Introduzione
È per me un onore straordinario quello che mi viene oggi tributato in questa Università. Di cuore ringrazio l'Università di Genova e in particolare naturalmente la Facoltà di Lettere e Filosofia, per la grande gioia che mi procurano conferendomi la laurea honoris causa in Filosofia. Avete inaspettatamente esaudito nella mia età avanzata un sogno della mia giovinezza. Ormai cinque decenni fa, infatti, avevo l'intenzione di coronare la mia licenza in Filosofia, conseguita alla Gregoriana di Roma, con un dottorato in Lettere alla Sorbona e a Parigi avevo già ottenuto il necessario riconoscimento dell'equipollenza del mio titolo romano. Avevo poi anche scritto la dissertazione sul pensiero filosofico di Hegel, prevista per questo dottorato, ma la chiamata presso un'università tedesca mi fece apparire superfluo continuare l'iter del dottorato a Parigi.
E così, miei cari colleghi, mi donate ora, sola gratia, quello che io non ho conseguito operibus meis. La mia gratiarum actio può consistere soltanto in parole e in un piccolo segno: vorrei infatti dedicare alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Genova il mio prossimo opuscolo filosofico-teologico, che spero di pubblicare tra un anno circa, e che toccherà questioni fondamentali della scienza naturale riguardanti il cosmo e l'uomo. Sono fiero di essere dottore ad honorem proprio di questa Università. Ad essa infatti io sono legato già da molti decenni, soprattutto attraverso la persona del grande maestro di filosofia Alberto Caracciolo e quella del suo eminente scolaro, il professor Giovanni Moretto, mio traduttore e mio amico; ma anche attraverso alcuni altri suoi allievi. Non ho dimenticato che qui, due anni fa, sotto la direzione del professor Gerardo Cunico, ha avuto luogo un convegno internazionale dedicato al problema e al progetto che è stato per me la sfida scientifica centrale degli ultimi anni: l'ethos mondiale nell'epoca della globalizzazione. Proprio le religioni mondiali, infatti, sono diventate in modo nuovo un fattore rilevante della politica mondiale.
E così per la mia lectio doctoralis ho scelto un tema che dovrebbe riscuotere interesse particolare proprio a Genova, la città mercantile e portuale che ha una posizione centrale nel Mediterraneo, con i suoi collegamenti con l'Africa settentrionale e col Medio Oriente. Il rapporto della città con l'Islam è stato a lungo comprensibilmente assai teso. Nel decimo secolo Genova dovette notoriamente subire più volte le scorrerie saracene. Nel 936 fu addirittura saccheggiata. Nell'alto Medio Evo il mondo islamico era all'offensiva sotto diversi profili: militare, economico e culturale. Ma già l'undicesimo e dodicesimo secolo portarono per Genova una svolta, quando i commercianti e gli artigiani, in concorrenza col governo cittadino del vescovo, si unirono in "compagne", associazioni militari e mercantili, fondamentali per la crescita fenomenale della città e della sua espansione nel Mediterraneo con i suoi insediamenti in Siria, Palestina, Egitto e Africa settentrionale.
Nell'Islam, invece, che continuava a espandersi militarmente soprattutto nei Balcani, a lungo non si notò che in quello stesso tempo era cominciato il declino della potenza mondiale musulmana. Più importante del 1453, data della conquista di Costantinopoli, sarà alla lunga anche per l'Islam il 1492 ,la data legata ormai indissolubilmente al nome del genovese Cristoforo Colombo. 1492 :da una parte, in Spagna, conclusione della reconquista cristiana con la presa della musulmana Granada, accompagnata dalla spietata cacciata di tutti i musulmani e di tutti gli ebrei che non avevano voluto convertirsi; dall'altra parte appunto la cosiddetta "scoperta dell'America".
Quali le conseguenze per i regni islamici? Essi fino ad allora detenevano una posizione di forza nel continente europeo, in Spagna e nei Balcani, e dominavano il commercio marittimo nel Mediterraneo come nell'Oceano Indiano, fino a Giava. Continueranno certo ad espandersi militarmente e anche a fiorire culturalmente ancora nel sedicesimo secolo, ma nel giro di pochi decenni, senza sulle prime neppure accorgersene, verranno sorpassati dalle potenze europee in campo scientifico-tecnico ed economico-culturale. Nel diciannovesimo secolo, nel corso del colonialismo europeo, il declino è ormai compiuto; alla fine del ventesimo e all'inizio del ventunesimo questo declino non è ancora superato.
La questione urgente della politica mondiale è dunque questa: come è potuto accadere che la cultura islamica, per tanti secoli superiore alla cultura cristiano-occidentale, sia rimasta tanto arretrata? Quando è iniziata la stagnazione del mondo islamico? Cercherò di affrontare tale questione in sei punti, che sono connessi in modo essenziale con la filosofia.
