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CULTURA POLITICA

TITOLO

Partito Democratico ? Riflessione critica (I^ parte - da primarie ottobre 2005 a elezioni politiche 9-10 aprile 2006) di Luigi Fasce
  Per tutti coloro che vogliono trovare un senso agli articoli di giornali e riviste che ultimamente si sono occupati del Partito democratico.
DATA 08/04/2006
LUOGO Genova

E’ dopo le primarie del 16 ottobre 2005 che si riprende il discorso sul partito unico della sinistra denominato a questo punto come Democratico lasciandosi alle spalle il lungo contrastato periodo dedicato al partito riformista.
Dopo tale evento e fino ai primi di marzo 2006 (l’argomento lascia il posto al dibattito contingente sulle elezioni politiche del 9 aprile p.v.) abbiamo assistito a una grande querelle sul Partito Democratico.

Che è poi la continuazione di quella riguardante il Partito riformista in qualche occasione definito anche Partito democratico riformista.

Querelle che ha visto coinvolti sui giornali Quotidiani e Riviste più o meno specializzate politici e politologi famosi e meno famosi. Dibattito che si spera abbia illuminato a sufficienza sulla questione Partito Democratico si, si ma di che tipo, no di nessun tipo.
L’intricata questione è conseguente a due precisi eventi storici e a uno specifico fatto cronicistico perfettamente conseguenti. Il primo dei due eventi storici è quello del crollo del regime URSS del 1989 che si è voluto fare passare come sinonimo della fine delle ideologie ma che non ha certamente determinato l’estinzione del PCI, e il secondo evento, casuale rispetto al primo, quello di Tangentopoli degli anni novanta che ha causato, questo si, il dissolversi di DC e PSI. Su queste macerie è sorto l’Ulivo (il grande) di Prodi e Parisi. Ulivo che senza dichiarare il collante ideologico unificante sembrava implicitamente inequivocabilmente contenerlo. Purtroppo ogni aggregazione politica (la simbolica del BUS prodiano non poteva bastare quale collante ideologico, semmai è servita temporaneamente a contenere l’eterogeneo miscuglio ideologico che si trovava al suo interno) se non esplicita chiaramente il proprio contenuto ideologico si presta a venire interpretato - così è se vi pare - pirandellianamente a soggetto.
Fatto sta che il collante ideologico che doveva caratterizzare l’Ulivo (il Grande) non si è mai voluto esplicitarlo. Vuoi per vaghezza di idee vuoi per opportunismo vuoi per temporeggiare e posizionarsi al meglio. Tutti sanno oramai che il collante politico che avrebbe dovuto emergere sarebbe dovuto emergere dalla sintesi di almeno tre culture politiche: cattolica, socialista e liberale. Con l’URSS crollata l’ideologia Comunista, eclissato il fascismo, in Italia la sintesi delle tre culture riformiste sembrava dunque grosso modo acquisita. Ma continuava a non essere esplicitata. Era il tempo in cui contavano solo i e i programmi di governo. E’ in quel clima di altisonanti appelli a costituire il Partito unico dell’Ulivo senza se e senza ma che si registra l’evento cronicistico di Arturo Parisi alfiere dell’Ulivo lasciato solo in Italia (Prodi è presidente della Commissione Europea a Bruxelles dopo la sua defenestrazione da capo del Governo italiano). Parisi – novello David – al Congresso del PDS a Torino – esortava Veltroni perentoriamente a sciogliersi in un unico Partito ulivista.
In tale occasione ovviamente i diessini, che si sentivano sufficientemente liberal (significativo che lo slogan del congresso fosse l’americaneggiante “I care”), liberal certamente ma non fino a cotal punto e seppure componente maggioritaria del cartello elettorale ulivista, hanno cortesemente declinato l’invito.
Sfumato l’ambito sogno di Prodi-Parisi di far nascere nell’immediato, giustamente, il Partito unico ulivista (la sola componente estranea all’Ulivo era Rifondazione comunista) è cominciata la lenta agonia del grande Ulivo. Intanto che Prodi era a Bruxelles a governare l’U.E. era Parisi il suo vicario in Italia che tentava testardamente di riunire i cocci ulivisti. Vista la riottosità dei DS si è fatto artefice prima della nascita de “I Democratici” fino a DL – la Margherita che avrebbe dovuto essere il battistrada del partito ulivista unico, appunto il Partito Democratico. Infatti unificati in DL-la Margherita l’UDEUR, PPI, IdV e appunto I Democratici, bastava solo congiungersi con SDI DS, Verdi, Comunisti Italiani che già componevano la federazione dell’Ulivo.
Non è stato così. Si è passati dalla coalizione elettorale dell’Ulivo (Grande) degli anni 90 del secolo scorso, trasformatasi federazione dell’Ulivo nei primi anni del 2000 in cui entravano, uscivano e entrvano l’UDEUR di Mastella e l’Italia dei Valori di Di Pietro fino a diventare nel 2005 componente ulivista ovvero riformista dell’UNIONE costituitasi il 9 febbraio 2005 con l’ingresso di Rifondazione Comunista. Dunque Unione ma certamente non ancora Partito unico, bensì cartello elettore di partiti del centrosinistra.
E’ il periodo del nucleo riformista ulivista dell’Unione, nucleo centrale coeso (si fa per dire) che avrebbe dovuto costituire i tre riformismi storici: liberale - socialista – cattolico democratico. E fino all’ottobre 2005 è di scena il partito riformista. In quella fase i restanti partiti SDI-DS-Verdi-Comunisti Italiani sembravano i più convinti dell’operazione Partito Unico (unico dilemma Riformista o Rriformatore ?) dell’Ulivo. Di partito unico in quel periodo non ne volevano neppure sentire parlare nè Mastella né Bertinotti. Boicottava persino la Federazione ulivista il sornione Rutelli, oramai collocato stabilmente con La Margherita (percentuale elettorale a due zeri scippata dagli ex Popolari a laici e socialisti che hanno contribuito alla costituzione della Margherita) su salde posizioni cattoliche.
E’ dopo il 16 ottobre 2005 data delle primarie per Prodi candidato alle elezioni politiche dell’aprile 2006 a presidente del Governo dell’Unione che in crescendo si ricomincia a parlare di Partito Democratico.
L’evento Primarie del 16 ottobre 2005 è stato devastante per Rutelli diventato esplicitamente avverso al Partito unico sotto qualunque spoglia. Nei primi due mesi del 2004 la Margherita ha corso il rischio di scissione con minoranza ulivista al 25% e il resto rutelliano-mariniano-demitiano contro il progetto ulivo. Mentre invece per Mastella e per Bertinotti le elezioni primarie del 16 ottobre 2005 che hanno portato 4 milione e trecento mila cittadini italiani a votare per l’Unione (coalizione di centrosinistra che ha sostituito il grande Ulivo degli anni 90) non hanno modificato di un nulla la loro posizione scopertamente avversa al futuro Partito unico prima riformista ora Democratico.
I commentatori politici che si sono succeduti a plaudire le elezioni primarie che hanno incoronato a furor di popolo unionista (non solo ulivista !) Prodi Premier dell’UNIONE composta da UDEUR- Italia dei Valori -ULIVO (DL Margherita-SDI-Comunisti italiani-Verdi)-Rifondazione Comunista, non si sono limitati a osannare Prodi – leader indiscusso dell’Unione, ma (vedi Parisi e Amato) hanno interpretato il risultato come un grande inequivocabile plebiscito in favore del Partito Unico, non più Partito Riformista, Democratico Riformista ma semplicemente Partito Democratico.
Il neghittoso Rutelli liquidava d’incanto la linea contraria alla Federazione dell’Ulivo portata avanti dalla Margherita dalla fine dell’anno 2004 che lo contrapponeva alla minoranza ulivista (in seno alla Margherita) e si convertiva – illuminato sulla via delle Primarie - al Partito Democratico.
Da questo momento in avanti il Rutelli da frenatore dell’Ulivo diventa il primo acceleratore del Partito Democratico.
Prima delle primarie, quando Rutelli frenava per cercare di arroccare i cattolici in difensiva all’interno dell’Unione lo faceva – inventandosi tutte le possibili obiezioni - con mire centriste cattoliche ovvero per ricomporre i spezzoni cattolici dei due schieramenti di destra e sinistra in un unico nuovo contenitore post DC. La manovra era facilmente intuibile.
Ma dopo le Primarie Rutelli si converte a Paladino ad oltranza del Partito Democratico.
Rutelli è forse recuperato genuinamente alla causa del Partito Unico del centrosinistra ? Non vuole più riunificare i cattolici e ricostruire il partito di centro-moderato cattolico ? Sono forse finite le pene del centrosinistra ? No di certo. Rutelli persegue ancora il progetto centrista cattolico per disporsi a essere l’ago della bilancia politica - una volta con la destra e l’altra se i numeri propendono in questo senso, con la sinistra – a governare in perpetuo garante dei valori cattolici. Se cambierà idea sarà soltanto perché alle elezioni politiche del 9-10 aprile 2006 le componenti cattoliche riceveranno una sonora batosta e tutte assieme non saranno in grado di svolgere il ruolo di ago della bilancia tra i due poli.



Partito Democratico interclassista a ideologia cattolica

La vera ragione della sperticata fuga in avanti di Rutelli pro Partito Democratico viene infine svelata dallo stesso Rutelli che delinea l’identikit del partito democratico dei suoi desideri: «Sbaglia — afferma il presidente della Margherita — chi dice che il nuovo partito sarà di sinistra: l'Italia è un Paese che ha un'anima democratica e moderata»(Corriere 8/12/2005).

Dunque sappiamo per certo quello che Rutelli pensa del futuro Partito Democratico, un Partito di Democristiani tendenzialmente di sinistra, così come intesa dalla dottrina sociale della chiesa cattolica e come previsto già da De Gasperi e con i diessini a supporto.
Questo tipo di Partito Democratico non è mai stato enunciato esplicitamente dai suoi fedelissimi, se ne sono ben guardati, ma le prese di posizioni di Rutelli sono sostanzialmente precisi indicatori del senso di marcia della Margherita dopo il 16 ottobre 2006.



Questo è il modello di Partito democratico a egemonia cattolica che non vogliamo.




Partito Democratico a-ideologico o liberalsocialista ?


Dalla lettura dei vari articoli che vedono Arturo Parisi propugnatore del Partito Democratico – prima e dopo le primarie del 16 ottobre 2005 - sembra di assistere a una fiera contrapposizione tra coloro che propongono un indefinibile modello di Partito nell’alveo della tradizione USA e coloro che lo vogliono maggiormente connotato di pensiero liberalsocialista.
Vediamo comunque gli spunti esortativi alla costituzione rapida del Partito Democratico (confusivamente inteso all’americana) e gli ipotetici ostacoli da evitare per poterlo realizzare secondo Gianni Riotta (18/10/2005 Corriere della Sera) espressi soltanto 2 giorni dopo le primarie, di cui cito per brevità soltanto i passaggi più significativi del suo articolo dal titolo “La sfida che attende il centrosinistra -Partito democratico e unità dell'ulivo”
“…… I quattro milioni di elettori di domenica trasmettono anche alla storia italiana lo choc primarie, riproponendo subito la prospettiva della lista unitaria del centrosinistra che sembrava ormai tramontata. ….E' l'esigenza di coniugare il meglio della lunga stagione della Prima repubblica, il riformismo degli anni '60, con l'addio alle ideologie e la voglia di governo della tumultuosa Seconda repubblica. Le culture del centrosinistra, Dc, Psi, Pci, radicali, non devono cercare una postuma conferma di identità, ma maturare un nuovo soggetto: un moderno partito democratico. Prodi parla di «vero Ulivo, grande Unione», Rutelli (come raccontato sul Corriere da Maria Teresa Meli) mostra preziose aperture, Fassino è stato a lungo interprete di questo bisogno. Qualunque cosa predicheranno le sirene del politichese, non è stagione da cinismi e furbizie. Se la nuova sinistra resta un cartello, rabberciato magari con sagacia per aggirare il proporzionale per poi, raggranellato qualche seggio, tornare a eludere gli interessi nazionali, allora gli elettori moderati non sfratteranno la Casa delle Libertà e la delusione disperderà il popolo delle primarie.

La scelta di domenica sollecita un centrosinistra che si muova sulle orme tolleranti, occidentali, del partito democratico Usa, che sembravano accettate da tutti pochi anni fa, quando anche D'Alema dialogava con Blair e Clinton sulla terza via e che invece l'eterno ritorno del passato remoto sembra rinnegare. Se la difesa del codice genetico Dc, della «socialdemocrazia europea», dell'antica «via italiana al socialismo», dell' orgoglio craxiano o radicale, agiranno come defoliante contro le speranze, magari ingenue, di domenica, il profumo delle primarie svanirà prima dell'inverno.

Questo il appello di gettare il cuore oltre l’ostacolo, tanto, secondo Riotta di modello di Partito Democratico ci sarebbe solo quello liberale moderatamente di sinistra made in USA. Dunque o questo o questo.
Fa seguito alle certezze di Riotta il dubbioso articolo di Franchi(Corriere 19/10/2005)
“DOPO LE PRIMARIE
L'identità del centrosinistra
Kennediani o socialisti
Dice Massimo D'Alema che è meglio diffidare delle esagerazioni: «Ieri eravamo tutti divisi, oggi siamo un unico partito». L'elettorato più attivo del centrosinistra, quei quattro milioni e passa che sono andati a votare, e soprattutto quegli oltre tre milioni che hanno celto Romano Prodi, vuole unità. E, salvo imprevedibili intoppi, una lista unitaria per la Camera avrà. Per il resto, calma e gesso: «I percorsi politici non durano tre giorni».
Giusto, il realismo non è mai troppo. Ma, adesso che Francesco Rutelli e la maggioranza della Margherita hanno dovuto lasciar cadere il fiero intendimento di correre da soli nelle elezioni di primavera, è proprio sui percorsi che sarebbe bene intendersi.
Meglio, sulle loro mete: non sta scritto da nessuna parte che l’afflato unitario del popolo delle primarie sia un valore in sé, condiviso quasi per definizione dagli elettori. Con il proporzionale, anzi, capita pure abbastanza spesso che uniti si perda. O si ottengano risultati poco esaltanti, come il 30 per cento e poco più dei riformisti «Uniti nell’Ulivo» alle ultime elezioni europee. Allora Rutelli e la maggioranza della Margherita ne presero atto, si ritennero danneggiati (qualcuno disse: cannibalizzati) dai Ds, e iniziarono a schierarsi a difesa della propria autonomia: basta liste comuni, niente partiti unici. Adesso pongono la questione in modo molto diverso. Non sono in grado di porre condizioni ultimative per l’oggi, ma di lanciare oggi una sfida per il domani sì. E dunque tornano a mettere sul tappeto il tema della costruzione in tempi non storici, ma politici, del «Partito democratico». Di un partito che in Italia, in Europa e nel mondo si collochi al di là e al di fuori della famiglia socialista e delle sue istituzioni. Che guardi più a Clinton e a Blair che a Zapatero, alle socialdemocrazie del Nord Europa o allo stesso Schröder. E che si organizzi di conseguenza, anche per quanto riguarda il pluralismo dei suoi gruppi dirigenti. Non è solo un diversivo. Il tema ha diviso i Ds sin dai loro primi passi, contrapponendo, in particolare, il «kennediano» Walter Veltroni al «socialista» D’Alema. Acqua passata, visto che, se Veltroni la pensa ancora così, D’Alema ha cambiato in gran parte idea, e Piero Fassino pare poco interessato al dilemma. In parte sì, ma solo in parte: la questione è stata pragmaticamente accantonata, non risolta. E’ molto difficile, anzi, pressoché impossibile che la Quercia possa (e voglia) venirne a capo nei pochi mesi che ci separano dalle elezioni; e Rutelli, realisticamente, non lo chiede nemmeno. Ma qualche notizia su identità e direzione di marcia i Ds dovranno pure risolversi a darla. Anche perché in caso contrario la lista comune rischia di ridursi al rango di ragionevole soluzione al problema della candidatura di Prodi, o poco più. E i contrasti oggi messi (quasi) tra parentesi minacciano di ripresentarsi il giorno dopo le elezioni.”


Ecco che il noto editorialista liberale verace Angelo Panebianco viene prontamente a dar man forte a Riotta con il suo articolo (Corriere 23/10/2005), sostenendo la necessità del Partito Democratico all’americana, l’unico che può risolvere i problemi italiani.

“Come può nascere il Partito democratico
LA CONVERSIONE DEL SOCIALISMO
Come nasce un nuovo partito? Come si forgiano le identità che dovranno alimentarlo? Un nuovo partito si afferma e nuove identità si forgiano se, e soltanto se, coloro che si candidano a guidarlo sono in grado di offrire ai potenziali seguaci un modo nuovo di guardare ai vecchi fenomeni, e nuove soluzioni per i problemi incombenti. E se la forza della proposta è tale da spingere i potenziali seguaci a investire risorse (entusiasmo, tempo, denaro) nel perseguimento della «causa». La proposta deve essere percepita come portatrice di una forte discontinuità rispetto al passato. Altrimenti non nascerà alcun partito. Dopo le primarie, Francesco Rutelli ha rilanciato nel centrosinistra la discussione sul «partito democratico». Ma, dopo le prime battute, il dibattito sembra essersi impantanato: si discute se debba o no il nuovo partito limitarsi ad aggregare le tradizioni preesistenti e se debba o no «includere» la tradizione socialista. Ma se partiti e identità nascono da nuove proposte, da modi nuovi di intendere problemi vecchi e nuovi, allora è dai problemi che chi discute dovrebbe iniziare. Intervistato dal Corriere (21 ottobre) sull’ipotesi del «partito democratico» italiano, il politologo americano Charles Kupchan giustamente consiglia «pragmatismo». Ciò appunto significa partire non dalle «tradizioni» mai dai problemi e, alla luce delle soluzioni individuate, decidere anche cosa farsene delle venerande tradizioni.
Qual è il problema italiano? È la sclerosi del suo tessuto civile, delle sue istituzioni pubbliche, economiche, educative, eccetera. Ricordo che Berlusconi vinse nel 2001 perché sembrava avere una risposta contro la sclerosi del sistema e perderà probabilmente nel 2006 perché non ne ha avuto ragione. Aggredire il male italiano significa prima di tutto, anche per una formazione di centrosinistra, come dice Kupchan, fare i conti fino in fondo con la questione del mercato. Che, dal punto di vista della sinistra, richiede certamente regole e tutele sociali, ma mai regole che gli impediscano di prosperare. Favorire il mercato, riformare il welfare, ridurre forza e peso delle corporazioni: questo richiederebbe combattere la sclerosi del sistema.
Un nuovo partito del centrosinistra, comunque lo si chiami, dovrebbe dunque ingaggiare un bel po’ di conflitti con tanti interessi costituiti (anche sindacali).
Se si parte dai problemi anche il discorso sulle «tradizioni» diventa chiaro: si scopre che la gloriosa tradizione socialista (in senso lato) ha ben poco ormai da offrire ai grandi Paesi europei (si veda l’intervista ad Anthony Giddens sul Corriere di ieri) , e non è solo il successo del riposizionamento «centrista» del Labour Party di Tony Blair a indicarlo. Non ha nulla da offrire in Italia dove ha sempre fatto tutt’uno con l’ideologia antimercato, statalista e assistenziale.
I partiti nuovi non nascono dalla sommatoria di tradizioni più o meno anchilosate, ma dal conflitto fra le nuove proposte e le vecchie tradizioni. Il partito democratico nascerà se avrà una proposta (e una leadership all’altezza) così forte da favorire «conversioni» e l’abbandono da parte di tanti delle antiche strade. Il processo è tutt’altro che indolore ma non si conoscono altri modi per creare nuove identità.”

E’ di tutta evidenza che il pragmatismo di Panebianco ovvero l’idea di partire dai problemi del Paese per arrivare alla costituzione del Partito Democratico in definitiva sposa interamente l’ideologia liberista (il mercato ci salverà!) di cui il Partito Democratico USA (con qualche sensibilità compassionevole in più verso i meno capaci e i meno fortunati, rispetto al Partito Repubblicano). Ma Panebianco non contrabbanda soltanto in questo modo il modello liberista USA (modello peraltro legittimo), ma travisa anche (là dove lo cita a sostegno della sua tesi) il pensiero di Giddens che per dovere di informazione corretta mi pregio di riportare alcune frasi significative dell’articolo-intervista a Giddens di Federico Fubini (Corriere sabato 22 ottobre 2005), frasi precisamente riportate che contraddicono Panebianco.
“L’intervista// Il teorico della in Italia.

Giddens: la sinistra vada oltre la socialdemocrazia.
…. “Il suo nome è identificato con la Terza via, ma oggi nessuno ne parla più. Perché.

A questo proposito riporto per ancora maggiore chiarezza anche un precedente articolo apparso su Repubblica l’8 giugno 2005, dunque molto prima delle primarie, a firma dello stesso Giddens.

