socialismo reale, la messa in discussione del modello sociale europeo che interroga le fondamenta stesse delle teorie e delle pratiche delle socialdemocrazie del vecchio continente, di fronte a tutto questo gli stessi concetti di riforma e di rivoluzione richiederebbero una radicale rivisitazione.
La stessa riflessione in atto tra le intellettualità nel continente latinoamericano, aiutata così grandemente dalla straordinaria diffusione in quel continente del pensiero gramsciano – che della tradizione comunista italiana è tra i fondatori massimi ma mal sopporta di restare in essa inscatolato -, ci indica non solo la necessità, ma la positiva possibilità del superamento del contrasto, un tempo insanabile, tra riformismo e rivoluzionarismo.
Per fare un “balzo di tigre” nel presente e volgere lo sguardo dal continente americano alle rive del Mediterraneo del Sud, ai paesi arabi e maghrebini, assistiamo a movimenti di popolo, a rivolte pacifiche, a processi di rinascita che non rientrano in nessuna delle interpretazioni classiche cui siamo abituati nel giudicare i movimenti sociali e che aggiornano gli stessi più recenti e meritevoli studi sui movimenti postcoloniali.
Ciò che è importante cogliere è che il capitalismo non è infinito, pur dimostrando una straordinaria capacità – che già Schumpeter colse appieno – di passare, rinnovandosi, da una crisi all’altra. Lo stesso capitalismo alla cinese, che è indubbiamente destinato a raccogliere dagli esausti Stati uniti d’America il ruolo di paese guida del capitalismo mondiale, non è uguale a quello che abbiamo conosciuto in Europa o nelle Americhe. Ma anche in Cina si sta sviluppando una nuova ondata di movimenti legati non solo alle grandi questioni ambientali che il frenetico ritmo di sviluppo di quel paese ha portato con sé, ma ai temi della condizione sociale e della democrazia.
E’ un mondo in rivolta quello che nel quale viviamo. La direzione che prenderà è tutt’altro che certa, ma la voglia di costruire una nuova società è più viva che mai. Sta a tutti noi, care compagne e cari compagni, portare il nostro granello di sabbia alla ricostruzione di un’idea di società alternativa, che io non saprei definire con altro termine diverso da quello di socialista. Dobbiamo farlo con i piedi ben dentro il presente, quindi impegnati in prima linea per liquidare il berlusconismo nel profondo della società e dare vita a nuove maggioranze e a nuovi governi capaci di portare avanti politiche di sinistra che affrontino la più grande crisi economica degli ultimi ottanta anni con una trasformazione del modello produttivo, sociale e di vita.
Il terreno europeo è quello più utile per portare avanti questi compiti. Del resto le ultime decisioni della Ue, così pesantemente segnate da un’egemonia tedesca che soffoca ogni possibilità di un ruolo autonomo e attivo dell’Europa sullo scenario mondiale e nel contempo impongono agli stati membri miopi politiche deflattive, di riduzione della spesa sociale e delle retribuzioni, ci chiedono di unire tutte le forze alternative, comuniste, socialiste, socialdemocratiche e progressiste in un’unica battaglia per una diversa politica economica e per un effettivo potere decisionale dei popoli , al di là delle diverse collocazioni di gruppo in seno al Parlamento europeo.
Insomma abbiamo capito che il compito di costruire la sinistra del XXI secolo è probabilmente superiore alle nostre attuali forze. Per questo dobbiamo guardare alle giovani generazioni con quella umile attenzione e quell’ostinato amore verso chi può continuare ciò che abbiamo iniziato, che fu proprio dei fondatori del movimento operaio ormai due secoli fa.
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Cesare Salvi
Presidente di Socialismo 2000
Molto utilmente il Convegno assume la data dell’anniversario della nascita del PCDI per porre la prospettiva del Socialismo del XXI secolo, che si presenta così come una sorta di ricomposizione della scissione, che ha segnato la storia del ‘900, tra i due grandi filoni del movimento operaio.
Sia il comunismo che il socialismo hanno, com’è noto, una comune origine nell’800, nel Manifesto di Marx ed Engels prima, nella nascita dei partiti socialisti poi.
Il Manifesto del 1848, a sua volta erede di una lunga tradizione di pensiero (l’utopia di una società giusta e libera perché depurata dall’ostacolo rappresentato dalla proprietà privata della ricchezza) afferma la necessità, imposta dalla fase storica dell’affermazione del capitalismo, di costituire un soggetto politico rappresentativo dei lavoratori, e autonomo della borghesia in tutte le sue diverse espressioni politiche, con il compito di realizzare una società socialista.