1. Che cosa è andato storto?
A partire dagli anni sessanta il mondo islamico è stato sorpassato da tutte le regioni in via di sviluppo, eccetto l'Africa sub-sahariana. All'inizio del ventunesimo secolo l'arretratezza del mondo arabo nella gara internazionale dello sviluppo è stata ormai constatata anche da molti arabi: secondo lo "Arab Human Development Report" [Rapporto arabo sullo sviluppo umano] presentato alle Nazioni Unite nel 2002, elaborato da eminenti studiosi e politici arabi, il gruppo dei ventidue stati arabi - nonostante grandi progressi nel campo educativo e sanitario - figura alla fine della statistica mondiale (persino dietro a molti stati africani): negazione di diritti civili e libertà economiche, deficit negli ambiti della formazione e della ricerca e nella conversione produttiva del sapere, scarsa partecipazione delle donne alla responsabilità pubblica e all'attività produttiva (il cinquanta per cento delle donne sono analfabete). Nonostante la ricchezza derivante dal petrolio, il valore prodotto da tutti i paesi arabi messi insieme (530 [cinquecentotrenta] miliardi di dollari nel 1999 non è più grande di quello di un unico paese europeo come la Spagna. Mentre nel 1960 il reddito pro capite dei paesi arabi era a un livello analogo a quello di altre regioni in via di sviluppo, da allora si è aperto un forte divario, soprattutto rispetto ai paesi dell'Asia orientale e sud-orientale.
Di fronte a tali fatti, le "teorie della congiura", che vanno in cerca di cause esterne, sono certo comode ed emotivamente soddisfacenti per le persone coinvolte, ma nel migliore dei casi non fanno che aiutare quei regimi musulmani autoritari che in tal modo tentano di occultare le repressioni e i fallimenti economici, politici e sociali all'interno dei loro paesi. È poco utile cercare, come in una sorta di blame game [caccia al colpevole], sempre nuovi capri espiatori (crociati, mongoli, spagnoli, francesi, inglesi, americani), che dovrebbero giustificare il fatto che questa civiltà, che per tanto tempo è stata la più forte, la più ricca e la più culturalmente progredita del mondo, nel corso dei secoli si sia ridotta ad essere, nell'insieme, una civiltà politicamente debole, economicamente povera e culturalmente stagnante sotto molti profili. Fortunatamente, dopo l'11 [l'undici] settembre 2001, ci sono sempre più musulmani che riflettono seriamente e che, di fronte ai risultati deludenti dello sviluppo del mondo islamico, sostengono che si deve capovolgere l'impostazione della domanda formulata dall'islamologo britannico Bernard Lewis, professore all'Università di Princeton, sotto il titolo What went wrong? [Che cosa è andato storto?]. Non si deve più domandare autocompassionevolmente: "Chi ci ha fatto tutto questo?". Bensì autocriticamente: "Che cosa abbiamo fatto di sbagliato?". Per poter proprio così domandare costruttivamente: "Come possiamo fare le cose giuste?"
Senza potermi qui addentrare nell'argomentazione di Lewis: nonostante obiezioni giustificate, molti dei suoi argomenti mi sembrano meritevoli di considerazione. Tuttavia si devono operare due mosse correttive rispetto a Lewis:
- L'arretratezza dell'Islam non deve essere spiegata superficialmente solo con fattori militari, economici e politici, ma chiama in causa anche la dimensione di profondità culturale e intellettuale, quale si esprime nella filosofia, nella teologia, nel diritto e nella mistica; l'aspirazione alla vittoria militare, al benessere economico e alla libertà politica è accompagnata infatti dall'aspirazione a conoscere, a sapere, a comprendere; idee nuove e innovazioni tecniche possono affermarsi solo in una cultura ricca di curiosità intellettuale.
- L'arretratezza dell'Islam non inizia solo con l'epoca moderna dell'Europa, ma già nel dodicesimo secolo: quando ha preso congedo dalla filosofia e quindi dall'autonomia della scienza profana.
2. Congedo dalla filosofia arabo-islamica
La tradizione filosofica occidentale in Marocco e in Spagna costituisce di fatto la fase finale della filosofia arabo-islamica. Per gli spiriti critici fu indubbiamente un segnale di svolta quando, verso la fine di quel secolo, nel 1195 il filosofo più importante della Spagna, Ab¨ ‘l-Wal⁄d Muªammad Ibn Ruƒd, latinizzato come Averroes [Averroè], venne lasciato cadere in disgrazia dal califfo almohade, che pure personalmente era ben disposto verso di lui.