“Le riforme che possono salvare la sinistra
Non si può sperare di unificare l´intera sinistra, con tutte le sue componenti. Inevitabilmente, dovremo sempre mettere in conto l´esistenza di gruppi di estrema sinistra, contrari alla globalizzazione, pronti ad accusare gli USA di tutti i mali del mondo e a rivendicare la fine del capitalismo in nome di qualcosa di non meglio specificato. Ciò che dobbiamo chiederci è come unire e rafforzare la sinistra moderata, o il centro-sinistra: una forza in grado di guidare il centro politico e di raccogliere un ampio sostegno elettorale. Ma esistono i comuni denominatori per una sinistra che risponda a questa definizione, e sia capace di mettere a punto un´agenda complessiva, tenendo quanto meno in scacco eventuali motivi di disaccordo?
Ho seguito il vivace dibattito che si sta conducendo oggi in Italia sull´ipotesi di rinunciare in qualche misura, ai fini di un programma comune in grado di integrare la sinistra, all´idea socialdemocratica, in favore di un più amorfo liberalismo sociale. Per quanto mi riguarda, io non lo credo. Può darsi che la «socialdemocrazia classica» degli anni 1960 e 1970, fondata su una concezione keynesiana, sia ormai praticamente morta. Non così la democrazia sociale. Non mi faccio scrupolo di affermare che una terza via socialdemocratica (o se si preferisce, un socialismo riformista) continua a rappresentare una proposta altamente pertinente per il mondo di oggi. Quando scrissi, nel 1998, il libro dal titolo «La Terza via», scelsi come sottotitolo «Il rinnovamento della socialdemocrazia», dato che per me si tratta di due modi per dire la stessa cosa.
Credo che per i socialdemocratici revisionisti di oggi i valori chiave della socialdemocrazia - la solidarietà, l´egualitarismo, la tutela dei più vulnerabili - non abbiano perso nulla della loro importanza. In questo senso la socialdemocrazia differisce dal liberalismo, poiché considera di vitale importanza l´elemento «sociale». E per il perseguimento di quest´obiettivo ritiene essenziale un modo di governare attivo, che utilizzi l´intervento dello Stato, pur senza limitarsi ad esso.
Se i valori rimangono relativamente inalterati, è però necessario, in un mondo in rapida trasformazione, rivedere radicalmente le strategie e le politiche. Ecco quali sono gli imperativi della terza via socialdemocratica: credere in un modo di governare attivo, alla condizione irrinunciabile di una contemporanea riforma dello Stato, soprattutto laddove è eccessivamente gerarchico, burocratico o inefficiente; riformare i sistemi del welfare per adeguarli a un contesto sociale in via di mutazione: porre l´accento sul dinamismo economico, la creazione di posti di lavoro e la necessità di affrontare queste tematiche congiuntamente a programmi di giustizia sociale; sviluppare soluzioni di centrosinistra a problemi che in passato sono stati i cavalli di battaglia della destra - in particolare l´identità nazionale, la legalità e l´ordine, l´immigrazione; e mantenere un atteggiamento positivo, seppure critico, verso la globalizzazione nelle sue diverse accezioni.
Se in molti paesi la sinistra ha finito per deragliare, la causa va ricercata, più ancora che nella mancanza di un programma complessivo, nelle sue divisioni.
Le quali ultime riguardano in particolare due questioni:
la risposta da dare al populismo e alle sue ansie su questioni quali l´identità nazionale e l´immigrazione, e la riforma strutturale dell´economia e del welfare.
Se in passato avevo considerato il populismo come la principale minaccia al progresso politico della sinistra e alla sua unità, oggi sono di parere diverso. Di fatto, gran parte della sinistra non sottovaluta più il timore di un´erosione dell´identità nazionale; e dopo varie sconfitte elettorali provocate dall´ascesa degli schieramenti populisti, sono ormai in pochi a considerare infondate le ansie causate dall´immigrazione. Si tratta di preoccupazioni che esigono una risposta. In questo senso, i recenti risultati elettorali del Regno Unito sono stati incoraggianti. L´elettorato ha dato atto al Labour di aver preso sul serio questi problemi. E i Tory, che avevano centrato la loro campagna sulla questione dell´immigrazione al punto da flirtare con il più scoperto razzismo, non ne hanno tratto alcun giovamento in termini di voti.
Ma è sulla questione delle riforme strutturali che la sinistra si sta frammentando, se non sfasciando, soprattutto in Germania, in Francia e in Italia, cioè nei paesi del nucleo centrale dell´Unione Europea.”
Sempre in favore del Partito Democratico l’articolo di Dario Di Vico subito dopo le primarie (Corriere 28/10/2005)

“Partito democratico e tradizione socialista
Vecchi recinti nuove identità
È assai difficile che in un seminario di quelli che si organizzano quasi sempre in Umbria un dirigente dei Ds citi Poul Nyrup Rasmussen o Robin Cook, i due ultimi presidenti del Pse. È assai più probabile che impreziosisca i suoi ragionamenti parafrasando Tony Giddens, Amartya Sen o Robert Reich, quanto di meglio oggi offrano la scienza politica e la sociologia di matrice anglosassone e democratica. Se poi però il discorso dai contenuti si sposta ai contenitori, subentra nelle stesse persone il richiamo all'ortodossia. La tradizione socialdemocratica diventa un recinto sacro e invalicabile e i Rasmussen si tramutano da rospi in principi del pensiero
Eppure 15 anni fa quando i comunisti si trovarono di fronte alla discontinuità rappresentata dal crollo del Muro ebbero la felice intuizione di scegliere per sé la definizione di democratici di sinistra. Lo fecero per motivi non solo contingenti (l'anticraxismo) e la storia ha dato ragione a quella lontana scelta di Achille Occhetto. Ne è riprova il fatto che Walter Veltroni e Francesco Rutelli, in questi giorni di appassionate discussioni, abbiano indicato nel partito democratico alla Clinton l'orizzonte per il quale lavorare unendo tutte le forze progressiste. Per far questo c'è bisogno, come hanno sottolineato Giuliano Amato e Arturo Parisi, di «una nuova e più alta identità comune» e di mettere da parte «i patriottismi di bandiera o peggio le strategie di conservazione». Bisogna dar atto ad Amato di aver sostenuto quest'orientamento almeno dall'ottobre del 2002 quando (quella volta insieme a Massimo D'Alema) scrisse sulla rivista Italianieuropei nel documento che pubblichiamo a pagina 10 che «l'efficacia del riformismo, basti pensare all'esperienza dei Democratici statunitensi, si è misurata sulla sua capacità di uscire da confortevoli recinti ideali e identitari».
Nei giorni scorsi sul nostro giornale autorevoli politologi come Charles A. Kupchan, Giddens e oggi Joseph Nye hanno sostenuto la necessità per le forze progressiste di superare le tradizionali ricette socialdemocratiche: se volete davvero attrarre le classi medie e costruire le basi di un nuovo compromesso tra democrazia e mercato che superi il vecchio welfare a piè di lista, è il succo dei loro ragionamenti, dovete lasciarvi alle spalle il passato. Ieri Gad Lerner sulla Repubblica ha compiuto un ulteriore e assai interessante passo in avanti invitando la coalizione a sciogliere alcuni nodi (la consistenza e il finanziamento degli apparati) per poter davvero costruire il partito dei democratici. C'è dunque un largo consenso dentro la sinistra nel considerare la formula clintoniana l'approdo più auspicabile di una stagione di unità e di modernizzazione delle culture politiche. C'è anche la consapevolezza che non potrà trattarsi di un replay della Cosa 2, 3 o 4. Non si potrà agire per mera aggregazione attorno al tronco ex comunista
Ci sarà bisogno di una reciproca contaminazione culturale in maniera che al palato degli elettori il nuovo partito democratico non sappia di post-democristiano, post-socialista o post-comunista. La garanzia di questa fusione per ora risiede nella leadership di Romano Prodi, un leader la cui nuova vita, come dimostra il risultato delle primarie, ha avuto nell'immaginario del centro-sinistra il sopravvento su quella passata.
E il passo concreto da fare è uno solo: l'ex Fed deve impegnarsi perché la sua rappresentanza parlamentare in Europa come nel Parlamento italiano, nei Comuni come nelle Regioni e nelle Province, sia unica e prossima. O quantomeno in un futuro non troppo lontano.”

E finalmente appare la versione di Arturo Parisi (Corriere 29/10/2005) propugnatore del Partito Democratico che più di tutti si è speso per questo in questi ultimi anni. Ho già ricordato la sua vibrata esortazione a sciogliersi all’allora PDS veltroniano a Torino nel 2000

“L’ulivo diventi un Partito
La prospettazione del Partito democratico, di un Partito dei democratici che organizzi il polo di centrosinistra nello schema bipolare non è certo una novità di oggi. Per fermarci anche solo agli ultimi quindici anni, da quando cioè ha preso il via la lunga transizione politica italiana dopo il collasso del sistema dei partiti del primo tempo della Repubblica, quel sogno, quel traguardo è stato più volte evocato: penso alla Rete, ad Alleanza Democratica, ai Democratici. Nel 2002 nella rivista ItlianiEuropei si sviluppa un interessante dibattito tra me, D’Alema e Amato sul ruolo del Partito Socialista Europeo. Loro sostenevano la tesi dell’allargamento ad altre forze politiche. Io sostenevo il superamento del Pse e la nascita di una nuova formazione europea in grado di contenere tutte le nuove istanze riformatrici, nate dopo la caduta del muro di berlino, di un otre nuovo per un vino nuovo. La novità è che quella prospettiva, assunta ora formalmente dalla Margherita nella sua Assemblea federale, non è più concepita come un orizzonte lontano, proiettato in un futuro indefinito, ma come un cantiere da aprire subito e al quale attendere sin dalla prossima legislatura. Tale decisione, che fa segnare una correzione di rotta dopo l’accantonamento dell’Ulivo, è stata assunta in risposta a due eventi. Una sfida negativa e cioè la nuova regola elettorale annuncia frammentazione e instabilità e alla quale si può reagire solo dando ad essa una risposta politica alta e unitaria. Una risorsa positiva: il travolgente risultato delle primarie nel quale si è manifestata l’esistenza di un popolo di cittadini attivi, appassionati della cosa pubblica, né indifferenti né ostili ai partiti tradizionali e tuttavia uniti solo dalla comune appartenenza e scelta di campo democratico, dall’interesse alla partecipazione, dalla preoccupazione per l’unità dei democratici e dalla domanda di un governo alternativo, non di una semplice alternanza.
Mi limito a fissare qualche elemento di un dibattito che si è appena avviato. Intanto, finalmente si parla di una partito. Abbandonando le timidezze e le ambiguità lessicali. Non più mera alleanza, non più federazione, non più indistinta , non più generico , ma appunto partito. Il nome e il segno dell’Ulivo riesce finalmente a declinarsi in una cosa compiuta. Se le parole hanno un senso e nessuno coltiva la pretesa di sostenere …, ciò sta a dire la determinazione a fare insieme un partito per davvero nuovo e diverso rispetto agli attuali partiti. Accedendo alla categoria dell’incontro tra soggetti oggi distinti e delle culture democratiche e riformatrici cui finalmente dare una casa comune. Che è con la disponibilità di tutti e di ciascuno rimettersi in discussione attraverso un .

Ha ragione Dario Di Vico (Corriere, 28 ottobre) quando mette l’accento sulla novità del Partito Democratico, sull’esigenza che esso si caratterizzi come un progetto declinato al futuro, anziché sulle identità politiche del passato; così pure quando sostiene che esso può e deve fare leva su due risorse: la leadership di Prodi che in quel progetto si è sempre coerentemente riconosciuto e riferimenti parlamentari comuni, da interpretare quali segni e strumenti dell’avanzamento del processo. Solo merita aggiungere due puntualizzazioni. Primo: la naturale base associativa, la risorsa cruciale del Partito Democratico è rappresentata proprio dal popolo delle primarie che ha sostenuto Prodi e perfino tra quanti pur non votandolo hanno contribuito a sceglierlo. Esso si mostrava anche visivamente in quelle file ai seggi ccome un popolo abbondantemente rimescolato, oltre che politicamente motivato e partecipe. Molto più del ceto politico. Sta alle organizzazioni politiche raccogliere e, certo, elaborare il sentire comune di quel popolo, sintonizzarsi sulla sua unità piuttosto che infliggergli le proprie anacronistiche e spesso artificiose divisioni. Seconda puntualizzazione: il Partito Democratico ha da essere un partito italiano ed europeo, non la destra della sinistra, non un semplice accordo tra i due principali partiti del centrosinistra, ma neppure la sezione italiana del Partito Democratico americano. Semmai, della democrazia americana, esso deve fare sua la lezione di Tocqueville, quella cioè di una democrazia pluralista e partecipativa, federalista e non centralista, immune dal gene giacobino, massimalista e autoritario, che è il portato delle derive involutive della rivoluzione francese. Anche perché non possiamo dimenticare che il sogno americano è un sogno sognato in Europa.
In questo senso, merita riprendere come già feci a suo tempo, il filo della riflessione di Amato e D’Alema, sull’esigenza di andare oltre il paradigma e i confini della socialdemocrazia. Un andare oltre che va inteso come assunzione e superamento. Non come negazione, ma neppure come mero allargamento. Appunto come originato da un incontro nel quale nel quel più culture e più soggetti danno vita assieme a un partito davvero nuovo, ancorché vivificato da radici antiche e plurali, ancorché animato da tutte le correnti di pensiero che in unione o in competizione tra loro definiscono il campo democratico del nostro Paese.”

Questa presa di posizione non può commentarsi altrimenti se non come l’ennesima esortazione generica alla costituzione di un partito che contenga in se tutto quello che si agita nell’Unione (Cattolici neoteocon così come Comunisti Italiani, Verdi e Rifondazione Comunista ?). Abbiamo già fatto l’esperienza del grande Ulivo che non ha neppure retto alle spinte dissolventi interne senza neppure la presenza al suo interno di Rifondazione Comunista. Abbiamo visto la componente cattolica monopolizzare la Margherita e sfilarsi alle elezioni europee e regionali e costituire partito europeo a sé, così come gruppi parlamentari a sé, così come gruppi regionali a sé. Forse sarebbe meglio chiedersi i motivi che impediscono la costituzione di un partito unico del centrosinistra, piuttosto che esortare ancora una volta un generico con-fusionale miscuglio politico (la chimica insegna che diversamente che per la lega nel miscuglio gli elementi sono assieme ma non si uniscono mai !).
Ma per fare questo occorre individuare prima gli di elementi ideologici condivisibili (pensiero liberale per un verso e pensiero socialista e pensiero cristianodemocratico dall’altro) che possano accumunare chi intende aderire a tal auspicabile Partito unico del centrosinistra e una volta individuati, su questa minima base certa, proporre alle forze politiche dell’Unione un percorso dal basso per l’unificazione. E allora sarà finalmente effettiva nascita del nuovo reale nucleo coeso di Partito democratico, baricentro politico del centrosinistra.


A questo fine è da segnalare l’ importante contributo di Meccanico sul Corriere del 15/11/2005.
Meccanico ritiene doveroso ricordare l’esistenza di una tradizione europea, anzi specificatamente Italiana di Partito Democratico, dunque poco o nulla omologo di quello USA, peraltro finora sempre vagheggiato.
“Ho letto con curiosità e con una certa sorpresa il bell'articolo di Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera di sabato 5 novembre intitolato «Le icone del partito democratico: Tocqueville, Brandt e le femministe».Scrive l'autore «Poiché in Italia un partito democratico non è mai esistito se ne ricercano le radici altrove. Nella storia, in altri Paesi: Erasmo da Rotterdam e Bob Dylan, Roosevelt, Stravinsky, Kant e Rosa Parks».
Sono sicuro che l'inevitabile sintesi non dà conto del pensiero dell'amico Arturo Parisi al quale ho recentemente regalato un mio piccolo libro intitolato Sud e Nord: democratici eminenti. Parisi, che conosco come un appassionato studioso del pensiero di Carlo Cattaneo, sa infatti che nella storia italiana esiste un filone politico-culturale che si può definire democratico senza aggettivi e che sarebbe errato ed ingiusto dimenticare.
A partire da Giovanni Amendola, che prima di essere massacrato dai fascisti, Un filone culturale che ha in Italia radici lontane fece in tempo a lanciare l'Unione democratica nazionale, e da Francesco Saverio Nitti, che fu un po' il nostro precursore di Keynes, e passando per le vicende del Partito d'Azione, soprattutto del gruppo milanese intorno a Ugo La Malfa, a Parri, a Tino, a Paggi, a Bruno Visentini, e agli illustri studiosi come Omodeo, De Ruggiero, Franco Venturi che vi militarono, e a Leo Valiani ed Altiero Spinelli, non si può dire che l'idea democratica sia estranea alla tradizione italiana. Giovanni Amendola scrisse un libro La democrazia che è un manifesto assai avanzato per quel tempo di un partito democratico. E che cosa furono se non democratici «gli amici del Mondo» uniti intorno a Mario Pannunzio, a Ernesto Rossi, a Giovanni Spadolini, il quale nell'aderire al Partito repubblicano affermava che l'aveva preferito perché considerava quel partito l'embrione del partito della democrazia?
E che cosa rappresentò la rivista Nord-Sud di Francesco Compagna, di Renato Giordano, di Giuseppe Galasso, di Vittorio De Capraris se non un foglio impegnato con passione nella battaglia per la democrazia? E che cosa erano i proto-ambientalisti Antonio Cederna, Elena Croce, Michele Cifarelli se non personalità ispirate all'idea democratica?
Anche La Malfa e Spadolini sono profeti di quell'idea.
È evidente che il partito democratico del futuro dovrà nascere dalla confluenza di varie culture politiche e tradizioni diverse: quella cattolico-democratica, quella del riformismo socialista, quella postcomunista, quella ambientalista.”

E’ del tutto evidente che le pezze giustificative al Partito democratico senza aggettivi (tanto di paternità americana quanto italiana) vengono molto ragionevolmente integrate da Meccanico stesso con l’appello di questa ultima frase.

In verità anche gli AA italiani ricordati come Padri del Partito Democratico non erano avulsi da una ideologia, quella liberaldemocratica tendenzialmente di sinistra in particolare da parte degli Azionisti e dei Repubblicani, moderni seguaci del pensiero mazziniano.
Non esiste, dunque, come già ripetutamente affermato (vedi Destra o Sinistra – La Rosa dei Valori –Manuale di cultura politica in www.circoloindromontanelli.it –in cultura politica - sotto documenti) che esista un partito a-ideologico.
I fondamenti forniti dagli AA italiani al Partito democratico sono dunque indubitabilmente liberaldemocratici LAICI declinati solidaristicamente a sinistra.
Mentre nella sostanza il partito Democratico da più di due secoli esistente negli USA è un Partito connotato fortemente di ideologia liberaldemocratica molto liberale in economia dunque liberista e poco liberale negli stili di vita, a democrazia limitata. Ovvero di tipo elitario più che popolare, meno laico di quanto si pensi come è d'altronde nel DNA dell’Atto di Indipendenza e Carta Costituzionale a cui si rifà coerentemente. Dunque riportando il tutto ai giorni nostri tendenzialmente liberale di destra. Ben poco differenziato dal Partito Repubblicano, marcatamente di destra neoteoconservatrore. I realtà i due partiti rappresentano solo diverse lcordate lobbistiche economiche che ciclicamente li esprimono, i contenuti ideologici sono entrambi marcatamente liberisti e tutt’altro che laici. Infatti nell’atto di Indipendenza, preambolo integrativo della Costituzione USA, la Libertà è dono di Dio al popolo. Ma di giustizia sociale non se ne parla proprio. Tanto è vero che ancora oggi i cittadini USA si ritrovano un welfare residuale: scuola pubblica ghetto, servizio sanitario per chi se lo può pagare. Attualmente la differenza tra i due Partiti è che i Democratici propendono per una maggiore libertà di costumi mentre all’opposto i Repubblicani hanno imboccato la strada del neo conservatorismo religioso repressivo.
Ma è pur sempre l’ideologia liberista a prevalere su tutto il resto tanto per i Repubblicani quanto per i Democratici.
Liberismo (bibbia e pistola) e più o meno repressione sessuale questa l’ideologia propugnata dalla vetusta costituzione repubblicana USA che a fine settecento era certamente avanzatissima rispetto ai regimi monarchici assolutistici europei del tempo (la rivoluzione americana è una rivolta secessionista delle Colonie inglesi contro la Corona d’Inghilterra, peraltro la monarchia maggiormente liberale del tempo in Europa) ma che in oggi è assai arretrata rispetto alle moderne Costituzioni Laiche, e Liberaldemocratiche solidaristiche dei Paesi dell’Unione Europea.

Alla mia contrarietà nei confronti di questi contenuti ideologici trascendentali e liberisti insiti nella Costituzione USA si aggiunge vieppiù contrarietà al modello di sistema politico USA antipartitico bene rappresentato dalle modalità con cui vengono previste ed effettuate le elezioni politiche a democrazia monca. E’ risaputo che il cittadino USA deve richiedere di esercitare il suo diritto di voto andando a iscriversi nel registro del cittadino elettore per le primarie di questo o di quell’altro Partitoto. Tale meccanismo si traduce nella percentuale del 25% di elettori degli USA che votano.


Come bene ha evidenziato Tommaso Padoa Schioppa nell'articolo sul Corriere del 23 gennaio 2006 dal titolo
"Il nostro sistema politico in bilico DUE REGIMI E BUONGOVERNO”

L’Autore afferma che “………Nelle diatribe che lo esasperano , il cittadino deve vedere anche la faticosissima scelta tra due regimi politici, nei quali il primato del potere è rispettivamente nel governo e nel partito. Dico , perché ogni sistema politico sano deve comprendere entrambi gli elementi e, in una certa misura, bilanciarli.

Immaginiamo i due regimi nelle loro forme estreme. Nella forma estrema del primo (primato del governo) il partito si costituisce solo per conquistare il governo e si dissolve dopo la contesa elettorale, quale che ne sia stato l’esito. Nella forma estrema del secondo regime, il partito è un’organizzazione di sedi, militanti, elaborazione di programmi, dibattiti ideologici che influisce sulla politica senza porre al centro delle sue ambizioni l’esercizio diretto del governo. Nel primo chi tiene il governo comanda anche il partito, direttamente o per interposta persona; nel secondo chi conquista il partito non governa, mentre nel palazzo del governo siede un suo temporaneo delegato. La degenerazione del regime di partito è oligarchia; quella del regime di governo è la monocrazia.

La simmetria tra i due regimi non è piena perché un Paese non può vivere senza i partiti ma non senza governo. Mentre il partito si può ridurre a un esercito di volontari, allestito per l’occasione elettorale e poi sciolto, la macchina del governo non si smonta mai. Perciò il regime di partito tende a essere bicefalo, quello di governo monocefalo.

Governare un Paese e guidare un partito sono espressioni molto diverse del fare politica e corrispondono a due due vocazioni che raramente si riuniscono in una stessa persona. Quella di governo è vocazione a coniugare politica e zaione, ad amministrare, a decidere, a operare con strutture e persone che non hanno una stessa affiliazione politico-ideologica né una solidarietà di gruppo. (solidarietà di gruppo politico-ideologico certamente no , ma solidarietà in senso istituzionale certamente si, se solo si pensa al dipendente, funzionario, dirigente della Pubblica Amministrazione – ndr) precisazione)

…. La forza dei partiti è non solo compatibile con la democrazia; ne costituisce addirittura uno strumento primario e una garanzia. Essa separa l’elaborazione strategica dalla conduzione degli affari di governo dando spazio ad ambedue; permette di guardare lontano e vicino allo stesso tempo … Quando funziona al meglio, la vita di un partito – e forse solo quella – offre ai cittadini una possibilità di impegno politico, disinteressato, meno sporadico del semplice andare a votare, orientato al bene pubblico piuttosto che a un interesse di categoria.”


Dunque secondo Paoda-Schioppa ci sono due tipi di regimi politici che si contrappongono. Quello che prevede la conpresenza dei Partiti politici e Parlamento-Governo e quello che vede la preminenza assoluta del Governo sui Partiti, anzi sui non-partiti.
Me ne viene in mente una terza forma di regime di governo che salta direttamente al monocratismo ovvero alla dittatura del Capo del governo, quella prevista dall’attuale riforma costituzione sfornata ultimamente dal governo Buerlusconi che coarta a suo piacimento anche il Parlamento.

Lo strumento del referendum promosso dal Comitato ‘salviamo la costituzione’ è l’unica possibilità che abbiamo per annullare questo pericolo incombente di regime di governo monocratico.
Il caso USA è emblematico del modello a forte prevalenza del Parlamento-Governo sui (due) Partiti storicamente esistenti che taglia totalmente dalla vita politica i cittadini USA, quello Democratico e quello Repubblicano, con la sola attenuenate che il Congresso e la Corte Suprema hanno un potere di forte bilanciamento sul Governo che nel caso americano è costituito (essendo repubblica presidenziale) dal Presidente degli USA."


Che cosa è in realtà il Partito Democratico americano che si vorrebbe prendere tout-court a modello ce lo spiega molto bene Massimo Teodori (Critica Sociale n.1/2002).


Ecco quello che afferma a tale proposito.