E su questa premessa che negli ultimi decenni dell’800 nascono e acquistano un peso crescente, soprattutto in Europa, i partiti socialisti.
La scissione comunista non riguarda solo l’Italia, come è noto. Lo spartiacque della grande divisione è costituito dall’atteggiamento prevalente nei partiti socialisti nel 1914. La scelta di abbandonare l’internazionalismo pacifista, per sostenere lo sforzo bellico della nazione di appartenenza, determinò la separazione dei gruppi contrari a quello che apparve un tradimento degli ideali socialisti. Questi gruppi trovarono poi un riferimento nella rivoluzione russa e nella nascita dell’Unione sovietica. Ma fin dall’inizio, nello stesso campo del comunismo europeo vengono segnalati i limiti e i rischi della teoria e della pratica del leninismo: basti qui ricordare Rosa Luxemburg, che, prima di affrontare la sua tragica fine, aveva segnalato con preoccupazione i rischi degenerativi insiti nella concezione della dittatura del proletariato assunta a fondamento della propria azione dai dirigenti sovietici.
L’implosione dell’Unione Sovietica e degli altri sistemi europei di “socialismo reale” dimostra, credo, che quella critica era del tutto fondata.
Al tempo stesso, la socialdemocrazia europea, dopo aver vissuto il suo momento alto nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale, con la costruzione dello stato sociale e di un sistema di garanzie dei diritti dei lavoratori, si è trovata impreparata di fronte all’offensiva neoliberista che a partire dagli anni ’80 ha determinato un’impressionante regressione delle conquiste sociali del periodo precedente.
La grande crisi di questi anni, con l’impressionante accrescersi delle diseguaglianze sociali e con la subalternità al capitalismo globalizzato manifestata dai governi occidentali di centro destra e centro sinistra, dimostra che la prospettiva di una società diversa deve essere l’orizzonte ideale di una sinistra che non voglia abdicare ai suoi compiti fondamentali. E questa società diversa è giusto che abbia nel socialismo la sua parola di riferimento.
Il problema dei compiti della sinistra, infatti, non è risolto, ma solamente occultato, da chi teorizza in varie forme una radicale discontinuità con il ‘900, compresa l’esperienza socialista. Si tratta, al contrario, di risalire ancora più indietro, di riprendere le fila del percorso che inizia con il Manifesto del 1848.
Per questo è convincente la formula dell’Unione del socialismo del XXI secolo, in quanto essa ripropone il tema della costruzione progressiva e democratica di una società nella quale uomini e donne si riappropriano collettivamente del potere di governare i processi economici e sociali. Altrimenti, senza questa prospettiva, la sinistra inevitabilmente si perde nella governabilità, nella ricerca del potere, nella subalternità a chi il potere ce l’ha davvero (e alla corrispondente ideologia della globalizzazione neoliberista).
La parte del ‘900 che va superata è la contesa sulle parole, la tendenza alla scissione ideologica, la vocazione minoritaria. L’Italia, che è il paese che ha avuto la sinistra più forte e per molti aspetti anche la più avanzata, rischia di diventare l’unico paese europeo privo di una sinistra politica capace di incidere e di contare. Il Socialismo del XXI secolo può costituire il terreno di incontro tra coloro che avvertono l’esigenza di ridare all’Italia un partito nel quale vivano, come vivevano insieme all’inizio della storia del movimento operaio, le parole e le identità del comunismo e del socialismo, arricchite dalla consapevolezza che non c’è socialismo senza libertà, e dall’apporto dei nuovi movimenti, che hanno indicato nella liberazione femminile e nel rispetto della natura componenti essenziali di una idea di società alternativa a quella scandalosamente ingiusta nella quale ci troviamo a vivere.


Breve consuntivo dell'evento
di Luigi Fasce

Lo scopo del convegno a mio parere sembra essere stato conseguito.
Aldilà delle diverse opinioni emerse dal dibattito, su chi ha avuto la responsabilità di avere perseguito proditoriamente la scissione, i comunisti di Bordiga ovviamente per opposti motivi, il risultato è stata la scissione comunista. Queste contrastanti opinioni pur tuttavia non scalfiscono la sostanza del dissidio che stava al fondo dei contrasti tra i pensatori socialisti, che al tempo del congresso di Livorno vedevano contrapposte tre correnti di pensiero: comunista, massimalista, riformista. Comunisti e massimalisti del tempo condividevano l' unica ideologia socialista, fondata sul principio-valore di uguaglianza e del superamento delle classi e controllo del popolo dei mezzi di produzione pienamente realizzata con la gloriosa rivoluzione russa, ma proprio per questo i comunisti erano per fare subito la rivoluzione armata, mentre i massimalisti italiani, erano piuttosto riottosi a passare subito alla fase della lotta armata preferendo l'arma degli scioperi e del proselitismo politico. Invece i riformisti turatiani pensavano di costruire la società socialista per via parlamentare col superamento graduale del capitalismo mediante una sequenza di riforme strutturali ed erano comunque convinti che il socialismo doveva sempre coniugare il principio di Uguaglianza con quello di Libertà e dunque non condividevano né lotta armata né modello URSS.