“Il sistema politico americano è una cosa strutturalmente diversa che è assai difficile trasportare; poi soprattutto il problema non è di parlare del partito democratico americano, ma il problema è di parlare del partito americano, nel senso che il partito democratico è come il partito repubblicano, uno dei due partiti americani, ma sono, come modelli di partito, assolutamente equivalenti.
Il partito americano che cos'è? In realtà il partito americano è diverso da come noi siamo abituati a parlare di partito politico.
Perché non esiste il partito politico americano?
Perché il partito americano nel modello del bipartitismo, in realtà è un partito elettorale, è esclusivamente o prevalentemente un partito elettorale. Non è un partito ideologico, non è un partito che ha un suo apparato di idee, ma ha una tradizione storico-politica.
Perché è un partito elettorale?
E' un partito che è modellato non dall'ideologia, non dalla storia, non dalle idee ma è modellato dal sistema elettorale; il sistema elettorale tutto fondato sui collegi uninominali dall'ultima carica locale fino al presidente, è il partito che ha modellato il sistema politico e lo ha modellato nel senso del bipartitismo.
Il bipartitismo non nasce prima del sistema elettorale ma nasce dopo e si modella dopo il sistema elettorale. Tutte le competizioni sono di carattere uninominale a cominciare dalla più grande che è quella per il Presidente della Repubblica e queste competizioni uninominali portano necessariamente alla polarizzazione su due candidati.
E' per la scelta dei due candidati che nascono i partiti; i partiti non sono delle organizzazioni burocratiche ma nascono esclusivamente e storicamente in ragione della scelta dei candidati per le elezioni uninominali: i candidati sono i membri del congresso, i membri dell'assemblea di Stato, i sindaci, i governatori fino al presidente.
Il partito in quanto tale non esiste, e non esiste soprattutto il partito nazionale.
Negli Stati Uniti si dice partito democratico e partito repubblicano. Non è vero, il partito democratico e il partito repubblicano sono soltanto quelle coalizioni di partiti locali, di personaggi e di forze le quali si raggruppano per le elezioni presidenziali ogni quattro anni intorno a una determinata candidatura. Quindi la scienza politica americana quando parla di partiti, è solita parlare non del partito democratico e del partito repubblicano ma è solita dire che esistono cinquanta sistemi di partiti, perché a livello degli Stati e a livello locale esistono varie organizzazioni partitiche.
L'organizzazione partitica non è quella nazionale, ma è quella Stato per Stato, o meglio ancora città per città, soprattutto nelle città metropolitane.
Ed è solita usare anche un'altra espressione: esistono cinquanta sistemi di partito, cioè uno per ogni Stato, oppure esistono due coppie di partiti, e sono due coppie di partiti all'interno delle istituzioni, i democratici nel Congresso e i repubblicani nel Congresso, ed esistono i democratici nel Senato e i repubblicani nel Senato.
Questo significa che il partito americano è innanzitutto elettorale, e poi partito istituzionale, cioè che vive delle istituzioni.
Per questo la democrazia americana si è soliti dire che non è una democrazia di partiti, come sostanzialmente è nella tradizione e nella storia europea, ma è una democrazia elettorale, perché tutto lo scontro politico si risolve nello scontro elettorale, nel momento della formazione delle candidature e nel momento del funzionamento all'interno delle istituzioni rappresentative cioè Congresso federale e i vari Congressi degli Stati o comitati di carattere locale.
Tradizionalmente, quindi, possiamo parlare del partito Democratico come il partito che maggiormente ha un po' più di organizzazione di quello Repubblicano, però è un problema di quantità non di qualità - fino agli anni '60 che cosa hanno fatto questi partiti funzionando soprattutto a livello federale e a livello locale? Hanno funzionato come selezione delle candidature, perché avere un'investitura a una candidatura in un collegio per la Camera dei rappresentanti o per il Senato, o per il governatorato, o per il sindaco significa in sostanza, in un sistema come quello americano in cui si vince o si perde, avere già fatto metà della corsa per la elezione a una determinata carica rappresentativa. Le elezioni di ogni ordine e grado nella democrazia americana sono molto maggiori di quanto lo siano nelle corrispondenti strutture istituzionali europee. Perché lì sono molte di più? Perché in realtà lì sono eletti non solo i membri delle assemblee rappresentative legislative a livello locale, statale e federale, ma anche tutti i membri degli esecutivi sono a elezione diretta. Non solo sono a elezione diretta i membri dell'esecutivo, dal presidente, dal governatore al sindaco, ma sono eletti anche quelli che noi chiameremmo i ministri, gli assessori, il capo delle scuole locali, il capo della sanità, il capo della finanza e via di seguito: sono tutti esecutivi nazionali e locali a elezioni dirette.
I partiti hanno funzionato in passato e seguitano a funzionare come la macchina che seleziona i candidati e in questo senso il partito è esclusivamente un partito elettorale.
Situazione che è in parte mutata nell'ultimo quarto di secolo facendo ancor più diminuire la funzione del partito, e quindi rendendo il partito ancora più debole di quanto lo fosse in passato, per il cambiamento di due questioni fondamentali: la prima questione sono le elezioni primarie aumentate per la selezione dei candidati. Mentre prima erano sostanzialmente le macchine di partito, i congressi di partito, le assemblee di partito che dal basso verso l'alto selezionavano il candidato - e solo il candidato -, adesso gran parte di questa selezione è stata trasferita ad elezioni primarie nelle quali possono votare tutti coloro che sono non i membri di partito ma quelli che sono registrati sotto l'etichetta di partito. Il voto non è automatico, ma è volontario e bisogna registrarsi e quando ci si registra in America ci si registra o sotto la sigla democratica o sotto la sigla repubblicana o sotto la sigla indipendente.
Le elezioni primarie che sono aumentate moltissimo negli ultimi venti o trenta anni, servono a selezionare non solo il candidato presidenziale una volta ogni quattro anni, servono anche a selezionare i candidati per il collegio della Camera, per il collegio del Senato, per il governatorato e via discorrendo. Le elezioni primarie hanno tolto gran parte al potere dei partiti la selezione dei candidati. Quindi, i partiti che erano già una macchina molto debole ma importante sono diventati una macchina ancora più debole perché una parte di questa selezione è oggi fatta attraverso le elezioni primarie.
Il secondo fattore che ha indebolito ulteriormente disgregando i partiti, è stato quello della grande importanza che hanno acquistato i mezzi di comunicazione di massa.
Elezioni primarie e mezzi di comunicazione hanno avuto l'effetto che qualsiasi persona, in realtà, si mette in contatto con i propri elettori nelle elezioni primarie e attraverso i mezzi di comunicazione di massa scavalcando completamente quel tanto di organizzazione dei partiti. E sono stati questi due elementi che hanno distrutto definitivamente anche quel tanto di organizzazione di partito che esisteva fino ad oggi.
Questa è la struttura: una democrazia essenzialmente elettorale e una democrazia in cui i partiti non funzionano. E i partiti hanno anche uno scarsissimo rilievo per quanto riguarda la loro funzione nelle istituzioni, nel senso che all'interno del Senato e all'interno della Camera dei rappresentanti in realtà non esiste disciplina di partito, non esistono quelli che si chiamano da noi i gruppi parlamentari, c'è un grande sforzo per far votare gli eletti secondo una etichetta in maniera omogenea che non sempre arriva a buon esito.
In realtà il parlamentare americano membro della Camera dei rappresentanti o membro del Senato, è un parlamentare veramente autonomo il quale però ha un fortissimo rapporto non con il suo partito ma col suo elettorato.
Il senatore davvero ha dei rapporti strettissimi con il suo Stato; il membro della Camera dei rappresentanti ha davvero fortissimi rapporti con la "costituence" della Camera.
……Anche la questione del finanziamento, che è un finanziamento non pubblico ma privato, è un finanziamento volontario e diretto e non indiretto attraverso lo Stato, contribuisce a dipingere questa struttura del partito americano.”



Informazioni illuminanti di cui dobbiamo essere veramente grati a Massimo Teodori. Informazioni della serie “conoscere bene per evitare accuratamente”.


Alla luce di queste rivelazioni si possono leggere molte delle mosse fatte dagli Ulivisti ed in particolare dagli Eletti nelle Istituzioni dal livello comunale fino a quello parlamentare.
Certamente non vogliamo un sistema di Partito padrone ma non vogliamo neppure l’annullamento del sistema liberaldemocratico partiti. In primo luogo vogliamo un partito che controlli permanentemente gli Eletti nelle Istituzioni e che però sia veramente democratico e dunque controllato a sua volta dagli iscritti.


Ma sulla riflessione del tipo ottimale di modello di partito democratico necessario c’è tempo di parlarne successivamente. Prima è indispensabile venga chiarita inequivocabilmente l’identità costitutiva del Partito Democratico.


A questo scopo siamo ancora in fase di accanito dibattito e per molti versi strumentale e questa mia ricognizione sulle posizioni finora emerse vuole ordinarle entro una precisa gamma che va dal modello di Partito Democratico che deve essere accuratamente evitato a quello ottimale al fine di rispondere alle necessità e alle aspettative che richiede la nostra società mondializzata post moderna.
Vogliamo evitare anche questo modello di Partito Democratico all’americana, buono soltanto per l’ideologia liberista con atteggiamenti poco compassionevoli. In duecentocinquanta anni di storia ha prodotto un welfare decisamente inadeguato alla esigenza del popolo americano. Questo il giudizio di valore da attribuire al sistema politico liberistico USA imprintato dalla Costitituzione USA, potenzialmente pericolosa secondo Kurt Godel.
In duecentocinquanta anni di storia ha prodotto un welfare decisamente inadeguato. Questo l’inappellabile giudizio di valore che discende dalla nostra sensibilità di europei che giudica dai semplicemente dai risultati negativi in termini di giustizia sociale il sistema politico USA sancito dalla sua Costituzione e senza scomodare troppo il giudizio di Kurt Godel che,

“Si racconta, ad esempio, che nel 1948 quando Godel decise di chiedere la cittadinanza americana "inciampò" in uno scontro verbale col giudice (che doveva esaminare la richiesta) perché disse che aveva trovato una contraddizione logica nella costituzione americana che avrebbe potuto, in linea teorica, permettere che gli Usa si trasformassero in una dittatura.
Ci volle tutta la pazienza di Einstein e dell'economista Oskar Morgenstern (che lo accompagnavano come testimoni) per calmare il loro geniale amico.)”



Riepilogando per maggiore chiarezza abbiamo scoperto con Teodori che qualcuno vuole copiare il modello organizzativo di Partito Democratico americano e per di più senza aggettivazione di sorta ovvero a-ideologico che in teoria e in pratica non esiste proprio, esiste negli USA l’egemonia liberista insita nelle istituzioni USA i cui rappresentanti sfruttano occasionalmente le elezioni politiche per essere eletti, poi il partito viene riposto nel cassetto fino alle prossime elezioni.
In definitiva non esistendo negli USA Partiti strutturati a concorrere alla elezioni dell’intera classe politica a tutti i livelli sono esclusivamente cordate hobbistiche che scelgono indifferentemente candidati democratici o repubblicani a seconda della propria convenienza -

A questo punto è ancora possibile parlare di Partito Democratico ?
Penso di si, ma dobbiamo definirne accuratamente il collante ideologico e il modello organizzativo.



Vediamo a questo proposito il contributo di Gregorio Gitti (Corriere 23/12/2005), dopo due mesi circa di dibattito. Utile soprattutto per delineare alcune caratteristiche partecipative.
CENTROSINISTRA
Partito Democratico
Ora serve una data
La spregiudicatezza con la quale il centrodestra ha usato il potere ha generato nei cittadini la convinzione che la politica sia uno strumento per tutelare i propri interessi e la sensazione che le regole della civile convivenza siano un inutile lacciolo di cui è possibile, anzi auspicabile, fare a meno. E’ ora di voltare pagina
All'Italia occorrono riforme strutturali che diano slancio all'economia e un nuovo spirito di servizio nell'azione politica. Il centrosinistra può farlo. A condizione che superi le sue anacronistiche divisioni, attenui il peso delle oligarchie di partito e la loro pretesa di interferire in ogni ambito della vita civile, dalla cultura alla comunicazione, dall'economia alla pubblica amministrazione. Non abbiamo bisogno di meno politica, ma invece proprio di una leadership politica più forte, che abbia la capacità e l'autorevolezza per regolare i poteri economici nell'interesse generale, piuttosto che farsene condizionare. Tutto ciò non potrà accadere senza una radicale semplificazione del quadro politico, senza una formazione nuova, rappresentativa di tutti i riformisti, laici e cattolici, in grado di abbattere una volta per tutte gli steccati ideologici dei secoli scorsi. Ma anche in grado di proporre un modello organizzativo autenticamente partecipativo, in cui le primarie come metodo di selezione dei candidati a cariche di governo siano la regola e non l'eccezione, ed in cui la scelta dei candidati per il Parlamento, così come per le altre assemblee rappresentative, avvenga in base a criteri e metodi trasparenti. La risposta insomma è il Partito Democratico. Un partito che, di fatto, è già nato il 16 ottobre 2005 sulle gambe dei milioni di persone che si sono messe in fila davanti ai seggi dell'Unione. Si tratta di una prospettiva aperta dal referendum elettorale del 1993 e dall'invenzione dell'Ulivo, che le primarie dell'Unione ci hanno messo a portata di mano. È una prospettiva che non può essere abbandonata arrendendosi alla logica divisiva del nuovo sistema elettorale approvato dal centrodestra. È una prospettiva che d'altro canto non può essere affidata soltanto al negoziato tra gli attuali dirigenti dei partiti di centrosinistra. Non solo perché essi hanno a cuore esclusivamente il vantaggio delle rispettive formazioni, come dimostra la decisione di Margherita e Ds di presentare liste distinte per il Senato e di comporre le liste della Camera in base a una ragionieristica ripartizione delle quote che non lascerà spazio a personalità esterne. Ma perché è giunto il tempo di rinnovare la classe dirigente con il coinvolgimento di forze nuove e fresche, estranee alla politica di professione ma disposte a servirla per un periodo di tempo limitato. È con questo spirito che il Movimento per il partito democratico si è messo in moto. Ritengo che sia necessario dare una casa a chi crede in questo progetto; dare voce a tutti coloro i quali, pur facendo parte degli attuali partiti del centrosinistra, sono consapevoli di poter spendere meglio le proprie energie all'interno di un partito nuovo; dare voce ai tanti italiani che già oggi non potrebbero sostenere una forza politica diversa dal Partito Democratico; dare voce a chi pensa che il Partito Democratico, quando nascerà, non dovrà essere il frutto di un negoziato tra i dirigenti degli attuali partiti ma dovrà trovare la sua forza e la sua legittimazione in forme di partecipazione che coinvolgano direttamente tutti i suoi sostenitori. Il Movimento per il partito democratico dovrà portare in politica la concretezza e la correttezza che i suoi componenti dimostrano nei diversi campi in cui operano. Ma sia chiaro: non c'è alcuna intenzione di aggiungere un altro partito ai troppi che già esistono. Le realtà associative che si stanno costituendo in queste ore si scioglieranno, in forma definitiva, il giorno stesso in cui verrà costituito il Partito Democratico. La sfida rivolta alle forze politiche del centrosinistra è a fare altrettanto. Agli attuali leader del centrosinistra pongo una sola domanda: a mio avviso la data per dare vita al Partito Democratico è oggi. La vostra data qual è?”



Oltre ai sinceri e poco sinceri sostenitori del Partito Democratico i cui referenti politici sono sostanzialmente Prodi-Parisi-Amato ma ai quali potrebbe aggiungersi anche Rutelli, ma solo dopo le elezioni politiche del 9-10 aprile 2006, ci sono stati anche molti AA che in questi ultimi mesi non hanno mancato di sollevare fiere critiche temendo la deriva cattolica moderata con collante ideologico, annunciato da Rutelli, che non potrebbe essere altro che la dottrina sociale cattolica.
Gli strali più virulenti contro questo tipo di Partito Democratico provengono dalla sinistra visto che da parte dei principali fautori del Partito Democratico senza aggettivazione alcuna si ha l’allergia persino per la parola socialdemocrazia e che c’è la pregiudiziale da parte di Rutelli e seguaci che tale Partito Democratico mai si dovrà iscrivere al gruppo europeo del Partito Socialista.
Con questi vincoli a volte velati e a volte gridati certo è che a non volerlo questo amorfo Partito Democratico sono in tanti a sinistra, e non solo della sinistra estrema, radicale, alternativa, ma bensì di quella moderata, di governo, del socialismo riformista. L’avversione a questo tipo di Partito Democratico di soli ex DC e di ex PCI c’è anche da parte della componente della sinistra laica e liberale anche se nel dibattito si è fatta sentire poco.
A sinistra i critici del Partito Democratico si possono dividere in due fronti quello distruttivo e quello costruttivo.
- il primo, quello distruttivo non lo vuole perché vuole in alternativa il partito unico della Sinistra (senza avere ancora chiarito se a centralità socialdemocratica o se a centralità sinistra alternativa);
- il secondo, quello costruttivo che vuole riposizionare il Partito Democratico (come è sempre stato il progetto per il grande Ulivo degli anni 90) sui quattro pilastri: cattolico democratico, liberale, socialista ed ecologista. Quattro pilastri che, - dopo il risveglio degli integralismi religiosi – cattolico compreso - si sta chiarificando l’esigenza fondamentale– devono essere ancorati alla solida roccia della laicità dello Stato.
Ecco una breve rassegna delle prese di posizioni contrarie cercando di evidenziarne ai fini sopra indicati la distruttività o la costruttività.
Tra tutti gli articoli critici, ma costruttivi, c’è da ricordare significativamene prima di ogni altro quello di Giorgio Ruffolo (Il vero ostacolo al Partito democratico – Repubblica del 23/12/2005)

“Il centro sinistra ha segnato due buoni punti. Il primo. Con le primarie ha risolto il problema della leadership: brillantemente, con un plebiscito che non lascia dubbi.
Il secondo: la presentazione dei programmi dei due partiti maggiori della alleanza. Per tanto tempo si è rimproverato il centro sinistra perché non aveva programmi. Ora, perché ne ha troppi. Sembra la favola dell´asinello. Qualunque cosa faccia la sinistra, per certa gente incontentabile, è mal fatta. Troppa carne al fuoco?
Forse c´è qualche malinteso sulla natura di un programma elettorale. Certo, non può essere un trailer, l´annuncio circostanziato di un calendario di eventi. Si sa bene che, già il giorno dopo l´insediamento del governo, la scena sarà cambiata. Si sa inoltre che anche il governo più efficiente non potrà affrontare che una parte modesta dei problemi che ha evocato nel suo programma elettorale.
Un programma non è un «prossimamente». È un esame di maturità. Il partito o la coalizione di partiti che si presenta all´elettorato deve dimostrare che su tutti i problemi rilevanti ha le idee le competenze e gli uomini adatti per affrontarli. La partita vera si giocherà sul campo.
Da questo punto di vista mi pare che i Ds, a Firenze, abbiano passato l´esame. Hanno schierato una forza di governo rispettabile con analisi e proposte serie di fronte al pasticcio di autocompiacenze inflazionate e promesse reiterate della parte avversa.
Due buoni punti. Un terzo, decisivo, sarebbe la costruzione di una forza capace di sostenere la leadership e il programma. Si può rispondere che c´è già, ed è l´Unione. Si può aggiungere che, fortunatamente, anche grazie al successo delle primarie, i contrasti al suo interno si sono ridotti entro limiti fisiologici mentre i successi elettorali hanno rincuorato elettori ed eletti. Le forze adunate nell´Unione dimostrano oggi un grado di disciplina molto maggiore di una casa di rissose libertà.
Tuttavia, il numero dei partiti e la loro inevitabile spinta alla visibilità lasciano aperto il rischio di una dieta polacca che, nel caso di una vittoria, e nella nuova condizione creata dalla sciagurata riforma elettorale, minaccerebbe la stabilità del governo. Sembra dunque convincente la proposta della formazione di un grande partito nato dalla confluenza delle due forze maggiori della coalizione, come centro di gravitazione dell´alleanza
Un evento come questo, ovviamente, travalica i limiti dell´ingegneria politica per assumere le linee di un disegno storico. Per prendere la proposta sul serio, come credo oggi si debba, bisogna liberarla dalle nebbie ideologiche e dai vecchi rancori che hanno caratterizzato un dibattito ridotto alla contrapposizione tra socialisti democratici e democratici non socialisti. Penso che si debba cogliere l´occasione di uscire una volta per sempre dall´anomalia che ha paralizzato la democrazia italiana.
Sappiamo che una causa fondamentale di quella anomalia è quella che con felice invenzione Alberto Ronchey battezzò «il fattore kappa»: l´oggettiva indisponibilità del partito comunista a proporsi come partito di governo in una democrazia occidentale.
Ma ce n´era un´altra, della quale si è parlato molto meno: la presenza di una grande forza politica cattolica che poteva contare sul sostegno di uno Stato universale all´interno dello Stato nazionale: questione non di fede, ma di potere. Questa forza si è giovata del duello tra comunisti e socialisti, che sono stati entrambi giocati, oggettivamente, dalla sua capacità di sfruttare una posizione dominante, per rendersi indispensabile e inamovibile durante una lunga stagione.
Oggi quella stagione è trascorsa e le condizioni della politica italiana sono radicalmente cambiate. Né gli eredi dei comunisti, né quelli dei socialisti sono capaci di costruire quello che avrebbero potuto nel passato: un grande partito socialdemocratico. E le sparse zattere del naufragio democristiano non sembrano in grado di ricostituirsi in una grande nave centrista.
Le condizioni per una innovazione politica che raccolga in un solo partito le due principali tradizioni del riformismo democratico sembra sembrano dunque realizzate, anche se attraverso la paradossale provvidenza di reciproche catastrofi.
Ma c´è una nuova insidia che può compromettere questo disegno. C´è il pericolo che al grande duello tra i partiti della sinistra marxista, che li ha «suicidati», ne segua, nel nuovo centro sinistra, uno tra democratici laici e democratici cattolici, altrettanto sterile e anacronistico. Penso che questo pericolo, riemerso in seguito alle improvvide iniziative d´ingerenza politica di una Chiesa che mostra inquietanti segni di involuzione ideologica, potrà essere sventato solo se le due principali forze dell´Unione chiuderanno definitivamente i conti con un passato che non ha più niente da offrire, se non livori e rancori; e si rivolgeranno invece al futuro, affrontando due questioni fondamentali: l´identità progettuale e l´identità politica nazionale.
Una nuova forza democratica, accanto ai programmi di governo, deve esprimere una visione delle grandi questioni del presente, almeno su tre punti cruciali. La «questione americana» e le possibili forme di un nuovo ordine mondiale. La «questione europea», che ha bisogno estremo di un ripensamento radicale sull´impegno dei soggetti, sulla natura del progetto, sulla struttura delle istituzioni. La «questione sociale» con la definizione di un compromesso storico tra capitalismo e democrazia, che ristrutturi il modello socialdemocratico in un nuovo equilibrio tra le istituzioni dello Stato, del mercato e dell´autogoverno sociale.
Un nuovo partito democratico e riformista deve inoltre impegnarsi a difendere uno Stato autenticamente laico, che riconfermi i patti con la Chiesa cattolica, respinga la riemersione di vecchie pulsioni anticlericali, ma tuteli rigorosamente la sua sovranità rispetto ad ogni intrusione ecclesiastica.
Lo sviluppo della democrazia italiana verso un assetto normale, di tipo europeo, fu paralizzato dal fattore K, che ha impedito la formazione di un vero partito socialdemocratico di governo. Sarebbe oggi ancora una volta pregiudicato da un altro fattore K generato dall´incapacità di distinguere, come avviene in tutti gli altri paesi europei, la sovranità della Nazione dall´autonomia della Religione”

Da evidenziare ancora una volta, ma questa volta con l’appoggio autorevole di Giorgio Ruffolo, l’enunciazione della Laicità - principio fondante della moderna civiltà occidentale - quale presupposto essenziale del possibile ipotetico Partito Democratico.

Mentre invece Massimo L. Salvatori (Il nuovo Partito – non sono d’accordo e vi spiego perché – da l’Unità del 10/1/2006) svolge due critiche fondamentali di merito e di metodo che nessuno può bellamente rimuovere, pena che, come ogni rimosso, prima o poi riemerga a dissolvere le vaghezze del sognato del Partito Democratico.

“In un’intervista fattami da Bruno Gravagnuolo e comparsa su questo giornale il 5 gennaio, mi viene attribuita l’affermazione che il Partito democratico provocherebbe solo «disastri». Gravagnuolo è un bravo intervistatore, e so quanto sia difficile tradurre in un testo sintetico ciò che viene detto nel corso di una conversazione telefonica; ma ho trovato quell’espressione (che credo di non avere pronunciato) davvero troppo drastica.
Partito democratico, non sono d’accordo
E vorrei quindi avere l'occasione di chiarire la mia opinione sulla prospettiva della creazione del Partito democratico, a cui - come ho avuto modo in varie sedi di dire - non sono personalmente favorevole.
A mio avviso il Partito democratico non provocherebbe disastri, ma, se realizzato - tanto più in tempi brevi come taluni vorrebbero e senza un'adeguata preparazione - darebbe origine all'interno del nuovo organismo certo a tensioni, conflitti e problemi di difficile soluzione. Cercherò di esporre nella maniera più comprensibile i motivi sia ideali sia pratici delle mie riserve.
Io penso che il socialismo democratico - inteso come un movimento volto a perseguire due scopi principali: una politica tale da assicurare a tutti, mediante un potere pubblico sufficientemente forte e autonomo per regolare il mercato secondo finalità sociali e prelevare le necessarie risorse dal processo produttivo, i mezzi economici atti a garantire un'esistenza dignitosa e sicura; e una politica di civile convivenza dei valori e delle culture quale solo lo Stato laico democratico è in condizione di fondare su basi solide - mantenga integre le sue ragioni, più che mai attuali in un mondo che vede accentuarsi il predominio di una finanza predatoria e il rafforzamento dei fondamentalismi religiosi. Penso altresì che senza il riferimento al socialismo l'idea di sinistra diventi evanescente e al limite insostenibile e che, caduto questo riferimento, si pervenga a quell'indeterminato e indistinto riformismo che si prospetta come un amalgama privo delle indispensabili qualificazioni.
Detto questo, vengo a svolgere alcune considerazioni anzitutto sul metodo con cui è stata posta la questione della nascita di un Partito democratico nella specifica situazione italiana e poi sui problemi connessi alla sua eventuale costituzione.
Il progetto è inteso a far convergere i Ds, la Margherita e altre componenti minori in un nuovo partito in grado di legare i filoni del riformismo di matrice socialista e di quello cattolico democratico, creando così il valore aggiunto di un'unità che dia la persuasione al paese di offrire un contributo sostanziale alla riduzione del male rappresentato dall'eccessiva frammentazione dei partiti e una base più salda alla governabilità.
Il proposito si presenta forte e va preso sul serio, ma deve essere messo a confronto con alcune opportune verifiche.
La prima riguarda, appunto, il metodo con cui il progetto viene portato avanti, la seconda i «prezzi» che esso comporta, la terza la sua efficacia.
Quanto al metodo, mi pare criticabile che la marcia verso il Partito democratico venga affidata essenzialmente all'iniziativa di un gruppo di leader senza che in alcun congresso dei partiti che in esso dovrebbero confluire sia mai stata posta all'ordine del giorno esplicitamente, e quindi con i dovuti confronti e le conseguenti votazioni, la questione dello scioglimento e della riaggregazione.
Ormai corre la tesi che prima o poi lo si farà, si dà la scelta per compiuta e non si attende altro se non la sanzione a una decisione strategica presa. Questo modo di procedere sembra una conferma del carattere asfittico dei partiti e della loro involuzione in organismi dominati da minoranze «chiuse» e autoreferenziali, che affidano le loro iniziative soprattutto alle interviste e agli interventi nelle televisioni, divenute sedi privilegiate del dibattito tra i leader stessi.
Quanto ai «prezzi», viene da osservare che il processo - proprio in assenza di confronti congressuali chiarificatori - va avanti a spinte e controspinte in un contesto però chiaro su un punto: che i Rutelli e i Marini chiedono ai Ds di farsi «democratici» della loro scuola e a quelli che di essi sono socialisti se non di non cessare di essere tali, di non avere però alcuna pretesa di esercitare la propria «egemonia», poiché quest'ultima (e anche la leadership del partito e quella del governo) ha da appartenere per «diritto di natura democratica» alla componente moderata, che si suppone l'unica capace di mantenere gli equilibri, di ottenere i consensi al centro senza i quali non si vince e di fornire la guida del governo (che, in caso fosse affidata a un socialdemocratico, avrebbe il timbro di un inaccettabile estremismo). A ciò aggiungasi che Rutelli ha affermato con forza che non è disposto a «morire socialdemocratico» e che non accetterà di entrare a far parte dell'Internazionale socialista. Se ben intendo, una simile posizione ha il significato di una nuova conventio ad excludendum, diretta questa volta contro la socialdemocrazia. Che di questo si tratti appare evidente dal momento che nulla è meno pensabile per i sostenitori di questa conventio della sola ipotesi che l'incontro tra le diverse culture politiche possa avere come esito che, in un democratico confronto interno al futuro partito, possa darsi la costituzione di una maggioranza socialista rispettata dalla minoranza non socialista. In sostanza, il prezzo da pagare è che i Ds facciano propria una piattaforma sostanzialmente dettata dalla Margherita, la componente del riformismo che si presenta come propriamente moderna. È bensì vero che i dirigenti Ds favorevoli al Partito democratico hanno ripetutamente asserito che essi sono determinati ad entrarvi senza rinunciare al proprio bagaglio ideale e politico, ma il punto oscuro è se essi siano disposti o no a pagare il pedaggio richiesto: che questo bagaglio resti un residuo e la rinuncia a non affermare una sia pure eventuale leadership di ispirazione socialista. Ancora sui «prezzi». Dal canto suo la sinistra dei Ds ha più volte dichiarato che nel Partito democratico non ci sarà. Quali ne sarebbero le conseguenze? Una ennesima scissione nel corpo della sinistra, l'indebolimento della parte dei Ds entrati nel nuovo partito, l'ulteriore frastagliamento della sinistra, difficoltà aggiuntive nel tenere insieme in vista dei compiti di governo il complesso del centrosinistra, l'affidare la rappresentanza maggioritaria della sinistra italiana a Bertinotti.
Quanto all'efficacia dell'operazione, credo siano legittimi molti interrogativi. Una volta entrata nel Partito democratico, la componente socialista al suo interno sarà disposta a piegarsi a un ruolo programmaticamente subalterno? Quali le possibilità di comporre in un partito le differenze tra correnti che della laicità hanno concezioni non solo diverse ma in aspetti di primaria importanza antitetiche (un aspetto ben emerso anche in tempi recenti)? Quale sarà la collocazione del nuovo partito nel Parlamento europeo a fronte del veto posto da Rutelli nei confronti del Partito socialista? Non è un escamotage attendere la trasformazione dell'Internazionale socialista in un qualcosa che vada bene anche alla Margherita? Quali i problemi aperti da tutti questi nodi? Per i motivi sopra esposti, chi scrive resta fermo all'idea che nessun svantaggio e molti vantaggi verrebbero dall'esistenza di un forte partito dei Ds accanto ad una forte Margherita, in rappresentanza ciascuno delle proprie culture politiche e dei propri bacini elettorali.
Non so se le considerazioni da me svolte abbiano fondamento in tutto o in parte o se non ne abbiano alcuno. In ogni caso, ringrazio l'Unità per avermi offerto l'occasione di esprimere un punto di vista, che spero possa essere di qualche utilità come termine di confronto.”



Dunque Salvadori effettivamente dice no, al Partito Democratico ssenza aggettivazioni, così come lo vorrebbe strumentalmente la componente cattolica più o meno progressista della Margherita, ma dice si a quello che può sorgere realisticamente sulle basi della socialdemocrazia europea quando ne indica con chiarezza percorsi da seguire e collante ideologico di riferimento.


Ma non si tratta soltanto di lunga storia di ambiguità politica che da Togliatti a Berlinguer ha caratterizzato prima il partito comunista italiano che sebbene socialdemocratico nell’azione politica concreta perfettamente sovrapponibile alla politica di impegno statale nell’industria (IRI – ENI – ENEL) dal dopo guerra fino agli anni 90 e poi continuata da Occhetto (svolta della Bolognina) fino all’attuale segreteria di Fassino. Non si tratta più di parlare in teoria di Eurocomunismo e essere in concreto socialdemocratici. Ora la sottile e ambivalente spaccatura è più concreta e pericolosa perché subdolamente occultata. Gia c’è stata la scissione di Rifondazione da cui si è staccata la costola Comunisti Italiani. Quindi siamo nella sinistra ex PCI siamo già in presenza di tre contenitori, ma c’è il rischio, all’interno degli attuali DS di una ulteriore scissione – a partire sul come intendere la visione socialdemocratica (classica o clintoniana ?).

E naturalmente questa questione incide sull’ipotetica nascita del Partito Democratico.


Facciamo qualche passo indietro con Ernesto Galli Della Loggia (a gennaio 2005 non era tanto il Partito Democratico di scena ma piuttosto il Partito Riformista).
La visione socialdemocratica classica prevede un partito riformista pienamente innestato sull’albero socialista europeo, mentre la visione riformista democratica (clintoniana ?) pretenderebbe (vedi Prodi e Parisi ma ora, forse, anche Rutelli) di spezzare il legame con il socialismo europeo.

“La sinistra, Fassino e il congresso ds
L’OCCASIONE DEL RIFORMISMO
«Non scherziamo: cosa c’è di più moderno ed attuale della socialdemocrazia? Non sono forse socialdemocratici i governi di mezza Europa?». Da molti si è risposto così, con una certa sdegnosa sufficienza, al recente accenno di Francesco Rutelli all’arcaicità politica della socialdemocrazia. Ma quella risposta, come ha notato lucidamente Piero Ostellino domenica scorsa sul Corriere (29/1/2005), non sembra tener molto conto della storia.

“Socialdemocrazia, in Italia c’è Fassino imiti Blair e la cambi
Alla «prova del budino» - per sapere com'è bisogna mangiarlo - l'affermazione di Francesco Rutelli secondo la quale la socialdemocrazia e l'egualitarismo hanno fatto il loro tempo va, forse, corretta. La socialdemocrazia, nella sua versione «storica», ha fatto il suo tempo in Europa; ma sopravvive in Italia. Caro Fassino (forza, per la buona volontà), non basta citare Blair e Schröder, per sostenere che la socialdemocrazia è viva, se, poi, sono proprio loro che l'hanno, invece, cambiata. Il socialismo democratico della tradizione - una forma attenuata di collettivismo - ritiene che compito dello Stato sia evitare che cresca la distanza fra chi ha di più e chi ha meno. Esso concepisce l'eguaglianza come l'«obiettivo finale» della competizione sociale cui l'azione politica deve tendere, pur sapendo, al tempo stesso, che è sostanzialmente irraggiungibile. In un certo senso, la nostra socialdemocrazia - che è costituita prevalentemente da post-comunisti - pretende ancora, non a caso come il comunismo, di preordinare l'esito della libera competizione sociale, pur accontentandosi di farlo solo parzialmente, con il consenso, senza abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione e il mercato, e instaurare un altro ordine sociale, come fa il comunismo. La socialdemocrazia, da noi, rimane, dunque, il tentativo di porre i processi e gli esiti dell'accumulazione capitalistica sotto controllo collettivo, attraverso graduali misure pubbliche. In Europa, chi si dice ancora socialdemocratico, invece, non pone più al centro della propria speculazione politica la collettività, bensì l'individuo, ritenendo che compito dello Stato sia creare le condizioni affinché tutti abbiano le stesse possibilità di arricchirsi, anche se ciò finisce col produrre una forte disuguaglianza finale fra chi ha di più e chi ha meno. Questo è il liberalismo democratico di Tony Blair, che è succeduto alla socialdemocrazia storica. Esso concepisce l'eguaglianza delle opportunità come la «condizione iniziale» della competizione sociale, non preoccupandosi di preordinarne in qualche modo l'esito finale. Il liberalismo democratico è, dunque, al tempo stesso la dottrina dei limiti del potere collettivo e della salvaguardia delle opportunità individuali con l'obiettivo di realizzare il massimo di libertà, anche economica, di ciascuno compatibile con la libertà degli altri.
Nessuno, in Gran Bretagna o in America - dove i socialdemocratici si chiamano - liberal - si sognerebbe di sostenere che la produzione di ricchezza sia un gioco a somma zero (tutto ciò che guadagnano gli uni lo perdono gli altri) e che, contenendo l'arricchimento dei primi, migliorerebbero le condizioni dei secondi. I Paesi che maggiormente tollerano le ineguaglianze sociali hanno anche le economie più prospere. L'eguaglianza non è più una priorità neppure nei Paesi a più forte pressione fiscale - come quelli scandinavi (tasse alte per i redditi personali, basse per le imprese) - il cui obiettivo non è la redistribuzione della ricchezza, bensì la creazione di una rete di strutture al servizio del cittadino e di sostegno alle famiglie bisognose. Il liberalismo democratico si chiede, infine, se, nell'era della globalizzazione, le politiche antimonopolistiche debbano tutelare il consumatore, col rischio di mortificare la libertà di intrapresa - come nel caso dei monopoli «naturali», frutto della sola capacità dell'imprenditore di sconfiggere i propri concorrenti - e di penalizzare la produttività; ovvero se debbano tutelare la produzione, col rischio di mortificare la concorrenza e di penalizzare il consumatore.
A sinistra, da noi, su questi argomenti si cimenta intelligentemente, con qualche successo editoriale e poche speranze politiche, il Riformista , il piccolo quotidiano diretto da Antonio Polito, un ex, più che post, comunista. Che non a caso, è vissuto a lungo a Londra.”

“Storicamente, infatti, di socialdemocrazie ne sono esistite due, assai diverse tra loro: quella che, in polemica con la tradizione massimalista prima, e comunista poi, non accettava la via rivoluzionaria e una gestione dittatoriale e antidemocratica del potere, ma che per il resto era tutta immersa in una prospettiva statalista e anti individualista, socialista appunto; e quella, invece, che anche questa prospettiva ha sostanzialmente rigettato, limitandosi a caldeggiare una versione più o meno socialmente orientata della democrazia liberale, analoga per intenderci a quella fatta propria negli Usa dal partito democratico. È questa socialdemocrazia quella che a partire dal dopoguerra ha finito per affermarsi dappertutto in Europa, ed è a questa che ci si riferisce quando oggi si parla di «riformismo».
Ma non era a questa (bensì all’altra) che con tutta evidenza si riferiva invece Rutelli per prenderne le distanze. Perché mai? Perché egli sa bene che nella sinistra italiana, a differenza di quella europea, la versione chiamiamola così democratica e non socialista della socialdemocrazia è ancora ultraminoritaria: ciò che tra l’altro spiega la permanente solitudine politico-culturale dei riformisti nostrani, anche alla vigilia del nuovo congresso dei Ds.
Ciò accade perché in Italia nello stesso partito socialista, pure dopo la svolta autonomista di Nenni agli inizi degli anni Sessanta, in realtà rimase a lungo viva e diffusa l’idea del «socialismo» come qualcosa di concretamente migliore, «più avanzato», come anche si diceva, dunque di preferibile rispetto al capitalismo; anche se continuò a restare sempre indefinito che cosa con quel termine, di volta in volta cangiante, bisognasse intendere. Ancora nel partito socialista di Mancini e De Martino, cioè in pieni anni Settanta, le cose stavano largamente così.
Il grande merito storico di Bettino Craxi fu per l’appunto questo: Craxi operò il passaggio dalla socialdemocrazia per così dire classica, che stava ancora sul terreno del socialismo, al riformismo democratico-capitalista d’ispirazione europea. Fummo in tanti, allora, a non capirlo con sufficiente chiarezza o farci colpire soprattutto dagli innegabili e numerosi fenomeni di malcostume e di affarismo che si accompagnarono al suo tentativo. Ma quando, sempre allora, molti - a cominciare dal partito di Berlinguer - parlarono sempre più insistentemente di «mutazione genetica» del socialismo italiano, del suo essere ormai divenuto un partito di «destra», non era al malcostume e all’affarismo che pensavano quanto piuttosto alla sostanza politica del craxismo, alla sua dirompente sostanza politica che oggettivamente rimetteva in discussione l’intera storia della sinistra italiana.
Proprio qui si nasconde il senso delle iniziative, delle analisi e dei discorsi sulla figura di Craxi a cui stiamo assistendo da un po’ di tempo in qua in varie sedi. Se la Sinistra italiana vuole essere riformista, il suo discorso (ed è anche su questo che verrà giudicato il congresso Ds e in particolare la relazione d’apertura e le conclusioni di Piero Fassino) deve necessariamente ricominciare da Craxi, da un socialista che fu molte e discutibilissime cose, ma a cui non mancò l’intelligenza e il coraggio necessari per avviarsi su una strada davvero nuova.”



Siamo ancora all’atroce dilemma dei DS appena richiamato da Ernesto Galli dalla Loggia a proposito di quale socialdemocrazia scegliere: la via classica, innesto di pensiero liberale sulla pianta socialdemocratica o liberalismo tout-court (pur sempre solidaristico) preferito da Ostellino, Panebianco, Morando, Amato, Parisi, Rutelli, Prodi e fino a qualche tempo fa anche per D’Alema.
In presenza di questo ultimo dilemma maturato dopo l’ultimo congresso di Firenze dei DS si deve aggiungere che lo stato di vaghezza che avvolge la gestazione del Partito Democratico, sempre secondo Ernesto Galli Della Loggia (Corriere 6/12/2005), è anche determinato dalla lunga storia di incertezza ideologica dei DS.

“La lunga storia di un’incertezza
DS: i nomi e la realtà
Strano destino quello degli eredi, si pure lontani, lontanissimi di quella nata nel remoto gennaio 1921 all’insegna della rivoluzione leninista e poi divenuta nel 1944 il Partito comunista italino. Nei lunghi dal ’44 all’89 quei lontani eredi del bolscevismo furono di fatto dei socialdemocratici (ancora oggi ci tendono tantissimo a ricordarlo). Ma guai a chiamarli così: erano per antonomasia , erano comunisti. Poi dopo la caduta del Muro di berlino, decisero di non volerlo essere più. Non per questo, però, decisero di chiamarsi per ciò che così per lungo tempo erano più o meno effettivamente stati, di chiamarsi cioè socialdemocratici. Preferirono dirsi semplicemente (sia pure di ) Ma anche questa volta le cose non dovevano rivelarsi così semplici: quando di recente, infatti, qualcuno li ha invitati a chiamarsi , dal momento che erano democratici, essi hanno opposto un rifiuto. Sì, erano , hanno spiegato, ma in realtà il termine valeva come , tanto è vero che facevano parte del Partito socialista europeo e intendevano restarci (anche senza adottarne ufficialmente il nome).
C’è sicuramente un pizzico di malizia in questa descrizione dell’itinerario ideologico-onomastico dei Ds, ma si dovrà ammettere che il problema è reale e importante visto che alla fin fine quella che è in ballo è l’identità del maggior partito della sinistra italiana. Perché a questo partito risulta tanto difficile dirsi ciò che è ? Decider cosa vuol essere ? E chiamarsi di conseguenza, senza sottintesi ma con chiarezza comprensibile a tutti ?Cosa vuol dire la doppiezza linguistica di cui pare non riuscire a liberarsi ?
Certo non vuol dire in alcun modo doppiezza ideologica o politica, come accadeva per il PCI di un tempo. Oggi i valori dei Ds sono i valori della democrazia parlamentare e tanto basta. Ma del loro remoto passato qualcosa è rimasto che non riguarda i valori bensì l’immagine della lotta politica che pare ancora fortemente segnata da un’ipotesi di variabilità degli scenari potenzialmente assai ampia, e che quindi richiede un partito funzionale alla conseguente mutevolezza delle tattiche, flessibile, capace di non perdere in qualunque circostanza neppure una parte della sua base e del suo elettorato. E perciò incline a non restare prigioniero nella gabbia di denominazioni troppo univoche e, viceversa, favorevole a scindere il nome delle cose dalla loro realtà.
Il punto è che in politica /come del resto nella vita) non riuscire a dire con precisione ciò che si è, o non far corrispondere le etichette alle sostanze, rende poi difficile decidere cosa fare quando si tratta di agire e di governare. Perché allora, come si sa, non è più permesso stare sul filo dell’ambiguità, neppure terminologica; bisogna scegliere cosa essere. Tanto più ciò vale per chi – come i Ds e lo schieramento cui partecipano – ha fatto nell’ambito della sinistra una scelta riformista. Una scelta, cioè, che prima o poi comporta inevitabilmente di avere i nemici a sinistra, una scelta a proposito della quale, ad esempio, può fare molta differenza essere o no , essere un o un democratico semplice.
Perché allora non chiarire le cose prima ?.”

Dobbiamo dunque constatare da tutto quanto sopra riportato che il problema – se mai c’era un dubbio - non è di ordine nominalistico: partito riformista o riformatore, partito democratico riformista, partito democratico, bensì di sostanza, ovvero di contenuto ideologico. E’ logico che al significante (il nome del Partito) dovrebbe corrispondere il significato (contenuto ideologico).

Ma vediamo il proseguo del dibattito individuando alcuni ariticoli che ci possano consentire di riuscire a formulare non tanto il nome, perché in quanto a nome, dopo l’estrosa epoca animalistica, botanica e floreale, il nome di Partito Democratico potrebbe andare benissimo, ma un contenuto ideologico che contenga certamente principi e valori della sinistra riformista, che sia in grado di rispondere alle sfide del terzo millennio in termini di salvaguardia di laicità libertà e giustizia sociale ma anche della difesa ecologica del pianeta.
Vediamo se, dopo le numerose tracce individuate negli articoli precedenti, da quelli successivi si stagli una sagoma più precisa e decisa di questo auspicabile partito democratico.
Evitando da un lato liberismo selvaggio (assenza di Stato regolatore) e dall’altro lato lo Statalismo (comunista o fascista poco importa), resta l’opzione socialdemocratica (condivisa anche dai cattolici democratici se secondo il Ratzinger pensiero “Il socialismo era ed è vicino alla dottrina sociale cattolica e ha contribuito alla formazione di una coscienza sociale”, necessariamente riveduta in senso per consolidare la laicità dello stato, aumentare i gradi di libertà del cittadino, modernizzare le istituzioni.