Queste grosso modo le diverse posizioni divergenti del tempo per realizzare la società socialista che provocarono la scissione comunista. Le rimanenti componenti massimalista e riformista del PSI, senza aver mai elaborato un serio chiarimento ideologico delle rispettive posizioni, nel tempo ha avuto conseguenze perniciose.
Nel 1959 a Godesberg la scelta riformista della Socialdemocrazia tedesca ha assorbito in sé il filone massimalista e accentuato le divergenze con il comunismo. In Italia solo con la gestione craxiana il filone riformista ha avuto il sopravvento sul massimalismo demartiniano gradualisticamente dissolto. Riformismo socialista poi sfociato nella deriva liberista della “terza via”. Dunque queste le tante buone ragioni per riflettere sulla scissione comunista del '21 e le sue ambigue conseguenze lasciateci in eredità ancora attualmente. Nel convegno qualcuno ha argomentato senza troppe sottili distinzioni ideologiche che la lezione della storia scritta del 1989 si è incaricata di decretare la fine dell'ideologia comunista. Seppur vera, questa sbrigativa sentenza è per me insoddisfacente . La lezione della storia citata, l'evento crollo dell'URSS, e quello che è ancora peggio, la trasformazione dell'economia comunista imposta dal regime dittatoriale comunista cinese nell'ircocervo sistema comunista-liberista non sembra avere avuto nessuna presa di coscienza sugli irriducibili credenti nell'ideologia comunista, giovani e meno giovani che ancora ora si impegnano a diffondere “Lotta comunista” davanti alle università e nei luoghi di lavoro. Un regime comunista come l'URSS o Cina può fallire nella realtà.
Mentre un impianto ideologico (idee partorite dalla mente) non può essere smontato dai fatti, ma solo da stringente confutazione teorica. Insomma solo dal confronto delle idee. Peraltro sappiamo che con qualche buona ragione la critica marxista all'attuale “finanzcapitalismo” oggi si è rivalutata. Sappiamo però che restano sempre assenti le idee per l'instaurazione di un sistema comunista da concretizzare in tempi non secolari.
E' per questo che con il mio intervento ho voluto centrare la critica sul “controllo dei mezzi di produzione” caposaldo ideologico del socialismo e del comunismo realizzato nell'URSS, avvalendomi di contributi di diversi autori e in particolare di quello determinante di Bruno Rizzi.
Spero convincente critica radicale al sistema di economia totalmente statalizzata e che rimanda l'elaborazione teorica delle origini pre (Owen-Proudon-Mazzini) o post marxiane (Rosselli, Calogero e Capitini) del socialismo.
Quindi la rifondazione del pensiero socialista nel ventunesimo secolo deve realizzarsi secondo i principi di Uguaglianza, Libertà, Laicità, Fraternità, Ecologia e prevedere cooperazione internazionale, difesa dei beni comuni e dei servizi pubblici, finalità sociale dell'impresa, economia mista, cogestione delle grandi imprese e gestione cooperativa delle medie-piccole imprese, con compatibilità sociale e ecologica dell'economia garantita dallo Stato, Non oso ancora proporre l'ONU, ma almeno da aggregazioni di Stati come L'Unione Europea, gli USA, ma anche il Bric.
Queste finalità che pure devono essere perseguite pacificamente devono avere una particolare accelerazione perché attualmente l'incontrollata espansione demografica, le macroscopiche disuguaglianze sociali e il devastante impatto ambientale lo richiedono con urgenza. Al momento la sinistra in Italia, il PSE e l'Internazionale socialista non sembrano ancora pronti per affrontare questo ardito compito, noi faremo da costante pungolo perché ciò si realizzi in tempi brevi.
Poi possiamo finalmente augurarci la vittoria elettorale replica watches uk online negli Stati europei delle sinistre e nel Parlamento Europeo per poi costruire una vera Comunità politica Europea con sistema economico ecocompatibile, cooperativistico-solidaristico da contrapporre a livello mondiale a quello liberista ferino e tossico.

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Socio fondatore del Gruppo di Volpedo e del Network per il socialismo europeo .