Vediamo l’intervista di Aldo Cazzullo (Repubblica 12/12/2005) al sociologo francese Touraine
“«Partito democratico? Idea valida, la sinistra prova a non perdere»
Il nome è giusto. E anche la strada scelta da Prodi per cambiare il welfare
PARIGI - Alain Touraine, il massimo sociologo francese, è appena rientrato dall'Italia. «Tornerò ancora a dicembre. Fassino mi ha invitato alle assise ds di Firenze. Ho accettato volentieri. E' una persona che stimo».
Professor Touraine, la sinistra italiana è avviata verso il partito democratico.
«E' un'evoluzione di grande interesse. In passato la sinistra italiana si è ingegnata per perdere. Non ha lasciato nulla di intentato, pur di aprire la strada a Berlusconi. Ora rimangono certo questioni in sospeso, ma non sono gli equilibri tra i partiti a interessarmi. E' più importante la riforma del welfare State. Perché non c'è dubbio che il welfare vada cambiato. La sinistra italiana si sta dando le strutture e le culture per farlo, grazie anche alla presenza di un forte sindacato, che c'è anche in Germania e in Svizzera ma non in Inghilterra, America e Francia. Il nome "democratico" mi piace, soprattutto per un Paese che non ha mai avuto una grande tradizione socialista e per un'epoca in cui la parola socialismo, fatalmente coinvolta nel crollo dei Paesi appunto socialisti, non ha più molto senso».
Strutture e culture che stentano a trovare una collocazione nell'ambito europeo e internazionale, non crede?
«Attenzione: questo è un problema più di nomi che di cose. Nei fatti, un'intesa tra socialisti e democratici esiste già. C'è già un'omogeneità di teoria e di prassi tra le principali forze della sinistra europea. Schröder ha innovato rispetto alla tradizione tedesca e ha lavorato per aprire l'economia salvaguardando i diritti sociali. Ma anche Blair è cambiato. Dopo le difficoltà sull'Iraq, non è più il liberista che conoscevamo: il Labour ha puntato sugli investimenti pubblici nella sanità e nell'istruzione. E' lo stesso modello - ripensamento del sistema temperando ma non rimuovendo i meccanismi di protezione - che in Italia ispira Prodi. L'unico Paese in cui la sinistra è in drammatico ritardo è la Francia».
Che cosa la preoccupa tanto?
«I francesi sono i soli a sostenere che bisogna scegliere tra modello liberale e modello sociale, tra economia e società. Come se non esistesse un modello europeo, che affronta contemporaneamente le due questioni. Abbiamo distrutto l'Europa, convinti che l'unica soluzione possa venire dallo Stato nazionale. Lo Stato francese contro il mondo. Il partito socialista si lacererà in un congresso in cui il segretario Hollande forse prevarrà ma sarà indebolito dai compagni in lizza per la candidatura alle presidenziali. Dal canto suo Fabius, da sempre liberalsocialista, contraddice la sua stessa vita e si mette a capo della sinistra radicale. Sono inquieto e arrabbiato con i francesi, in particolare con la sinistra e la sua assenza di pensiero. Altro che partito democratico. Siamo alla crisi della follia».
Resta Jospin.
«Che ha appena pubblicato un libro inutile (come peraltro quello di Rocard), con un lessico preindustriale e premoderno, in cui strologa di nuova aristocrazia e conferma che la sinistra francese è in regressione da almeno quindici anni, da quando Mitterrand ha dedicato il secondo mandato a gestire il mito di se stesso e la propria malattia. Senza che il suo fallimento ammaestrasse gli epigoni sull'impossibilità di rompere con il capitalismo. In tutto il mondo non ci crede più nessuno. Qui qualcuno l'ha capito, qualcuno no. Ma coltivando le illusioni radicali si creano al più socialdemocrazie molli, che aprono la strada alla destra. Fu il Parlamento del Fronte popolare a votare i pieni poteri a Pétain. E l'Algeria cominciò con un primo ministro socialista. E' così anche oggi: tra Sarkozy e i trotzkisti, vincerà ovviamente Sarkozy».
Deve cambiare anche l'Internazionale socialista? Aprirsi ai nuovi partiti democratici?
«Non mi attendo granché dalle istituzioni sovranazionali. Nessuno crede più all'Europa, la prospettiva dell'unità europea ha perso fascino. E l'Europa ha problemi diversi da quelli del resto del mondo. La riforma dell'Onu è fallita, Kofi Annan non ha una politica. Eppure, in questa fase, della politica c'è molto bisogno. Ovunque cresce la massa degli esclusi e dei precari, ovunque servono riforme. E' sbagliato escludere dall'Internazionale uomini e partiti con cui la sinistra ha collaborato: ad esempio, il brasiliano Cardoso, che guidava sulla linea Blair un partito che si chiamava socialdemocratico. L'hanno demonizzato come un liberalreazionario. Invece ha fatto molto contro l'analfabetismo e la mortalità infantile. Un suo ministro mi ha detto: noi eravamo più a sinistra di Lula».
Quali sono i pensatori e gli intellettuali cui il Partito democratico potrebbe rifarsi? In Italia si è evocato Tocqueville.
«Ora non esageriamo. Tocqueville è realmente un uomo di destra. E' uno che dice esplicitamente: io non sono un democratico. In generale, credo che gli intellettuali nel senso sartriano possano servire a poco, in particolare quelli francesi. In Francia resiste il dominio del pensiero radicale post e antimarxista, che ha avuto per capofila Foucault, con la sua visione per cui siamo tutti oppressi e non c'è niente da fare e, per epigono, Bourdieu. Questo è un tempo non di filosofi ma di sociologi. Che possono fornire gli strumenti per individuare le tre linee di intervento: ridurre il deficit pubblico, difendere la progressività del sistema fiscale, correggere i meccanismi che, come la stessa scuola laica pubblica e gratuita, non creano uguaglianza ma disuguaglianza. E poi la grande questione inevasa, i rapporti con l'Islam».
Lei è stato spesso critico con la terza via. Ha cambiato idea?
«No. Mi sono confrontato di persona con Giddens. E ora ho l'impressione che abbia cambiato idea lui, o meglio Blair. La sua terza via all'inizio assomigliava molto alla prima, il liberismo. Oggi Blair è più a sinistra di ieri».”



Ma per evitare di perorare in astratto il modello di sistema politico liberaldemocratico più liberale e meno socialdemocratico o più socialdemocratico e meno liberale, e incorrere in questo modo nella critica di governisti pragmatici o di economicisti realisti occorre porsi le seguenti cruciali domande. Il modello socialdemocratico o la sua versione maggiormente liberale ovvero liberalsocialista (che dilata le libertà della persona (sessualità, generatività, salute, ecc., ma che garantisce con i diritti sociali la possibilità reale a usufruire delle libertà esclusive della persona) è in grado di competere con il sistema politico liberista in un quadro di economia globalizzata ?
Dobbiamo per necessità adottare il liberismo e sull’altare di tale moderno idolo alienare i diritti umani, civili e sociali modernamente conquistati dall’occidente europeo ?
Era il timore dell’abbraccio Comunista dell’URSS che frenava l’egemonia liberista USA e ha consentito l’aurea ma effimera parentesi socialdemocratica (ovvero moderato intervento statale nell’industria e nei servizi essenziali ai bisogni primari (elettricità, acqua, riscaldamento, trasporti e reti stradali e autostradali, ma anche servizi sociali quali scuola e sanità svolgendo un ruolo attivo (anche in senso economico) di mediazione dei conflitti tra imprenditore e lavoratori in Europa, garantendo altresì diritti del lavoro e diritti sociali mediante pubblica scuola, sanità, assistenza sociale((welfare universale) per tutti i cittadini ?
Da come sono andate le cose dopo il 1989 e fino ai giorni nostri sembra che le domande poste abbiano avuto univoca risposta: liberismo totale.
Arrestata la possibile deriva europea verso il sistema totalitaristico comunista dell’URSS (tutto lo scibile umano gestito dallo Stato) il sistema economico misto socialdemocratico in auge dal dopoguerra fino agli anni ’90 europeo, successivamente l’Europa sembra abbia decisamente imboccato la via verso il liberismo estremo, importato dagli USA, ritenendolo evidentemente l’unico sistema in grado di creare sviluppo e dunque ricchezza per cittadini e Stato. E’ su questa credenza che in Italia si sta dismettendo ogni impresa statale sotto qualsiasi forma e finalizzata a qualunque servizio di utilità pubblica. In nome della libertà d’impresa, commercio e finanza si stanno riducendo drasticamente diritti umani, civili e sociali. Perché la libertà di impresa, commercio e finanza non crea pluralismo d’impresa ma si coagula in macroscopiche potentissime multinazionali che, avendo unico scopo l’utile di bilancio senza controllo né vincolo alcuno da parte di qualsivoglia entità statale, sta riportando i lavoratori ai livelli di schiavitù di ottocentesca memoria.
E non è solo questione di schiavismo incombente ma anche di sopravvivenza della specie. Questa al riguardo la lapidaria affermazione del prestigioso economista (mica di un invasato ambientalista) Giovanni Sartori (Corriere della Sera (3/9/2005)
“IL MERCATO NON CI SALVERA’
Il terribile uragano che ha distrutto New Orleans ha anche colpito le piattaforme di estrazione del petrolio del Golfo del Messico facendone schizzare il prezzo a 70 dollari. Ma era già arrivato a 65-67, dai 25-30 dollari degli anni scorsi. E sotto Ferragosto ricordavo che il campanello di allarme sui costi e sulla scarsità del greggio risale a 25 anni fa (se non addirittura al 1973) e che da allora non si è fatto nulla, quasi nulla, per rimediare. Perchè ? Siamo soltanto stupidi e miopi ? Non si sbaglia mai a rispondere che lo siamo. Ma questa miopia e in nostro non-fare sono giustificati da un alibi: il merato. E’ il mercato – ci viene spiegato da mattina a sera – che con i suoi automatismi provvede a tutto. Guai a far intervenire la nostra “mano visibile”. Dobbiamo invece lasciar fare alla “mano invisibile” , appunto San Mercato (oppure , per i laici, a Sua Maestà il Mercato).
Qualche mese fa l’Economist dava larga evidenza e credito a un saggio di due americani che si intitola “Morte dell’ambientalismo”, la cui tesi è che un ambientalismo antiquato (nei suoi concetti e metodi) va rilanciato, appunto, dal mercato e dall’ottimismo. Si anche dall’ottimismo. “Pensate – scrivono – se Martin Luther King invece di dire ‘ho un sogno’ avesse detto ‘ho un incubo’.” Pensa e ripensa, io non ci arrivo. Anche io (da ambientalista) ho il sogno di salvare l’ambiente; e ce l’ho proprio perchè sono assillato dall’incubo di vederlo distrutto. Il sogno non sostituisce l’incubo, lo presuppone.
Sciocchezzaio ottimistico a parte, il punto è quanto possa fare, in questa partita, il mercato. Sia chiaro: la concorrenza di mercato è uno strumento insostituibile per la determinazione dei costi e dei prezzi. Senza mercato (vedi la pianificazione sovietica) un sistema economico diventa anti-economico. Ciò detto, sua Maestà il Mercato non è un meccanismo salvatutto.
Il caso del petrolio è esemplare. Oggi come oggi il petrolio fornisce il 70% dell’energia usata nei trasporti. Domanda: benzina e diesel derivati dal petrolio sono sostituibili ? La risposta è: in piccola misura., si. Sono sostituibili con l’etanolo ed equivalenti ricavati da piante zuccherine (anche barbabietola, girasole, mais); prodotti che hanno l’ulteriore pregio di essere ‘pulite’. Però a tutt’oggi il solo Paese che produce olio combustibile e benzina da vegetali è il Brasile. Altrove niente. Niente perché il mercato decreta così, perché ai prezzi di ieri il petrolio costava meno. Ma ai prezzi di oggi, e peggio ancora, di domani ? A questo effetto San Mercato ci lascia pericolosamente a terra. Il guaio è che il mercato ‘vede corto’, che non ha progettualità. Il che lo rende inidoneo, e controproducente, nel fronteggiare il futuro.
Il mercato ha anche altri limiti. Ma, restando al tema, l’idea di affidare le nostre speranze – il ‘sogno’ degli scemotti che citavo – a un’analisi (di mercato) di costi-benefici è davvero peregrina. Perché il mercato non calcola e non sa calcolare il danno ecologico. Se abbatto alberi, il mercato contabilizza soltanto il costo di tagliarli, non il danno prodotto dall’abbattimento delle foreste. Se surriscaldiamo l’atmosfera, il mercato registra, tutto giulivo, solo un boom di condizionatori d’aria. Per questo rispetto, Dio ce ne liberi da San Mercato. Il nostro pianeta non sarà salvato ‘a costi di mercato’; dovrà essere salvato costi quel che costi.”

Dunque assodata l’estrema miopia del mercato e dunque la sua estrema pericolosità, è del tutto evidente che il sistema politico liberista (pensiero politico liberale di destra) propugnatore della debba essere accuratamente evitato, a maggior ragione evitato se a tale sistema liberista si alleano neo-teoconservatori come è avvenuto recentemente negli Usa, ma come è avvenuto, paradossalmente, anche col regime comunista della Cina. Anche se sono da segnalare da parte cinese conseguentemente ai primi disastri ambientali alcuni significativi pronunciamenti per uno sviluppo graduale e ecologicamente compatibile anche da parte loro.
Resta da stabilire se è possibile la competizione vincente del nostro sistema socialdemocratico pur rinnovato in senso liberale alla Giddens, made in U.E. rispetto al sistema liberista made in USA più (con partito Repubblicano al governo) o meno (con partito democratico al governo) compassionevole e più (Partito Repubblicano) o meno (Partito Democratico) posizioni neo-teoconservatrici.
Rifkin, scommette e non è un’esortazione beneaugurale ma una ponderata analisi comparativa, tra sistema politico socialdemocratico Europeo e sistema politico liberista USA.
Certamente l’Europa strutturalmente socialdemocratica deve pretendere che organismi internazionali quale il Bureau International du Travail, l’Unesco, il WTO, la Banca Mondiale, l’ONU con la recentissima costituzione del Consiglio per i diritti umani, facciano rispettare i diritti umani, la tutela dei lavoratori in termine di previdenza, sicurezza sul lavoro, salario minimo decoroso e tutela ambientale da parte delle Multinazionali, senza tali vincoli il discorso della libera concorrenza è decisamente aberrante.

Ma vediamo gli altri AA che hanno contribuito alla delineatura dei contorni ideologici del possibile Partito Democratico.

Ecco alcune utili precisazioni raccolte da Danilo Di Matteo (Riformismo e dintorni 16/1/2006)
"Socialisti per il partito democratico
Sono da apprezzare il coraggio e l’onestà intellettuale con i quali Luca Guglielminetti, direttore di Socialisti.net, lo scorso 14 gennaio, intervenendo a Torino al convegno “Socialisti nella Margherita: verso il Partito democratico”, ha affrontato la questione socialista.
Prendendo spunto dall’impegno, ma anche dall’incostanza dei “cybermilitanti”, ha parlato della “precarietà cronica di tutte le iniziative politiche intraprese dai partiti della diaspora dell’ex Psi”, le cui classi dirigenti “hanno continuato a dimostrare l’incapacità a disegnare un progetto serio e duraturo che conducesse alla casa comune dei socialisti italiani”. Invece “la questione socialista oggi avrebbe più senso se fosse declinata con un’invenzione, quella di Prodi, che non è senza radici a noi care: un’alternativa democratica al Partito socialista ‘ideologico’ fu accarezzata più volte da Turati, ritorna con Carlo Rosselli, e fu immaginata anche da Craxi che, sul finire degli anni ’80, propose di ribattezzare come ‘Internazionale democratica’ l’Internazionale socialista”. Col Partito democratico, poi, si avrebbe lo scioglimento del Partito ex comunista e, quindi, la chiusura della lunga stagione iniziata a Livorno nel 1921.
Altro evento significativo è l’adesione della Sinistra LiberalSocialista, il gruppo guidato dallo scienziato Claudio Nicolini (da sempre sostenitore del sistema elettorale maggioritario), allo Sdi e alla Rosa nel Pugno, con la nascita, all’interno della formazione di Boselli, di un’area di “Socialisti liberal per il Partito democratico”. Il Partito democratico, è la tesi di fondo, è di fatto nato con le primarie per la scelta del candidato premier. Per far maturare il progetto, però, occorrerebbe una terza forza laico-socialista, erede del Psi ed espressione della società civile. Nicolini e i suoi non rinunciano poi allo sforzo di coniugare in concreto libertà ed eguaglianza, socialismo e liberalismo, con un’attenzione particolare verso la formazione e la ricerca.
Insomma: probabilmente il Partito democratico sarà tutt’altro che una riedizione del compromesso storico."



E' la volta di Michele Salvati che il 31 gennaio 2006 sulle colonne de Il Riformista ci propone le sue ponderate riflessioni – sostanziale summa riepilogativa - sull’argomento.


“Lettera aperta ai miei compagni (Michele Salvati su Il Riformista)
Cari Ds, ascoltate uno di voi Subito il partito democratico - Una grande socialdemocrazia non nascerà in questo paese anormale
Sono iscritto al Pds-Ds sin dall'origine di questo partito, dal congresso di Rimini del 1991. Con Salvatore Veca, ho contribuito a... indovinarne il nome (Partito democratico della sinistra), anche se poi esso fu adottato per motivi contingenti e sbagliati. Se si va a rileggere il nostro appello dell'estate dell'89 (pubblicato su uno degli ultimi numeri della vecchia Rinascita, con un titolo che potrebbe essere riutilizzato ora per il partito democratico: Se non ora, quando?), si vede però che noi non avevamo nulla contro il socialismo - anzi, dicevamo chiaramente che il socialismo democratico aveva vinto la sua sfida contro il comunismo - e non ci interessava molto la polemica contro i socialisti italiani. Quella polemica fu invece determinante nell'adozione del nome che avevamo proposto, che non conteneva, ma per tutt'altre ragioni, gli allora esecrati termini «socialismo» o «socialdemocratico». Gli argomenti principali di quell'appello sono gli stessi che muovono me ora (e credo anche Veca) a sostenere un'ulteriore trasformazione, quella finale, la confluenza entro un grande partito democratico.
Nel Pds e poi nei Ds ho militato - il termine mi piace poco, ma è quello che si usa - lealmente sempre e spesso appassionatamente in questi quindici anni. Insieme a un piccolo gruppo di compagni, in esso ho condotto la mia battaglia politica per il partito democratico, testimoniata dagli scritti raccolti nel libro omonimo (Mulino, fine 2003). Ho fatto parte dei suoi organi direttivi e sono stato suo parlamentare durante la legislatura in cui il centro- sinistra ha avuto responsabilità di governo. Ho imparato ad apprezzare l'eredità di passione, impegno e onestà che il nuovo partito riceveva, insieme ad altri lasciti che mi piacevano meno, dal partito comunista. Insomma, anche se per temperamento sono assai poco partigiano, i Ds sono stati sinora la mia casa politica.
Perché questi riferimenti personali, che non mi sono consueti e che qualcuno potrebbe giudicare un poco fastidiosi? Perché vorrei si capisse bene che questo è un appello rivolto ai Ds e che viene dall'interno e da lontano. E' la proposta di un iscritto al partito, sia pure in attesa di traslocare al partito democratico. Ed esprime la meraviglia che i suoi dirigenti non si rendano conto della necessità e dell'urgenza del compito che sta loro innanzi. Altri, in altri partiti riformisti, conducano la loro battaglia in casa propria: in Margherita c'è un bel gruppo che si impegna nella scia di Nino Andreatta. E altri ancora conducano la battaglia esterna, nei comitati per l'Ulivo, nelle associazioni per il partito democratico che stanno spuntando un po' ovunque. A me, e ai sostenitori del partito democratico iscritti ai Ds, compete anzitutto cercare di convincere il nostro partito.
Un controfattuale
Necessità e urgenza, dicevo. Urgenza anche elettorale, perché ha perfettamente ragione Ilvo Diamanti (Repubblica, 22/01/06) a sostenere che gli elettori non ci capiscono niente in una lista unitaria alla Camera e liste di partito al Senato: o ci si presenta uniti sempre - e allora il partito democratico è un esito scontato - o ci si presenta sempre divisi, per sfruttare al meglio le caratteristiche della nuova legge elettorale. Uniti sempre non ci si voleva presentare: forse non era neppure conveniente, bisognava prima contarsi, ...e poi dov'è questa fretta? Ma divisi, per i partiti, sarebbe stato ancor peggio, perché allora la presentazione di una lista Prodi sarebbe stata inevitabile, e questo era fumo negli occhi per i Ds ma soprattutto per la Margherita. Questo punto, anche se contingente, va un poco sviluppato perché è un esempio «controfattuale» molto efficace per capire le logiche di comportamento dei nostri partiti.
Il momento magico è subito dopo le primarie. Il 17 ottobre, appena noti i risultati, Prodi poteva convocare i partiti e far loro questo ragionamento: «E' vero, il risultato di ieri dimostra solo che nel nostro popolo c'è una gran voglia di unità, una gran voglia di partecipazione, una gran voglia di defenestrare Berlusconi, e che io gli vado bene come candidato premier. Non è ancora una domanda esplicita di partito democratico. Ma la costruzione di questo partito, per natura sua, è un esercizio di arte politica. E' profittare delle occasioni per costruire qualcosa che ancora non c'è, per soddisfare una domanda che è ancora latente in gran parte del nostro popolo; è una proposta egemonica che compete a noi, leader del centro-sinistra, se siamo veri leader. E allora facciamo così. Diciamo con chiarezza che subito dopo le elezioni faremo il partito democratico. E che però, per profittare al meglio di questa sciagurata legge elettorale, ci presentiamo divisi, io con la mia lista Prodi, voi con le vostre liste di partito. Tutti d'accordo, però, senza conflitti, e facendo mostra di grande unità». Potete immaginare le reazioni a questo discorso, se fosse stato fatto?
La lista Prodi avrebbe ottenuto una buona fetta dei voti del centro-sinistra, in parte ottenuti da coloro che non vogliono votare i partiti, ma in parte strappati ai partiti stessi: la Margherita, in particolare, si sarebbe dissanguata, soprattutto al Nord. E forse non sono estranei a questo possibile esito sia la fretta con la quale Rutelli ha accettato di fare una cosa che aveva sino a quel momento escluso, la lista unitaria, sia lo zelo con il quale si è messo a predicare le magnifiche sorti e progressive del partito democratico. Facendo la lista unitaria forniva una casa a Prodi e giurando sul partito democratico poteva indurlo a recedere dalla tentazione di farsi una lista propria. Ma anche i Ds non sarebbero stati molto contenti, diciamo così, perché a nessun partito fa piacere perdere voti. Insomma, basta costruire bene il nostro esempio controfattuale per rendersi conto del suo scarso realismo: Prodi avrebbe potuto forzare per ottenere qualcosa di più di una lista unica alla Camera e di vaghe promesse sul futuro, ma forzando avrebbe creato un vespaio, non un consenso entusiasta sull'operazione. E se è vero che la nuova legge avvantaggia uno schieramento a più punte, è anche probabile che tale vantaggio sarebbe stato perduto se le punte del centro-sinistra si fossero messe a litigare. A litigare proprio subito dopo che il popolo di centro-sinistra aveva loro mandato un messaggio di unità e di concordia.
Perso il momento magico, la minaccia della «bomba atomica», della lista Prodi, diventa sempre meno credibile mano a mano che ci si avvicina alle elezioni. Se i partiti non l'accettano con entusiasmo e non ne spiegano il significato alla luce del futuro partito democratico, sono sempre più esili i suoi vantaggi ed evidenti gli svantaggi: a credere nella sua possibilità e utilità per il centro-sinistra oggi sembrano essere rimasti solo Giovanni Sartori e Paolo Flores. Il bluff di Prodi, con le sue dichiarazioni e la sua lettera aperta del 15 gennaio scorso, è durato lo spazio di un mattino: i partiti hanno scrollato le spalle con fastidio e la cosa è finita lì. Insomma, sui partiti e le loro logiche gli eventi di quest'anno non mi inducono a mutare di una virgola la lunga e scettica analisi che ho svolto su questo giornale più di un anno fa («Romano Prodi e il messaggio per l'Italia», sul Riformista dell'11 dicembre 2004): se non sono guidati da leader innovatori, i partiti seguono logiche di minore resistenza, di trascinamento, di path dependence, guidate da puri interessi organizzativi. E non facciamoci ingannare dall'abilità dei leader: oggi Rutelli sembra il trascinatore del progetto, e i Ds sembrano relegati al ruolo di chi punta i piedi. Ma i timori della Margherita di essere fagocitati dai Ds nel caso il partito democratico si faccia «troppo» presto, e qualche ambizioncella egemonica all'interno dei Ds e della loro leadership di ex-Fgci, sono presenti oggi come lo erano un anno fa. Gli elettori non conosceranno le sottigliezze della rational choice, ma questa non è necessaria a capire che i due grandi partiti del centro-sinistra di voglia di fare, sul serio e in fretta, un partito democratico ne hanno pochina. E questo espone il centro-sinistra - che già ha i suoi guai col lato sinistro del proprio schieramento - alla sgradevole ambiguità che denunciava Diamanti e che ne colpisce proprio il motore riformista. Ma veniamo ai Ds.
Le resistenze nei Ds e l'alternativa al partito democratico
Capisco le resistenze della sinistra interna, del «correntino». Da un lato esse sono alimentate da reali differenze di analisi economica, sociale e politica e da seri conflitti di orientamento ideologico e culturale. Dall'altro esse sono il frutto di una valutazione strategica realistica circa il ruolo che una sinistra classista si troverebbe a giocare in un partito in cui il predominio di una sinistra individualistica e liberale diverrebbe ancor più schiacciante: si ritroverebbe come i residui dell'Old Labour nel New Labour di Blair e Brown, o come Lafontaine e i suoi seguaci all'interno di una Spd dominata dalla Neue Mitte di Schroeder. E i suoi leader sarebbero esposti alla sgradevole scelta se star dentro e soffrire o rompere decisamente, come ha fatto Lafontaine. Quanto più comodo è annidarsi nel vecchio partito, dove si viene tutti dalla stessa storia, dove è dominante è il mito dell'unità, dove sanno benissimo che Fassino è disposto a svenarsi pur di evitare una scissione! Non capisco invece le resistenze dei riformisti. Non capisco Peppino Caldarola. Biagio de Giovanni, Emanuele Macaluso, Massimo Salvadori, per citare persone che stimo, le cui concezioni politiche e valoriali faccio fatica a distinguere dalle mie, e che recentemente si sono spesi contro l'ipotesi del partito democratico mediante scritti di un certo impegno. O meglio, capisco i loro ragionamenti, ma credo che siano sbagliati, che sottolineino controindicazioni effettive senza vedere il problema nel suo insieme, e quindi le ancor maggiori controindicazioni di una scelta diversa.
Nella sostanza, mi sembra, questi compagni riformisti hanno sempre in mente l'idea di riportare, finalmente e stabilmente, gli ex-comunisti Ds nella loro casa madre, il glorioso partito socialista, e come socialisti radicarsi a pieno titolo nel partito socialista europeo.
Insomma, è la vecchia idea di D'Alema, quella di un paese «normale», in cui ci sono conservatori e socialisti e non Ulivi, Margherite ed altre specie del mondo vegetale. Da leader politico, D'Alema si poneva però, e giustamente, un problema di egemonia: il suo partito socialdemocratico fatto di ex-comunisti doveva diventare un partito potenzialmente maggioritario e i partiti vegetali dovevano sparire o ridursi fortemente. Sappiamo come sono andate le cose: i Ds non sono riusciti a raccogliere tanti ex-socialisti (o anche ex- repubblicani, liberali, democristiani di sinistra...) da attenuare l'imprinting comunista del partito; i partiti vegetali vivono e prosperano; la vocazione maggioritaria è ben lontana, perché, se va bene, i Ds sfiorano il 22%. Insomma, l'asse riformista del centro- sinistra continua a essere composto da due partiti principali e D'Alema è stato rapido nel riconoscere (nei fatti, perché un'autocritica esplicita non l'ha mai fatta) l'errore commesso: oggi, mi sembra, si proclama un leale sostenitore dell'Ulivo e ...in prospettiva, del partito democratico.
Perché questo è il punto: se si vuole un partito riformista con vocazione maggioritaria, capace di sfondare il muro del 30% e andare parecchio oltre, non si può pretendere che questo partito sia un partito socialista fatto ...da ex-comunisti. Tutta la nostra storia «anormale», da Porta Pia e la conseguente costruzione di un mondo cattolico estraneo alla politica parlamentare e però fortemente organizzato, con importanti componenti riformistiche, alla prevalenza nel dopoguerra dei comunisti sui socialisti, alla necessità storica per quarant'anni di un partito né-di-destra, né-di-sinistra come la Democrazia cristiana al fine di arginare i comunisti, a Tangentopoli, tutta questa storia ci impedisce di essere un paese «normale», se normali sono quei paesi (non molti a dire il vero) in cui la sinistra è rappresentata da un grosso partito socialista riformista. Insomma, o si vuole continuare nel tentativo di trasformare l'ex-Pci in un partito socialdemocratico (comprensibile, perché si tratta del modello ideologico più vicino, della casa madre), ma allora si rinuncia alla vocazione maggioritaria e ci si rassegna a un centro-sinistra riformista fatto di due partiti, senza contare i piccoli. Oppure si vuole arrivare a un partito riformista a vocazione maggioritaria, capace di sfondare il muro del 30/35%, ma allora bisogna fondere questi partiti, accettare che l'identità socialista si mischi con le altre culture riformiste del nostro anormale paese, e soprattutto con quella di provenienza democristiana.
D'Alema s'era illuso di tagliare l'intricato nodo gordiano della nostra storia colla spada della sua spregiudicatezza politica e delle sue capacità di leadership. Non c'è riuscito e, da buon politico, abbozza. Ma il problema di egemonia l'aveva ben visto: possibile che i Macaluso, i Caldarola, i Salvadori non lo vedono? Come rispondono all'alternativa che abbiamo appena presentato? Nei loro scritti, e in quelli di altri che la pensano come loro, non l'ho mai vista identificata con chiarezza. Dall'apprezzamento che essi esprimono per la socialdemocrazia, dalle critiche che muovono a una possibile mescolanza delle diverse culture politiche riformistiche, dalla ostilità che manifestano per una fusione «affrettata» di Ds, Margherita e Sdi, si può pensare che una scelta l'abbiano fatta: preferiscono la purezza all'efficacia, un'identità socialista minoritaria a un grande partito riformista che tutto socialista non potrebbe essere. Sperano forse che col tempo e con la paglia, come per le nespole, possa anche maturare una capacità egemonica sul segmento riformista del centro-sinistra di un partito ex- comunista trasformato in socialista? Il correntino, quanto meno, ha le idee chiare: smettano i Ds di rincorrere a destra la Margherita, riconoscano di essere una forza di «vera» sinistra, si alleino con Rifondazione, e poi il centro faccia il centro e la sinistra la sinistra. Se, in un contesto che è ritornato proporzionale (e di questo sono contentissimi), il centro vorrà allearsi con loro, esso dovrà accogliere nel programma di governo almeno alcune delle loro richieste di vera sinistra. Se non vorrà farlo e si allea con la destra, ormai sdoganata, faccia pure: gli verrà fatta opposizione in parlamento e sulle piazze.
Quali sono le idee strategiche dei riformisti: continuare il litigioso condominio riformistico con la Margherita?
La possibilità del partito democratico e i suoi vantaggi
Caldarola & Co. non hanno torto quando sottolineano le difficoltà di mettere insieme tradizioni culturali e ceti politici così diversi come sono quelli dei Ds e Margherita. Sarebbe più facile intendersi con i socialisti che però, pochi e deboli come sono oggi, non hanno alcuna intenzione di farsi fagocitare dai Ds: quando l'estate scorsa la Margherita si sfilò dalla lista unica di cui lo Sdi era il più convinto dei sostenitori, pur di non restare solo con gli ex-comunisti questo partito si è alleato con i radicali. Ma, come spesso avviene quando non ci piace una cosa, si sopravvalutano le difficoltà e i danni che comporterebbe il partito democratico, si sottovalutano gli eventuali vantaggi e, soprattutto, non si considerano i costi che conseguirebbero al non farlo. I costi del non-partito-democratico sono la più importante ragione per farlo: ne abbiamo appena fatto cenno (il «litigioso condominio» con la Margherita) e ci torneremo. Qui ci limitiamo a una breve rassegna delle difficoltà sopravvalutate e dei vantaggi sottovalutati: ne ho trattato ampiamente nel libro e gli argomenti sono sempre gli stessi. Dunque, solo i «titoli» dei principali.
Il primo riguarda il socialismo: qual è, oggi, l'ideologia delle correnti dominanti nei maggiori partiti social-democratici europei, nel Labour, nella Spd, nello stesso Psoe, con buona pace di coloro che credono Zapatero un pericoloso sovversivo? Se non la si vuole identificare con la Terza via di Giddens, ci si va molto vicino: nella sostanza è una delle innumerevoli varianti (una delle varianti di sinistra) nell'universo dominante delle ideologie liberali. Lo è, al fondo, per la sua scelta decisa dell'individuo come standard di giudizio delle scelte sociali. Lo è per la scelta del mercato: un mercato regolato in modo da controllarne le conseguenze più ingiuste (sempre secondo standard liberali) sugli individui da cui la società è composta, ma sempre di mercato e di capitalismo si tratta.
Ne segue che un terreno comune, un punto d'incontro, con diverse tradizioni riformistiche è facile da trovare: oltretutto anche gli ex- democristiani di sinistra non provengono dalla koiné liberale e qualche passo in questa direzione devono farlo pure loro.
C'è naturalmente il problema che non si può chiedere ai Ds di rinunciare alla partecipazione al partito socialista europeo e non si può imporre ai Dl di parteciparvi.
Questo dipende più dal tradizionalismo e dal nominalismo del Pse che dalle effettive policies dei suoi principali partiti, del tutto simili, colla parziale eccezione del Ps francese, a quelle dei Ds italiani: ma finché il nominalismo perdura il problema esiste ed è abbastanza serio. Non così serio, però, da rendere impossibile una qualche soluzione provvisoria e da sacrificare ad esso un processo unitario che è giustificato da motivi assai più seri. E c'è poi il problema che non tutti i Ds sono disposti a giurare su On Liberty di John Stuart Mill, che c'è il correntino, e anche questo è un problema serio per un partito ossessionato dall'unità, dall'idea di tirarsi dietro tutti. Ne abbiamo fatto cenno prima e ci torneremo subito appresso, accennando alle singole policies. Io penso che una minoranza non-liberale, combattiva, sia un ingrediente importante in un partito democratico, e che le minacce di scissione siano più comprensibili alla luce delle incertezze della maggioranza - i nostri Salvi, Mussi & Co. sanno bene che gli stessi riformisti sono esitanti - che non di una reale intenzione di uscire nel caso il partito democratico si faccia. E poi dove andrebbero? Dopo essere stati in un grande partito, andrebbero con i comunisti italiani o con Rifondazione? E questi li vorrebbero? I volonterosi federatori dell'estrema sinistra incontrano difficoltà ancor maggiori di noi riformisti, come abbiamo visto dai risultati di chi ci ha tentato seriamente. Insomma, come per il caso del Pse, una leadership decisa e convinta non si fa frenare da queste preoccupazioni.
Data la koiné liberale cui i due partiti sono approdati, non genera sorpresa che le politiche economiche e sociali proposte dai Ds e Margherita siano molto simili, e simili a quelle delle correnti riformistiche moderate dei grandi partiti socialisti europei: Bersani e Letta la pensano allo stesso modo sulla politica economica, sulle pensioni, sull'assistenza, sulla scuola, sulla sanità e, se ci sono occasionali differenze, queste sono spazzate via dalla discussione, perché non dipendono da divergenze analitiche o ideologiche profonde. Lo stesso, ed è più sorprendente, avviene per l'Europa e per i grandi temi della politica estera: per entrambe le aree di policy le vere differenze sono interne ai due partiti, notevoli nei Ds tra i riformisti e il correntino, ma non assenti neppure nella Margherita. Le differenze tra i due partiti sembrerebbero più serie per quanto riguarda una terza grande area di policy, quella relativa ai temi della bioetica, della famiglia e soprattutto dei rapporti colla Chiesa cattolica. Questi temi, insieme a quelli dell'immigrazione e del multiculturalismo, diventeranno sempre più importanti nella politica del futuro, ma non bisogna farsi impressionare troppo dalle polemiche del presente, dalla scelta impolitica (facile dirlo col senno di poi) del referendum sulla procreazione assistita, dalle scelte divergenti dei Ds e Margherita in proposito. Se la koiné liberale tiene, non c'è possibilità di divaricazione profonda tra i due partiti: le posizioni così eloquentemente motivate dai nostri Tonini e Ceccanti facilmente possono diventare posizioni condivise dall'intero partito democratico e la spiegazione delle forti divergenze che si sono manifestate in proposito si capiscono assai di più alla luce di un conflitto di organizzazioni che non di un vero e profondo contrasto di idee. Mi spiego meglio. Con una gerarchia ecclesiastica che, in mancanza di un partito stabile di riferimento, fa attivamente lobbying presso i diversi partiti, e implicitamente promette vantaggi per quelli che sostengono policies più vicine alle proprie posizioni, si è generata una concorrenza tra partiti a schierarsi colla Chiesa. Per tradizione, nell'ambito del centro-sinistra, è la Margherita che poteva meglio profittare della situazione e la concorrenza con i Ds spiega l'estremizzazione del contrasto. E dunque si è calcata la mano su differenze ideali (in parte esistenti, ma in buona misura esagerate) perché esisteva concorrenza tra organizzazioni, una convenienza ad esasperarle. Ma faccio fatica a vedere nella Margherita un partito meno laico, meno attento alla distinzione tra Cesare e Dio, di quanto non fosse la vecchia Democrazia cristiana.
Insomma, cari Caldarola & Co., voi avete ragione a segnalare i problemi che ho passato in rassegna, ma credo di aver ragione io a ritenere che non siano insormontabili, che non possano essere questi i motivi per i quali ci si oppone al partito democratico. Così come non può esserlo la comprensibile irritazione per le battute infelici, e offensive per la tradizione socialista, che provengono dai vari Prodi e Rutelli oltre che dallo specialista in proposito, Arturo Parisi. Se si crede nella utilità sistemica di un grande partito democratico, nella possibilità reale, per la prima volta nella nostra storia, di creare un partito riformista a vocazione maggioritaria, i problemi che ho ricordato e le irritazioni dovute al conflitto tra le forze divise di oggi, possono essere superati di slancio e la fusione tra queste diverse forze può diventare un processo entusiasmante.
Cos'è in gioco, au fond? In gioco è la rimarginazione di ferite antichissime, che risalgono allo stesso nostro State and Nation Building, al non expedit, al fascismo, alla prevalenza dei comunisti sui socialisti nel dopoguerra. Il muro di Berlino ha distrutto il comunismo internazionale, ma Tangentopoli, la Lega, i comunisti e non ultimi i socialisti stessi hanno distrutto il socialismo italiano, lasciando gli ex-comunisti al posto loro. La Democrazia cristiana si è dissolta perché ne è venuto meno il ruolo storico, ma ha lasciato in vita corpose correnti di riformismo cattolico, mentre il grosso dei suoi effettivi andava, com'era naturale che andasse, nel centro-destra improvvisato genialmente da Berlusconi. Costruire un paese e un sistema partitico «normali», in Italia, non vuol dire costruire sul lato di centro-sinistra dello spettro politico un partito socialdemocratico potenzialmente maggioritario, operazione impossibile data la nostra storia. Vuol dire costruire un partito riformista-non-soltanto-socialdemocratico, questo sì potenzialmente maggioritario, utilizzando i materiali che la nostra storia ci fornisce. Dunque, il partito democratico. Se i capitani coraggiosi saltano fuori, se credono nell'impresa, questa è un'operazione entusiasmante, che può radicare nel nostro paese quella
cultura liberal- solidarista-socialista che finora è stata appannaggio di sparute élite.
Questo può essere il soffio vitale del nuovo partito. Che può coinvolgere, se si creano strutture di partecipazione e di democrazia adatte, oltre che i militanti dei vecchi partiti anche molte persone per ora estranee alla politica. Non è vero che il riformismo, anche la moderazione se è necessaria, sono poco entusiasmanti; non è vero che per mobilitare i giovani bisogna chiedere l'impossibile. Il possibile basta e avanza.
Il partito democratico: è ancora possibile?
Facciamo l'ipotesi (questa sì controfattuale) che io sia riuscito a convincere i miei amici Caldarola & Co., e tutto il gruppo dirigente riformista dei Ds, che il partito democratico sarebbe un'ottima cosa. Verrebbero meno, per questo, le esitazioni e le cautele che adesso sembrano predominare? Siccome i nostri capitani, oltre ad essere coraggiosi, devono anche essere prudenti, prima di imbarcarsi in una avventura così impegnativa, prima di sciogliere gli ormeggi di un porto modesto ma sicuro, prima di lasciare la casa in cui sono nati, che ha subito tante traversie ma è ancora in piedi, devono valutare con il massimo di realismo se l'avventura ha serie probabilità di buon esito, se l'impresa è fattibile. Se così fanno, oggi, devono riconoscere che le probabilità di buon esito - si vincano o no le elezioni - sono diminuite rispetto al passato e non sono molto alte. E che quindi occorre una dose di ottimismo e un impegno di volontà politica maggiori di quelli che sarebbero bastati in passato. Ciò perché, fino a pochissimo tempo fa, le motivazioni che sostenevano il partito democratico non erano solo quelle di contenuto cui ho fatto cenno prima, non era solo la grandezza storica del disegno, ma erano anche più modeste - ma molto potenti - considerazioni di convenienza politica ed elettorale.
Si trattava, fino al mutamento in senso proporzionalistico della legge elettorale, dell'opportunità di sfruttare appieno il sistema maggioritario in vigore per creare un solido e credibile «dirimpettaio» di Berlusconi, un equivalente di centro-sinistra rispetto a Forza Italia. Si trattava di creare una architettura del centro-sinistra simmetrica rispetto al centro-destra, con un partito dominante spostato verso il centro e i partiti più piccoli e più radicali spostati più a sinistra. Inoltre, in un sistema uninominale che rendeva necessario identificare candidati comuni nei singoli collegi, il coordinamento stava nelle cose stesse: valeva per l'intero centro-sinistra, ma a maggior ragione per i partiti più grandi. Insomma, si poteva sperare che un sistema maggioritario uninominale avesse in se stesso una logica che spingeva oltre il semplice bipolarismo, verso un vero e proprio bipartitismo. Di questa logica, è vero, non si vedevano ancora i frutti. Ma sarebbero bastate piccole modifiche al Mattarellum (ma anche ai regolamenti parlamentari e alla legge sul finanziamento dei partiti) per controllare le spinte alla frammentazione che questi ancora inducevano: e a tali modifiche sembrava dovesse limitarsi la nuova legge elettorale.
Quel che è avvenuto è invece una vera e propria restaurazione proporzionalistica.
Il premio di maggioranza e le soglie di sbarramento più basse per i partiti che partecipano a una coalizione ancora sospingono verso il bipolarismo, verso un confronto tra grandi coalizioni opposte, ma il contesto è profondamente mutato: le coalizioni sono indebolite, i singoli partiti sono tornati i padroni della situazione, si fanno liberamente concorrenza e possono giocare a tutto campo.
La «lista unica» che Ds e Margherita presentano alla Camera (e non al Senato) è un grazioso atto volontario - che poteva non esserci e infatti non ci sarebbe stato senza lo straordinario risultato delle primarie - non una necessità politica come la presentazione di candidati unici dell'Ulivo nel precedente sistema: resisterà questo stato di grazia nelle prove elettorali successive?
La restaurazione proporzionalistica, oltretutto, avviene in un contesto costituzionale e politico che ne accentua le proprietà disgregatrici. La riforma costituzionale approvata dal parlamento è pessima, ma contiene norme che stabilizzano le coalizioni, che ostacolano la disgregazione della coalizione vincente: entrerà mai in vigore? La risposta negativa è scontata, perché la probabilità che essa sia respinta dal referendum è ancor più grande della probabilità di sconfitta del centro-destra nelle prossime elezioni politiche:
in tal caso la partita si giocherà nel vecchio assetto costituzionale, ritagliato addosso a un sistema elettorale proporzionale. Ed è proprio la probabile sconfitta elettorale del centro-destra la terza grande spinta a disgregare le coalizioni: Berlusconi è stato il grande aggregatore, che non solo è riuscito a tenere insieme la sua armata Brancaleone, ma ha dato anche un contributo decisivo a consolidare la nostra. Che cosa faremo senza Berlusconi, senza il «grande nemico»? Che cosa avverrà del «polo» che egli aveva costruito?
Questi recenti sviluppi modificano seriamente, e in peggio, il quadro degli incentivi cui sono esposte le forze politiche che dovrebbero dar vita al partito democratico.
Lascio da parte lo Sdi: se i socialisti non sono costretti a restare da soli con gli ex-comunisti, se la Margherita partecipa con decisione e in condizioni di forza alla costruzione del partito democratico, non ho dubbi che lo Sdi ritornerebbe all'ovile, che la rosa prevarrebbe sul pugno: di fronte al disegno di un grande partito riformista l'attrattiva di un piccolo partito laicista si ridurrebbe sino a scomparire.
E' sulla Margherita che il nuovo quadro di incentivi opererebbe con pieno vigore, e qui non mi resta che riprendere e accentuare l'analisi che ho fatto un anno fa nel saggio su questo giornale che ho già citato. La nuova situazione apre alla Margherita un ventaglio di scelte molto ampio. Vediamo le due principali. Anche se, per convinzione profonda dei suoi leader, i Dl volessero veramente dar vita a un grosso partito di centro-sinistra, il proporzionale e la probabile disgregazione del fronte berlusconiano potrebbero indurli a una posizione di attesa: il loro obiettivo - non solo comprensibile, ma perfettamente legittimo - è di arrivare a una fusione con i Ds in condizioni di massima forza relativa ed è evidente che la loro capacità di attrazione sui frammenti (?) che potrebbero staccarsi dalla galassia berlusconiana è molto maggiore se si presentano come un partito di puro centro, non come un partito che si è già fuso con i Ds, in cui il bianco è già diventato rosa. Dunque - potrebbero pensare - tiriamo i freni e stiamo a vedere. Ma poi, seconda possibile scelta, quanto resisterebbe il desiderio di fondersi con i Ds nelle condizioni che ho appena descritte? Non riemergerebbe la speranza, mai abbandonata da alcuni dei più vecchi esponenti del partito popolare, di ridar vita a un partito di centro di notevoli proporzioni, un partito che potrebbe diventare l'asse della vita politica italiana? Certo, è un partito che dovrebbe coalizzarsi, perché anche questo sistema elettorale premia le grandi coalizioni. Ma adesso la teoria dei due forni potrebbe veramente attuarsi: sdoganati ex-fascisti ed ex-comunisti, chi potrebbe obiettare se un partito di centro, permanentemente al potere, si allea or con gli uni ed or con gli altri? Dunque, non soltanto tiriamo i freni, ma teniamoli sempre tirati: addio, partito democratico.
Io non ho il minimo dubbio, si badi bene, sulla sincerità di Rutelli e del suo impegno recente per il partito democratico. Ma la sincerità di un leader, il cui fine ultimo è quasi sempre il rafforzamento del suo partito, è una sincerità «date le circostanze», una sincerità sub condicione: se le circostanze cambiano, un'altra scelta può essere conveniente. Quasi sempre, dicevo: solo grandissimi leader riescono sia ad approfittare delle circostanze che a perseguire finalità più grandi dell'interesse immediato del loro partito, ad essere sia realisti che idealisti. Beato il paese che non ha bisogno di grandissimi leader: il nostro, purtroppo, ne ha bisogno.
E i Ds? I Ds (come An sull'altro fronte) sono penalizzati dal nuovo quadro di incentivi che si venuto a creare: questo allarga le opzioni per Margherita, ma le restringe per i Ds e An. L'unica opzione conveniente per i riformisti Ds è veramente il Partito democratico: solo questa (nelle circostanze italiane, in cui un partito socialdemocratico non è potenzialmente maggioritario) dà loro la possibilità di essere stabile forza di governo e non alleato occasionale e in condizioni permanentemente minoritarie rispetto ai centristi puri. Questa è la via d'uscita cui si sono preparati accentuando - non abbastanza, ma molto rispetto alle condizioni di partenza - i loro tratti riformistici e liberali. Se questa via d'uscita è sbarrata, la loro identità è sbiadita e le condizioni competitive in cui si svolge il gioco politico in un sistema proporzionale - in particolare la necessità di polemizzare con i centristi - inevitabilmente li sospingono nelle braccia delle loro frange più di sinistra, braccia ben felici di accoglierli: Bersani sarebbe costretto a polemizzare con Letta, Morando con Treu, ...rendo l'idea? Il partito democratico, e un sistema veramente maggioritario, non soltanto sono un bene per il paese; sono la condizione necessaria di sopravvivenza e sviluppo per la corrente riformista dei Ds.
L'appello per i dirigenti Ds...
...segue dall'analisi che ho appena svolto. I dirigenti riformisti dei Ds si trovano nella circostanza in cui il loro interesse come ceto politico, come gruppo che vuole contare nelle scelte di governo, coincide con l'interesse del paese. L'interesse del paese - e qui non ho modo di sviluppare un'analisi che tanti, quorum ego, hanno svolto altrove - è quello di correggere le storture della seconda repubblica senza ricadere nei difetti della prima. (Non è forse sorprendente che nessuno abbia messo in rilievo con la dovuta enfasi che la nuova legge elettorale rovescia i risultati di un referendum che aveva coinvolto l'80% degli italiani? Non è forse questo silenzio un segno dei tempi, della rassegnazione di alcuni e della soddisfazione di tanti?) L'interesse del paese è di avere un sistema di alternanza civile, tra ceti politici diversi, e non la permanenza al potere dello stesso ceto: la democrazia ha delle difficoltà ovunque, è vero, ma è meglio una democrazia che consente agli elettori di sbarazzarsi di un ceto politico che non li ha soddisfatti che una democrazia che non lo consente. Un sistema maggioritario ben congegnato permette di raggiungere questo scopo assai meglio di un sistema proporzionale con premio di maggioranza come quello che il centro-destra è riuscito a imporre, vera polpetta avvelenata che già troppi hanno addentato. In un sistema maggioritario, poi, la costruzione di un grosso partito riformista, lo si chiami come si vuole, è fortemente incentivata, e non disincentivata come è in un sistema proporzionale. Tutto questo è un vantaggio per il paese e per la sua democrazia. Ma è anche un grosso vantaggio per la maggioranza riformista dei Ds: al di fuori di un sistema maggioritario e di un grosso partito riformista - dunque del partito democratico - essi incontrerebbero tutte le difficoltà che ho indicato prima.
Di qui l'appello (a) si impegnino i Ds a imporre subito nell'agenda del governo una legge elettorale maggioritaria: meglio una a doppio turno di collegio, ma potrebbe anche andare una a turno unico e senza quota proporzionale, come voleva un referendum fallito per un soffio e per il quale, diciamo così, gli stessi Ds non si erano spesi all'estremo. (b) si impegnino i Ds a trovare un accordo con Margherita su un processo costituente del nuovo partito da svolgersi entro la prima parte della legislatura. Anche pagando prezzi organizzativi alti, non giustificati dai rapporti di forza attuali: Margherita ha potenzialmente opzioni maggiori e queste vanno remunerate.
Non so se l'impegno dei Ds possa bastare per raggiungere questi risultati. Ma se i Ds non si impegnano, è sicuro che non saranno raggiunti.”

Subito di seguito in risposta di Gianna Fregonara (Corriere 1/2/2006)
“IL NUOVO SOGGETTO
Manifesto per il partito democratico, Salvati divide la sinistra
LA LETTERA APERTA
L'appello di Michele Salvati pubblicato ieri dal Riformista, dedicato «ai miei compagni» e intitolato «Cari Ds, ascoltate uno di voi. Subito il partito democratico»
ROMA — Avendo i politici dell'Ulivo siglato una tregua elettorale sul partito democratico, non poteva che essere uno dei suoi ispiratori, Michele Salvati a riportare sulla scena la scelta spinosa che attende Ds e Margherita il 10 aprile. L'economista diessino ha una proposta concreta per il suo partito e un appello stringente quanto accorato: poiché una socialdemocrazia non nascerà mai in Italia, i Ds si impegnino a fare due cose subito dopo le elezioni. Primo: «Imporre nell'agenda di governo una legge elettorale maggioritaria». Secondo: «Trovare un accordo con la Margherita su un processo costituente del nuovo partito da svolgersi entro la prima parte della legislatura». Con una postilla: siano pronti i Ds a «pagare un prezzo organizzativo alto anche non giustificato dai rapporti di forza attuali» perché la «Margherita ha potenzialmente maggiori opzioni (leggi: il polo moderato con quel che resta del centrodestra) e queste vanno remunerate».Sostenitori del nuovo partito e «frenatori», tutti concordano che il discorso oggi è «prematuro», che i conti vanno fatti, come dice Salvati, un'ora dopo il risultato del voto: «Lo trovo astratto. La somma di Ds e Margherita non farà, come due più due, quattro, ma probabilmente tre: non dimentichiamo che negli Anni Sessanta la fusione Psi-Psdi fu un fallimento e non durò due anni — ribatte Emanuele Macaluso, da sempre assai scettico sull'impostazione dall'alto del partito democratico —. Una parte degli elettori di Dc e Pci non rinuncerà volentieri alla sua identità».Anche se da più di un decennio le due sigle sono scomparse? «Lo vedremo il 10 aprile come hanno votato gli elettori di centrosinistra». A sorpresa più possibilista sulla teoria- Salvati è Peppino Caldarola, fondatore della componente neosocialista dentro i Ds, che a Salvati chiede un'ulteriore apertura. E cioè che il partito democratico sia aperto alle correnti: «Finora c'era una sorta di prevenzione ideologica punitiva contro i socialisti, mi sembra che Salvati faccia un passo avanti. Ma io credo che non dovranno soltanto essere i Ds a fare un atto di generosità in questo partito. Ci vuole un passo reciproco: tutti dovranno rinunciare all'egemonia culturale». Sostenitore ante litteram del partito democratico, oggi ottimista della volontà ma pessimista della ragione sullo schema, è il costituzionalista Augusto Barbera: «Nel momento in cui si torna al sistema proporzionale, tutto è più difficile, si fanno valere le identità e non mi illudo che si possa facilmente tornare indietro alla legge maggioritaria. Certo c'è il risultato delle primarie con i quattro milioni di partecipanti che dà un'ulteriore spinta a riprendere il cammino del partito democratico, ma è stato un errore non fare la lista unitaria anche al Senato. A questo punto solo il successo dell'Ulivo alla Camera potrà rilanciare veramente il partito unico».
Per Gian Enrico Rusconi i ragionamenti sul partito democratico rischiano di essere accademici: belli, intriganti ma astratti. «Non si può non tener conto — spiega — che la situazione in questi ultimi mesi, da Unipol in poi, è cambiata, è degenerata in questa campagna elettorale: bisogna capire se e come il centrosinistra vincerà le elezioni e poi chi sarà la personalità che potrà esercitare una leadership tale da trascinare Ds e Margherita nel partito democratico».
Per il presidente dell'Istituto Gramsci Beppe Vacca, che ha appena pubblicato «Il riformismo italiano», le ragioni per il partito democratico sono più solide di quelle indicate da Salvati e il percorso migliore quello che «parte dai soggetti più che dalle regole»: «Se vogliamo chiudere questa transizione infinita dobbiamo dare voce al nucleo riformista forte che esiste nel centrosinistra. Il partito democratico non è altro che la socialdemocrazia all'italiana, cioè una socialdemocrazia che si rifà ai valori cattolici. I tempi, sono urgenti non perché la Margherita ha un altro progetto ma perché il Paese ha bisogno di uscire da questo tunnel»”

Gianfranco Pasquino (L’Unità 2/2/2006) piuttosto pessimista ricorda ancora i nodi da sciogliere.

“Democratici Il Partito che non Parte
Nessun dibattito sul partito democratico può fare passi avanti se viene impostato in chiave velleitaria, se non tiene conto delle esperienze straniere, se non parte dal basso. Da tempo Salvati preferisce invece una impostazione con appelli accorati, in chiave tutta italiana e, soprattutto, che non faccia leva sulle energie che, alla base, probabilmente, ci sarebbero. Comincerò da qui. I quattro milioni e 311mila elettori delle primarie del 16 ottobre (alle quali, si ricorderà, Salvati non era affatto favorevole) sono stati subito bellamente dimenticati
Senza sorpresa e senza imbarazzo, giustificandosi nobilmente con le necessità di bilanciamento della coalizione, partitocrati dei DS e della Margherita hanno preferito, come rivelano tutti i quotidiani, spartirsi i seggi in parlamento trascurando, persino con fastidio, tutte le proposte che suggerivano di incanalare quelle energie “primarie” non soltanto per riprodurre mobilitazione consapevole, ma per rilanciare quella che è effettivamente la grande risorsa dei cittadini dell'Ulivo: la voglia di contare scegliendo saggiamente candidate e candidate. Inoltre, ed è a questo livello che potrebbe partire in maniera brillante l'avventura del partito democratico, i parlamentari scelti attraverso le primarie sentirebbero l'obbligo politico-etico di diventare rapidamente i più autorevoli rappresentanti del nucleo fondante di un nuovo, migliore, partito.
La fusione verticistica di gruppi dirigenti, da attuare comunque attraverso passaggi congressuali espliciti, oltre a non avere finora mostrato nessuna capacità innovativa (nè di idee, nè di proposte, nè di riforme), risulta inevitabilmente burocratica. In pratica, non è in grado di rivelare nessuna attrattiva per quella parte, probabilmente cospicua, di elettorato di centro-sinistra che non si limita a volere la sconfitta del centro-destra, ma fortemente desidera un modo nuovo di fare politica che valorizzi alla grande energie ed esperienze che non siano maturate (fino al conformismo) dentro gli ex di tutti i partiti contraenti il nuovo, e, soprattutto, che non intendano acquisire e mantenere le loro cariche indefinitamente sfuggendo alla valutazione primaria del loro elettorato, ed oltre.
Anche se adesso, probabilmente senza conoscerne correttamente i termini, fra i potenziali “democratici”, è iniziata una non troppo sottile opera di delegittimazione e di svalutazione della straordinaria impresa di Mitterrand culminata nella creazione da una pluralità di associazioni di un Partito socialista (sicuramente democratico sicuramente riformista), quello è, almeno in via di principio, l'esempio convincente e vincente. Il PS francese è riuscito a combinare insieme, con apprezzabile e meritoria efficacia (dieci anni dopo la sua creazione conquistò la Presidenza della Repubblica), spezzoni di vecchi partiti, associazioni strutturate, clubs della società civile, di provenienza laica e cattolica.
Infine, la terminologia «partito democratico» non appare particolarmente brillante, nè trascinante. È vero che, correttamente intesa, si contrappone in maniera frontale alle costose oligarchie che attualmente, in misura appena diversa, controllano i partiti esistenti, ma è anche vero che non dice assolutamente nulla sulle prospettive, sulle riforme, sulla politica di questo futuro partito.
Incidentalmente, qualcuno dei “democratici” sarebbe in grado di spiegare perchè i partiti socialdemocratici non sarebbero democratici e quale dovrebbe essere la diversità (immagino «superiorità», comunque, la pretenderei) riformista del partito democratico, da dove verrebbe, da quale cultura che non sappia valorizzare, anche criticandolo, l'enorme contributo delle socialdemocrazie europee alla democrazia e alle politiche sociali ed economiche?
Insomma, come continua ad essere presentato dai suoi, per quanto instancabili, predicatori, il partito democratico mi pare un’operazione vaga, poco convincente, nient'affatto mobilitante, inadeguatamente riformatrice.
Non posso neppure dire, come, non intendendo sfidare il politically correct (come potremmo non dirci tutti “democratici”?), fanno alcuni oppositori reali, che è un’operazione prematura. Se non comincia dal basso con un ampio non manipolato durissimo e non diplomatizzato dibattito di idee e fra persone, per quello che mi riguarda l'operazione «partito democratico» non è neppure cominciata. Rimane librata nel cielo delle ideologie da pensiero debole. Meglio così perchè, allo stato delle cose, partirebbe malissimo, fra opportunismi e conformismi. E, dopo l'eventuale vittoria elettorale, non ci sarà nè il tempo - bisognerà, giustamente, governare da subito- nè il modo di farla cominciare: per molti, infatti, saranno più che sufficienti le cariche ottenute...”

Michele Salvati non demorde e riprende il discorso costruttivo indicando l’ingrediente ideologico indispensabile sebbene lungamente indigesto tanto alla cultura cattolica tanto quella comunista (Repubblica del 5 febbraio 2006).

“PARTITO DEMOCRATICO È ora di sdoganare la parola «liberale»
A l dibattito sul Partito democratico nuoce un poco la commistione tra argomenti relativi a problemi di convenienza politica contingente e argomenti relativi alle idee, ai programmi, alla cultura che questo partito dovrebbe esprimere. Il primo tipo di argomenti è di solito riferito al centrosinistra e alle strategie più opportune per favorirne il successo elettorale. Il secondo tipo è quasi sempre declinato in riferimento al Paese: come il Partito democratico possa contribuire alla costruzione di un sistema politico più efficace, che elimini o riduca le storture che ci portiamo appresso dal passato, che immetta nella nostra politica una ventata di novità.
La commistione di argomenti è inevitabile. Come discussione politicamente significativa — c'era anche prima, ma riguardava solo pochi aficionados — quella sul Partito democratico nasce come conseguenza di una operazione politico-elettorale, e nell' ambito delle convenienze strategiche create dalla legge elettorale maggioritaria: la formazione della lista dell' Ulivo e la decisione di candidare Prodi come premier alle elezioni politiche del 1996. Si parte dunque dal «contenitore» e dalla convenienza a costruirlo. I «contenuti», l'anima, vengono dopo, un po' per la spinta di Prodi, un po' per la partecipazione degli aficionados di cui dicevo, e soprattutto per dare un senso all'alleanza tra i riformisti del centrosinistra. Riformisti che in larga misura provenivano da partiti che l'anima l'avevano lasciata nella Prima repubblica: quali erano, nella Seconda, le ragioni che giustificavano l'autonomia di un partito ex comunista ed ex democristiano?
Insomma, ragioni di contenitori e di contenuti si sono mischiate sin dall' inizio del dibattito, hanno continuato ad accavallarsi nelle sue numerose riprese provocate dalle iniziative di Romano Prodi, e si intersecano tuttora, nella discussione che si è accesa — solo tra gli aficionados, naturalmente, visto che Prodi non è intervenuto — a seguito di un mio lungo appello ai Ds che il Riformista ha pubblicato martedì scorso. Discussione di cui anche questo giornale ha dato notizia mercoledì e a cui ha contribuito con l'articolo di De Rita pubblicato ieri. Che cosa dicevo? Due cose, in sostanza.
Le ragioni di contenuto ci sono sempre: un Partito democratico non solo avvantaggerebbe il centrosinistra ma sarebbe utile per il Paese. Le ragioni di convenienza elettorale si sono invece molto ridotte colla nuova legge: se si vuol fare questo partito bisogna farlo presto, subito dopo le elezioni e finché dura la luna di miele della vittoria (se ci sarà), e bisogna accompagnare il tentativo con un ritorno al maggioritario. Le reazioni più impegnative e più argomentate che ho sinora ricevuto non riguardano il ragionamento sui contenitori: tutti riconoscono che le convenienze elettorali di una fusione tra i grandi partiti del centrosinistra sono diminuite e quelle dei singoli partiti, e della Margherita soprattutto, sono aumentate. Questo sposta la spinta per il Partito democratico tutta o quasi sui contenuti: esistono veramente buone ragioni storico-culturali per farlo? E, soprattutto, possono queste ragioni essere espresse e rappresentate da ex comunisti ed ex democristiani di sinistra, da Ds e Margherita, che dovrebbero essere i principali promotori dell' iniziativa?
Si tratta di interrogativi che lo stesso appello provocava sostenendo una tesi all'apparenza paradossale: che il terreno comune dell'incontro non poteva essere altro che una cultura liberale, di sinistra ma liberale, perché è ormai questa la cultura dominante dei partiti riformisti nei Paesi europei, anche dei partiti socialdemocratici. Il paradosso, mi faceva notare Biagio De Giovanni (ma anche, parlando di programmi concreti, Franco Debenedetti), sta nel fatto che nella Prima repubblica comunisti e democristiani sono stati tra i principali ostacoli alla diffusione di una cultura liberale nel nostro Paese e non si può dire che i loro successori abbiano fatto passi definitivi in questa direzione: «liberale» non è un insulto nella sinistra italiana come lo è in quella francese, ma talora poco ci manca. È una obiezione forte, lo riconosco, ma vale a maggior ragione se ex democristiani ed ex comunisti sono lasciati ognuno nel proprio contenitore, a cuocere nel proprio brodo: non potrebbe una fusione «calda», cui partecipassero molti enzimi della società civile, essere una buona occasione per sciogliere le resistenze che ancora rimangono?”
Ad allargare il contesto politico e ideologico ci pensa fortunatamente Paolo Franchi (Corriere 7/2/2006)
“La nostra storia I riformismi di Dc e Pci, sì Ma non sono i soli ingredienti del partito democratico
Non è vero che, nella storia dell’Italia repubblicana, il riformismo fu minoritario e visse una vita assai grama. O, quanto meno, non la pensa affatto così il presidente dell’Istituto Gramsci Giuseppe Vacca, che al «Riformismo italiano» ha dedicato un saggio serio, lucido e impegnato, da poco uscito per i tipi di Fazi. Secondo Vacca, infatti, la Prima Repubblica fu segnata, e in positivo, proprio da due grandi riformismi, il primo «di opposizione», rappresentato dal Pci, il secondo «dal governo», incarnato dalla Democrazia cristiana. Proprio per questo, sempre a giudizio di Vacca, «è essenziale che la classe dirigente, vecchia e nuova, dell’Ulivo conosca e interpreti in modo convergente (il corsivo è mio, ndr ) la storia della Dc e del Pci nella loro complementarità». Ed è essenziale pure che i Ds archivino l’infondata ambizione di costruire anche in Italia una forza socialista. Per uscire infine dalla loro storia, è con la storia del «riformismo dal governo» che debbono fare i conti. Ma questi conti potranno farli solo nell’Ulivo. Meglio: nel «secondo Ulivo» che va prendendo forma, e prima o poi (nelle speranze di Vacca, più prima che poi) si farà partito. Può darsi che la mia ricostruzione delle posizioni dell’intellettuale (e dirigente) diessino sia eccessivamente schematica e sommaria: se è così, me ne scuso. Di certo, però, questo è l’osso politico di un ragionamento che Vacca ha il merito di rendere esplicito nei suoi fondamenti teorici, storici e politici, ma che non è soltanto il suo. Si può condividerlo o no. Ma non se ne può prescindere. E soprattutto non ne può prescindere chi crede davvero alla prospettiva (politica, non storica, dice Francesco Rutelli) della nascita di una creatura che si pretende assolutamente inedita, e radicalmente innovativa, rispetto al Novecento italiano, come il Partito democratico. Le tradizioni politiche della Dc e del Pci non si lasciano liquidare da formulette da quattro soldi, e meritano un rispetto assai superiore a quello riservato loro in questi anni. E forse è un’esagerazione propagandistica sostenere (come hanno fatto, da ultimi, i radicalsocialisti della Rosa nel Pugno) che il costituendo partito rischia, prima ancora di nascere, di somigliare a un compromesso storico bonsai.
Però il dubbio rimane, e tesi come queste sostenute da Vacca lo alimentano ulteriormente. Proprio perché sono serie, argomentate, e sorrette da una visione della questione italiana che una sua solidità e (avrebbe detto Franco Rodano) una sua «verità interna» deve pure averla, se la caduta del Muro e la fine della guerra fredda non sono bastate a chiamarla in revoca, ma addirittura la rilanciano. Ha ragione, Vacca: non si può scrivere una storia del riformismo italiano che ignori, o peggio additi al pubblico ludibrio le storie della Dc e del Pci, anche e forse soprattutto per quanto ebbero di «complementare» lungo una stagione che di fatto assegnava alla prima il monopolio del governo, al secondo il monopolio dell’opposizione. Ma l’idea di ripartire di lì, diciassette anni dopo la fine della guerra fredda, mi sembra onestamente un po’ forte, così come un po’ forte mi pare la liquidazione, quasi si trattasse di un ferro vecchio e avvelenato, del riformismo laico e socialista. Capisco che pochi si entusiasmino alla prospettiva di dar vita a una cosa banale come una socialdemocrazia. Ma pure che il modo migliore per governare i tempi nuovi sia costruire una casa comune di (post)democristiani e (post)comunisti, con gli altri nella parte degli ospiti, fatico a pensarlo. Alfieri del Partito democratico, rifletteteci un po’ su.”
E al fine anche Massimo Salvadori (La Repubblica 14/2/2006) ci vuol fare pensarci bene prima di decidere.
“Il Partito Democratico alla prova delle elezioni
La campagna elettorale è stata aperta da Berlusconi con una tale scomposta violenza da dimostrare appieno quanto fondate fossero le ragioni di quanti avevano per tempo gettato l´allarme sull´emergenza democratica cui davano luogo gli atteggiamenti del presidente del Consiglio, dai quali ora parte dei suoi stessi alleati prendono le distanze per non esserne essi stessi travolti. Appare pertanto più che mai evidente a questo punto che spazzare via il suo governo è diventato un dovere nazionale, cui spetta al centrosinistra dare uno sbocco concreto convincendo la maggioranza del nostro popolo. Sennonché per convincere questa maggioranza occorre del pari persuadere che il centrosinistra sia in grado di dare soluzioni anzitutto a due questioni: l´elaborazione di un efficace programma e la costituzione di uno schieramento che nella diversità delle sue componenti sia nondimeno capace di offrire all´azione di governo un adeguato sostegno. Lo spettacolo offerto da Berlusconi rafforza il centrosinistra, ma non è di per sé un fattore sufficiente per assicurare il successo ai suoi oppositori, i quali per vincere devono "metterci del loro" dando prova di possedere quell´unità operativa di cui parlavo. E questo vuol dire anche dare risposte al problema del .
Si tratta di un nodo che ormai si trascina da tempo e agita il centrosinistra. Quasi ogni giorno emergono prese di posizione favorevoli o contrarie o variamente critiche. Quanto ai leader dei partiti dell´Ulivo, essi ne parlano continuamente, ma il messaggio che nell´insieme emerge è di mostrare persistenti divisioni e tensioni, una progettualità assai scarsa di indicazioni circa la metodologia con cui raggiungere lo scopo, i contenuti con cui riempire il contenitore, gli strumenti atti a mettere in moto il futuro partito. Insomma, vi è un palese scompenso tra la proclamazione insistita del fine e l´indicazione dei mezzi, del come e del quando. A tutti gli atti di accelerazione hanno corrisposto tirate di freni. Il principale risultato pratico – che, come ha notato Diamanti, rischia di sconcertare l´elettorato – è stato l´accordo Ds-Margherita di presentare alla Camera liste unitarie e al Senato liste divise, così abbinando l´impegno unitario al desiderio di mettere i necessari puntini sulle i ovvero di predisporre, a futura memoria, un misuratore dei rispettivi rapporti di forza. Bisogna domandarsi se, in relazione alla nascita di un nuovo partito, la fretta verbale, le accelerazioni cui fanno riscontro le frenate in un clima di scarsa chiarezza, i conseguenti compromessi non siano elementi che non giovano né ai suoi fautori né ai suoi oppositori e non abbiano il prevalente risultato di lasciare nell´aria – proprio nel corso di un´aspra battaglia elettorale nella quale sarebbe meglio presentare soluzioni convincenti – un grande interrogativo sul proprio incerto destino. Mi pare che saggezza e senso dell´opportunità vorrebbero che i leader politici "congelassero" la questione fino a dopo le elezioni.
Comunque sia, la questione del Partito democratico o riformista (denominazioni anch´esse incerte, a cui Fassino preferirebbe quella di Ulivo) è un nodo da sciogliere. Dopo le elezioni certo occorrerà farlo, ma, se non si vuole che la creatura non riesca un aborto, bisognerà in primo luogo non procedere, come è avvenuto finora (lo ha notato anche De Rita), mettendo tutto nelle mani dei vertici dei partiti, e attivare le dovute procedure democratiche; in secondo luogo approfondire adeguatamente quali significati e implicazioni possa assumere la confluenza dei diversi riformismi; in terzo luogo esplicitare – vera e propria cartina di tornasole del tutto – in quali modi si intenda affrontare le conseguenze della confluenza di questi diversi riformismi. Poiché è facile dire: ci sono diversi riformismi, facciamoli confluire insieme e perveniamo ad una nuova unità. Fatto è che nell´empireo le tendenze ideologiche e culturali possono bensì essere riconosciute come aventi tutte un´eguale dignità e pari diritti, ma i partiti operano sulla base di maggioranze e di minoranze, e in essi sono le prime ad assumere le maggiori quote di potere e la responsabilità della guida.
Orbene a me pare che sull´intero progetto di nuovo partito penda come una spada di Damocle una pregiudiziale ben presente a tutti ma mai resa esplicita per timore delle inevitabili reazioni: che la componente più forte (gli attuali Ds) dovrebbe dare per scontata la riduzione a residualità del suo legame con la socialdemocrazia e l´Internazionale socialista (eppure, se non erro, ancora recentemente Fassino ha dichiarato che i Ds costituiscono "la variante italiana dei partiti socialisti democratici europei") e che, per candidarsi non velleitariamente al governo, occorrono leader centristi di matrice democraticocristiana o quanto meno democratici di scuola americana. Può ben concedersi (in via ipotetica) che, come sembra ritenere Salvati, la socialdemocrazia sia un ferro vecchio (allora la via auspicata da Rutelli, disposto a concedere ai Ds il tempo necessario a maturare, e da Marini non incontrerebbe ostacoli). Ma – ecco la domanda – se (sempre in via ipotetica) così non fosse, se nel nuovo partito si desse prima o poi una maggioranza di ispirazione socialdemocratica, e se – come assai probabile – le questioni relative ai rapporti tra il magistero della Chiesa in materie cruciali acquistassero una importanza sempre maggiore acutizzando le tensioni, quali le implicazioni? Senza i dovuti chiarimenti su questi punti, il nuovo partito avrebbe basi deboli e precarie.
Chi scrive non è personalmente favorevole al progetto in particolare perché teme molto le conseguenze che avrebbero il venir meno di un partito autonomo della sinistra riformista e l´affidare a Bertinotti la rappresentanza maggioritaria della sinistra italiana dotata di una sua visibilità e pensa che il realismo vorrebbe che la confluenza tra i Ds e la Margherita assumesse quanto meno in un primo tempo le vesti di una Federazione di partiti. Se in ogni caso il partito unitario prenderà vita e se esso, secondo il principio democratico che chi ha più filo deve poter fare più tela, si basasse sul dichiarato impegno di non dar luogo ad una nuova conventio ad excludendum (certo non notarile, ma implicita e politica), questa volta nei confronti della socialdemocrazia, è da ritenersi che molte riserve e opposizioni verrebbero a cadere.”

Il dibattito potrebbe bene concludersi con questo resoconto fatto da Franco Vernice (Repubblica del 4 marzo 2006).
“IL CONVEGNO Seminario a Venezia con Amato, Rutelli e i consiglieri dei premier britannico e spagnolo
L´avanguardia dei Democratici studia le ricette Blair e Zapatero
La sfida chiave è rinnovare il welfare facendo ripartire lo sviluppo
VENEZIA - Si sono ritrovati in Laguna, al Magazzino del sale, per discutere a porte chiuse dei modelli sociali europei, di politiche famigliari, di natalità, sviluppo, difesa e rinnovamento del Welfare. Esponenti della Margherita, con in testa Francesco Rutelli, rappresentanti dei Ds come il sindaco di Torino Sergio Chiamparino, insieme a Tony Giddens, consigliere di Blair, e altri esperti internazionali per uno sguardo continentale alle tematiche dello Stato sociale care a tutti i partiti del centro sinistra d´Europa. Una giornata organizzata da Glocus e da Policy Network. Che ha visto alla presidenza Giuliano Amato, mentre le relazioni sono state tenute da Tiziano Treu, Enrico Letta e Nicola Rossi. Una carrellata di analisi sulle diverse esperienze, quelle scandinave, quella britannica, quelle mediterranee. Una giornata di studio ma anche l´occasione di dare nuovi colori alle bandiere della tradizione riformista per la campagna elettorale in corso ma forse anche nella chiave del possibile avvento del partito democratico prossimo venturo.
Un "pensatoio" con al centro un gigantesco, drammatico, interrogativo che provoca il mal di testa a tutti i partiti e i movimenti della sinistra italiana ed europea: cosa fare per salvare, rinnovandolo, un Welfare aggredito dalle difficoltà economiche in cui si dibatte un´Europa che cresce troppo poco e, in questo quadro, un´Italia che cresce ancor meno del resto del Vecchio Continente, quando non annaspa in prossimità dello sviluppo zero.
La risposta generale è stata di puntare sulla crescita. Una leva possibile, per Tiziano Treu e Enrico Letta, è quella dei cinque punti di taglio del cuneo fiscale, misura suggerita da Romano Prodi, e posta a far da cardine al programma economico dell´Unione (in pratica: ridurre il divario tra retribuzione lorda e netto in busta). Diversi però gli accenti fra italiani e ospiti europei sulla velocità da imprimere all´operazione. in particolare i britannici appaiono più portati a spingere sull´acceleratore e gli italiani più votati alla prudenza.
Giuliano Amato, dando il via al dibattito, ha concentrato il suo discorso su come conciliare competitività e Welfare in un continente dove i modelli sociali sono assai diversi da paese a paese. Letta ha posto sotto la lente i punti di debolezza del sistema economico italiano e le priorità per far ripartire un´economia strapazzata, indicando alcuni capisaldi, come innovazione, ricerca, liberalizzazioni, per ridisegnare il Welfare, riorientandolo verso le pari opportunità e l´occupazione femminile. Treu, pure lui ex ministro ulivista, ha citato l´esempio danese per l´infanzia, per la formazione, del mercato del lavoro per il rapporto fra tempi di lavoro e tempi famigliari. Nicola Rossi, diessino, già consigliere di D´Alema a Palazzo Chigi, ha dedicato la sua attenzione ai giovani.
Nella discussione sono poi intervenuti economisti come Maurizio Ferrara, David Marsden, della London school of Economics, Carlos Mulas Granados, consigliere di Zapatero, Tony Giddens, che è considerato il teorico della Terza via, Marisol Touraine, presidente di "A gauche en Europe", Tobias Duerr, direttore della rivista Berliner Republik, oltre che consigliere del nuovo presidente della Spd, Matthias Platzeck, Nicola Pasini, direttore del centro di formazione politica della Margherita, Matt Browne di Policy Network e il direttore del Riformista Antonio Polito, candidato al Senato per la Margherita. Le porte del seminario oggi si apriranno ma a Palazzo Ducale, per una discussione pubblica, coordinata da Polito, che vedrà sul palco Rutelli, il sindaco di Venezia Massimo Cacciari, Linda Lanzillotta, presidente di Glocus, di nuovo Giddens e il commissario europeo Peter Mandelson.”
Ecco dello stesso evento il reportage dell’inviato del Corriere Federico Fubini (4 marzo 2006) che riporto ad integrazione del precedente considerando l’importanza dell’evento.
“All'incontro Giddens e Lafond di Policy Network, il pensatoio del leader britannico
La Margherita corteggia i «blairiani»: i nostri 9 punti più chiari del programma
VENEZIA — «Se invece che le 284 pagine del programma del centrosinistra guardate i nove punti della Margherita, sarà tutto molto chiaro». Un po' sornione, Tiziano Treu elenca in un inglese impeccabile le sue priorità per rilanciare l'Italia. Attorno al tavolo lo seguono Tony Giddens e François Lafond di Policy Network, il pensatoio di Londra seguitissimo dal premier Tony Blair.
Con loro Francesco Rutelli ed Enrico Letta. Poco più in là Antonio Polito e Marisol Touraine, forse la socialista francese più vicina al leader dell'area «liberal» Dominique Strass Kahn, poi vari esponenti di rango delle socialdemocrazia tedesca e scandinava. Giuliano Amato, a fine giornata, ha appena lasciato la sala.
In realtà le parole di Treu rimbombano un po' nella penombra dei Magazzini del Sale, monumento a un'antica grandezza veneziana che per l'Economist è simbolo del declino italiano. Ma è solo per il richiamo del luogo che Glocus, il centro studi della Margherita guidato da Rutelli e Linda Lanzillotta, ha fissato qui il suo incontro con Policy Network. È infatti almeno la seconda volta di seguito che gli stessi intellettuali blairiani scendono in Italia a parlare di programmi del centrosinistra: a ottobre erano a Roma alla Fondazione Italianieuropei, diretta da Massimo D'Alema e Amato e considerata più vicina ai Ds. Allora c'era anche Fassino, però non Rutelli. «Un filo di competizione c'è sempre», ammetterà poi Treu al termine della giornata. Eppure qui dei Ds c'è il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, mentre l'economista Nicola Rossi ha dovuto rinunciare solo all'ultimo e ha mandato la sua relazione. E Linda Lanzillotta ci tiene a far risaltare non la concorrenza, bensì la collaborazione alla ricerca di una sponda europea per il futuro partito democratico. «Lavoriamo ai contenuti dell'area riformista», dice.
Rutelli parlerà oggi. Ma è già chiaro che applicare quei contenuti a un programma di governo non sarà una passeggiata. Lo fa capire Giddens, che avverte: «Non diamo alla globalizzazione la colpa di tutto: con il crollo delle nascite e lo squilibrio delle pensioni la Cina non c'entra nulla». Su un welfare più orientato a favore delle famiglia si sofferma anche Amato. E del tutto d'accordo è Enrico Letta, così convinto che sulle pensioni si debba fare di più da suggerire: «Aboliamo quelle dei parlamentari per rendere le nuove riforme digeribili ai cittadini». A monte c'è quello che Treu chiama con pertinenza l'«adeguamento del coefficiente di trasformazione» della riforma Dini. In pratica, significa che oggi si vive più a lungo e la vecchia riforma prevedrebbe il passaggio a un ritiro dal lavoro più tardi o una pensione ridotta. Chiamparino ci sta? «In una coalizione servono compromessi».”
”ROCCA DI MEZZO - Senza la Margherita non si vince la battaglia contro Berlusconi. «Non ce la può fare la sinistra da sola e neanche un sinistra-centro. E´ solo il centrosinistra la ricetta giusta». Francesco Rutelli chiude la Festa sulla neve del suo partito marcando il profilo riformista ma moderato della Margherita, copre stretto il fronte di centro dell´alleanza candidandosi a raccogliere come spiega lui stesso il consenso degli «incerti, dei delusi e degli arrabbiati» nelle file del centrodestra. Pianta paletti per tenere a distanza i programmi che Bertinotti accarezza. «Scempiaggini». Lo scandisce tre volte. Per sconfessare l´idea della «requisizione della terza casa», che secondo il Prc potrebbe essere affittata agli sfrattati. Per bocciare la patrimoniale. Per liquidare i Pacs e difendere la famiglia. «Voglio essere chiaro: finchè ci siamo noi, finche c´è l´Ulivo, finchè c´è Prodi queste scempiaggini hanno la possibilità di uscire sui giornali ma hanno la garanzia di non essere approvate in Parlamento».
Ma è anche il giorno della risposta a Fassino, che aveva accusato i dielle di scarso altruismo politico, «non è questione di generosità ma di lealtà e lungimiranza, doti mostrate sia da noi che dai Ds», ricordando peraltro al segretario della Quercia come nel 2001 la Margherita si ritrovò quasi agli stessi livelli dei Ds ma «non prendemmo la strada della competizione, piuttosto quella della collaborazione». Senza dimenticare anche il caso Unipol quando la Margherita «fece quadrato contro lo sciacallaggio di Berlusconi nei confronti della Quercia». Insomma, marciamo insieme verso il Partito democratico ma se qualcuno a sinistra pensa ancora ad annessioni, a ruoli subalterni degli alleati, se lo tolga dalla testa. Lo aveva anticipato anche Paolo Gentiloni, presidente della Vigilanza e braccio destro di Rutelli, spiegando che il cammino verso il Partito democratico, oltre che dal successo del centrosinistra e in particolare dell´Ulivo alla Camera, può essere accelerato da «rapporti equilibrati nei risultati al Senato fra Margherita e Ds, e non si tratta qui di ipotizzare sorpassi».
Rutelli assicura che al partito unitario intende arrivare in «tempi politici e non storici», e anticipa già il logo della futura forza: «Il simbolo è già scritto: Ulivo.
Anche il nome è già scritto: Partito democratico». Magari, non ne sarà felicissimo Fassino, che proprio qui in Abruzzo aveva lanciato l´idea di chiamare il tutto solo Ulivo. Ma al leader del Botteghino Rutelli riconosce «amicizia e collaborazione strategica», che ha spazzato via una tentazione indotta dal ritorno al proporzionale, una competizione fra i due partiti che «sarebbe stata devastante». Ora, avverte il presidente della Margherita, è Berlusconi che ci prova, con una strategia mirata: l´aggressione, la radicalizzazione punta ad accreditare l´idea di un solo nemico, la sinistra. «Il premier con la sua campagna elettorale cerca di estremizzare lo scontro. Ma è il centrosinistra, è Prodi, è la lista unitaria che possono battere Berlusconi, non la sinistra o un sinistra-centro».”
Peccato che dalle laconiche affermazioni sopra evidenziate riportate sembra che Rutelli sia ancora inchiodato al puro nominalismo avendo chiaro soltanto il nome e il simbolo , un po’ poco dopo 5 mesi di lungo e ponderoso dibattito, decisamente utile e sufficiente per mettere a fuoco in cosa realmente debba consistere il Partito Democratico Italiano della sinistra italiana.
Tuttavia non è proprio il caso di sottovalutare la portata di questo convegno che sarà certamente la base di partenza del dopo elezioni.

Nel momento in cui sembra che anche l’enturage di Rutelli, più che Rutelli stesso, cominci a delineare i contorni liberalsocialisti (revisione in senso liberale della socialdemocrazia) del nascente Partito Democratico, ecco a sinistra, Diliberto, ritornato intransigente comunista, il primo franco e diretto oppositore.

“Fermate il Partito Democratico Diliberto (Repubblica 5/3/2006

“ROMA - L´invito, rivolto ai Ds, è di quelli senza giri di parole: «Mettiamo fine alla stagione delle lacerazioni, abbandonate il progetto di partito democratico e ricreiamo l´unità della sinistra».
Un appello in piena regola, quello che Oliviero Diliberto ha lanciato alla Quercia, ma anche a Rifondazione comunista e Verdi dalla convention romana che ha segnato l´avvio della campagna elettorale dei Comunisti italiani.
…….
Sortita da campagna elettorale o invito sincero agli alleati, da Diliberto? «A noi non convince il partito democratico a cui stanno lavorando i Ds - è la premessa - e a loro diciamo: forse siamo più simili noi e voi, che voi con gli ex democristiani.
Alla Camera, questa volta, non ci sarà il simbolo della Quercia, il rischio è che in Italia sparisca la sinistra». E siccome il segretario vede i Ds «più simili» al suo partito di quanto non lo siano alla Margherita, allora chiede a Fassino e D´Alema: «Non varrebbe la pena riunificarci? Eravamo insieme nel Pci, dopo il ‘91 è nato il Pds, dopo è caduta la "P", ora cadrà anche la "S"». La soluzione suggerita dal leader del Pdci è quella di una federazione, in cui coinvolgere anche gli amici-nemici di Rifondazione («Superate la logica di nicchia, noi non proviamo alcun fastidio») e ai Verdi coi quali i Comunisti italiani si sono apparentati al Senato.
…… Anche il "correntone" lascia cadere il richiamo di Diliberto. Mussi: discutiamo dopo il 9 aprile
Il no di Quercia e Margherita "Nostalgie, il tempo è scaduto"
Franceschini: sono gli effetti collaterali del proporzionale, bisogna farsi sentire e vedere.
D´Alema: se parliamo di paure, mi sembrano più fondate quelle di cui ha parlato De Mita.”

Non c’è dubbio che i DS siano seriamente intenzionati ad andare avanti nella costituzione del Partito Democratico e ci sono segnali da parte della Margherita che lasciano la porta aperta.
Ma l’attuale situazione non consente facili ottimisti per la costituzione del Partito Democratico tra le due sole forze politiche Margherita e DS.

Certamente al modello socialdemocratico revisionato in senso liberale secondo Giddens si opporranno strenuamente oltre che i comunisti anche i cattolici dell’UDC e dell’UDEUR.
Se ne potrà parlare con quelli di DL-La Margherita ma solo dopo le elezioni se non sarà per loro possibile realizzare il progetto nuova DC. In questo beneaugurato caso il convegno di Venezia verrà prontamente rianimato e riabilitato. Ma, come ha detto sagacemente Larizza, a un convegno (gli altri relatori Benvenuti, Intini e Salvati) sul Partito Democratico (sabato 14 marzo 2006 a Milano), che si potrà far nascere – o mai più - entro i primi 7 mesi dal dopo elezioni.

Partito Democratico che non potrà nascere solo se improntato di senso laico, liberalsocialista e ecologista, da costruire mediante percorso partecipato da tutte le componenti dell’Unione disponibili a confluirvi.
Infatti, una notevole messe di indicazioni sopra riportate vanno nella direzione di un modello di Partito Democratico che non può altrimenti che essere centrato sulla socialdemocrazia europea riformata in senso liberale, mantenimento del bilanciamento dei poteri, allargamento dei gradi di libertà del cittadino e governance su finanza, impresa e commercio mondiale.




Partito democratico che non può essere altrimenti collocato nel gruppo europeo del partito socialista a meno che non riesca l’impossibile miracolo laico a Pannella (Corriere 8/3/2006), quello di mettere insieme l’Internazionale socialista e quella liberale.

Queste le significative battute di Pannella in coda al dibattito segnalate dalla Stampa (ANSA 21 marzo 2006).

lo ha detto, in serata, a Trieste, Marco Pannella, a margine di un incontro della Rosa del pugno, parlando con i giornalisti a proposito dell' intenzione di Rutelli di impegnarsi dopo le elezioni per la costruzione del Partito Democratico.
.”

Forse l'articolo di Michle Salvati apparso sul Corriere del 4 aprile 2006, dal titolo VELTRONI E RUTELLI
LO STRAPPO DEMOCRATICOin un momento di stanca del dibattito non aggiunge nulla di nuovo, semmai con la sua tavolozza dei valori "liberali, democratici, socialisti, solidaristici" indica chiaramente il collante ideologico del Partito democratico. Niente male come paletti identitari. Mi pare tuttavia che ci si possano aggiungere altri due valori a cotal tavolozza, il primo pre moderno quello di LAICITA' e il secondo quello post moderno dell' ECOLOGIA.

"Leggo sui giornali di domenica scorsa che Rutelli e Veltroni intendono accelerare il processo di costruzione del Partito Democratico — un partito che quanto meno assorba i Ds e la Margherita — facendolo partire subito dopo le elezioni.
PARTITO DEMOCRATICO
La tavola dei valori per un Paese civile
Vedremo se questo proposito resisterà ai risultati elettorali: anzitutto alla vittoria o sconfitta del centrosinistra; secondariamente ai «pesi» che i due partiti avranno ottenuto. Non è mistero per nessuno che un ottimo risultato per i Ds e buono per i partiti della sinistra più radicale, accoppiato ad uno pessimo per Margherita, potrebbero frustrare i propositi anche dei sostenitori più convinti e aprire la strada ad altri progetti politici. Ma facciamo l'ipotesi più favorevole, che ci sia una vittoria del centrosinistra, che i partiti più radicali restino fermi e che Margherita mantenga o accorci le distanze con i Ds.
In questo caso, quali sono i principali problemi che un processo di rapida costruzione del Partito Democratico deve affrontare? Semplificando molto, ne vedo due di natura politico-culturale e uno di natura organizzativa.
Lascio da parte quest'ultimo, pur importantissimo — la forma del nuovo partito, il suo statuto, i passaggi del processo costituente — per concentrarmi ora sui primi due.

Il primo problema è quello di cui si è maggiormente discusso in queste settimane di campagna elettorale, ma che da sempre è avanzato come obiezione di fondo alla costruzione del Partito Democratico: il contrasto delle tradizioni politico-culturali che dovrebbero confluire nel nuovo partito.
Esso si è esacerbato in conseguenza della scelta dello Sdi di abbandonare un progetto di cui era forse il principale sostenitore e presentarsi con i radicali nella «Rosa nel pugno». Questo ha aperto (naturalmente c'erano buoni motivi: il referendum sulla procreazione assistita, l'attivismo delle gerarchie ecclesiastiche, l'atteggiamento cauto — diciamo così — di Margherita) un fronte di conflitto prima latente tra «laici» e «cattolici», che si aggiunge ai fronti da tempo aperti tra estremisti e moderati sulle politiche economico-sociali e sulle questioni internazionali. Si tratta di un problema serio per i ceti politici del centrosinistra, ma non insuperabile: esso viene da lontano, da una storia che ha impedito sinora la costruzione di un grande partito riformista, e leader politici degni di questo nome dovrebbero capire che si tratta di storia passata, che dice assai poco all'Italia di oggi.
Il problema vero riguarda il futuro: qual è il compito storico del Partito Democratico? Qual è il suo soffio vitale, la sua anima, il messaggio profondo che manda agli italiani?
È su questo secondo problema che Rutelli, Veltroni, Fassino e tutti quelli che credono nel Partito Democratico dovrebbero impegnarsi. Il compito storico del partito — a me sembra — è quello di contribuire a fare dell'Italia un Paese civile: un Paese in cui il buon funzionamento del mercato, la concorrenza, l'efficienza dei servizi pubblici, la lotta alle rendite e all' abuso di posizioni dominanti, il contrasto dell'illegalità, siano obiettivi condivisi dal più gran numero di cittadini e in primis dalla sinistra riformista. In cui tutti accettino che non ci sono diritti senza doveri. In cui il merito va premiato, ma i «capaci e i meritevoli» vanno anche attivamente cercati e aiutati in tutti i ceti sociali.
In cui l'istruzione è un obiettivo perseguito ossessivamente dal governo, nella convinzione che si tratti della base più solida per una crescita futura.
In cui l'inclusione dei cittadini nel lavoro, nella scuola, nei processi democratici avviene favorendo la crescita e non distribuendo briciole grattate via da una torta che non cresce.
La smetto subito di esercitarmi in un pezzo di prosa della quale Eugenio Scalfari ci dà buoni esempi ogni domenica.
Quella cui ho appena accennato è una tipica tavola di valori liberali, democratici, socialisti, solidaristici, molto simile alle piattaforme della Terza via di Tony Blair o del Nuovo centro di Schröder. Una piattaforma che, nel nostro Paese, ha in passato attratto minoranze esigue di cittadini. D'altra parte, se il Partito Democratico non si dà questa tavola di valori, quale altra può darsi? È per questo che il compito politico-culturale primario dei leader che credono nel progetto non è perdersi in polemiche di retroguardia, ma «tradurre in italiano» quella tavola di valori, far diventare il «Paese civile» non solo l'aspirazione di minoranze intellettuali ma il sogno comune di un gran numero di italiani.

La conclusione del dibattito con queste significative estrapolazioni dell’ articolo apparso sul Corriere a firma di Maria Teresa Meli dal titolo

“Partito democratico, il traguardo dimenticato dai leader dell’Unione.”

Sottotitolo

“Lite per la supremazia DS-Margherita: Lernere: non sono pronti.
E la Bonino avvisa: senza radicali e liberl-socialisti non si fa.”

Due opposte opinioni da segnalare

La prima di Prodi

“IL RILANCIO Prodi: l’Italia ha bisogno di un grande partito democratico che leghi intorno a sé tutto il riformismo del nostro paese.”

Esortazione generica e poco rassicurante ripensando a quel “che leghi intorno a sé”, molto meglio sarebbe stato avesse detto se legasse all’interno di sé “utto il riformismo del nostro paese”.

La seconda di De Giovanni e Pellicani.

“MONDOOPERAIO Un saggio di De Giovanni e Pellicani sulla risvista definisce

Arrivati a questo punto del dibattito non possiamo fare altro che riprendere il discorso alla luce illuminante dei risultati elettorali del 9 e 10 aprile 2006.

FINE DELLA PRIMA PARTE














Bibliografia

Giddens A., La terza via: il rinnovamento della socialdemocrazia (1998)
Giddens A., La terza via e i suoi critici (2000)
Sylos Labini P., Sottosviluppo Editori Laterza 2000
Sylos Labini P. – Roncaglia A., Per la ripresa del riformismo Nuova edizione Editoriale (L’Unità) Milano 2000
Ruffolo G. Lo specchio del diavolo – Einaudi 2005

Elenco argomenti

Socio fondatore del Gruppo di Volpedo e del Network per il socialismo europeo .