Già a ventisette anni Ibn Ruƒd aveva composto, su desiderio del primo califfo almohade, nella città marocchina di Marrakesh in cui questi risiedeva, i primi commentari al corpus aristotelicum; divenuto poi giudice a Siviglia e Cordova, scrisse altri commentari e trattati medici. Ibn Ruƒd divenne così il principale commentatore di Aristotele, che non voleva interpretare il grande filosofo greco alla maniera neoplatonica, come i suoi predecessori, ma secondo il suo senso autentico, agevolando così l'imporsi del "vero" Aristotele presso gli arabi. Anziché semplici parafrasi, come Ibn S⁄nå, egli offre commentari estremamente precisi dei compatti testi aristotelici, frase per frase, parola per parola, argomentando in modo giuridicamente nitido come un giudice. Nessuno, fino ad allora, era riuscito a spiegare con tale chiarezza le difficili dottrine aristoteliche dei principi delle cose: materia e forma, potenza e atto, ossia possibilità e realtà. Anch'egli però, consapevolmente o inconsapevolmente, prende in prestito molte nozioni dal neoplatonismo: non solo assume una causa prima dell'universo, ma anche un unico intelletto attivo, al quale partecipano tutti gli uomini.
A Cordova Ibn Ruƒd gode per qualche tempo di grande considerazione come giudice. Ma sono i suoi scritti filosofici, specialmente la sua risposta alla Confutazione dei filosofi (tahåfut al-falåsifa) di al-˛azzål [Al-Gazzali] col libello irridente Confutazione della confutazione (tahåfut al-tahåfut, tradotto in latino come destructio destructionis), ad attirare su di lui l'ostilità dei giuristi religiosi. Secondo costoro la logica e la filosofia minerebbero l'autorità della rivelazione e dei suoi interpreti; fomenterebbero disordini e minaccerebbero la coesione dei credenti; condurrebbero a confusione e ipocrisia nelle questioni religiose. In realtà, di fronte alla scepsi fideisticamente motivata del teologo al-˛azzål [Al-Gazzali], il quale ad esempio negava l'applicabilità del principio di causalità in ambito metafisico, il filosofo voleva soltanto sottolineare il ruolo della ragione, non da ultimo notando che anche la polemica contro la ragione presuppone un uso della ragione.
Ibn Ruƒd separa rivelazione e filosofia, per eliminare così le contraddizioni tra l'una e l'altra. A torto, dunque, gli si attribuisce la tesi di una "doppia verità", come se secondo lui la verità della rivelazione e la verità della ragione fossero in contraddizione fra loro. Per lui, invece, verità di fede e verità di ragione - pur giungendo talvolta a enunciazioni antitetiche - sono in linea di principio una stessa e unica verità.
È incontestabile che Ibn Ruƒd voglia tener fermo al primato della ragione autonoma. Egli intende fornire una comprensione perfettamente strutturata del mondo in modo scientificamente coerente, basandosi sui principi aristotelici. Ma allo stesso tempo non si può mettere in dubbio la valutazione offerta dal suo biografo moderno Badawi:
"Egli credeva fermamente in Dio, al suo profeta Muªammad, al carattere miracoloso del Corano, e nessun testo di Ibn Ruƒd è interpretabile in senso contrario; e questo è l'essenziale; tutti gli altri punti - l'eternità del mondo, il sapere divino non abbracciante i dettagli, la provvidenza divina limitata ai principi generali - sono questioni passibili di discussione, che non nuocciono al fondamento della fede, e al-˛azzål [Al-Gazzali] ha torto a considerarli tali da comportare necessariamente la qualifica di miscredenza".
Seguono poi anni di polemica e di lotta contro Ibn Ruƒd. Alla fine il califfo cede agli ortodossi fanatici, perché ha bisogno del loro sostegno nella guerra contro i reconquistadores cattolici in avanzata; questi avevano riconquistato Toledo già nel 1085 ,Saragozza nel 1115 .Si arriva così infine nel 1195 alla messa al bando di Ibn Ruƒd, confinato dapprima nella città ebraica di Lucena, priva di ogni biblioteca, distante circa settanta chilometri da Cordova, due anni dopo nella seconda capitale del califfato, a Marrakesh, dove il filosofo viene finalmente riabilitato. Egli muore poco dopo, nel dicembre 1198 ,all'età di settantadue anni. I suoi resti mortali vengono trasferiti a Cordova. Non lascia scolari.
L'opera di Ibn Ruƒd costituisce di fatto la conclusione della filosofia arabo-islamica, che dal nono al dodicesimo secolo aveva prodotto opere tanto significative molto tempo prima della scolastica cristiana. Naturalmente si è continuato a praticare la filosofia anche dopo Averroè, soprattutto seguendo l'insegnamento di Avicenna. E senza dubbio lo storico può indicare tutta una serie di nomi e di opere anche per i secoli successivi. Tuttavia come filosofi di rilievo storico rimangono di fatto solo Avicenna e Averroè. I successori di questi grandi filosofi non hanno esercitato alcun influsso degno di nota sullo sviluppo complessivo dell'Islam. Anche la riviviscenza della filosofia islamica (studiata intensamente da Henry Corbin) nell'Iran del diciassettesimo secolo - dopo un periodo di stagnazione e di diffusione del sufismo -, inaugurata da Mir Damad e culminante in Mollah Sadra Shirazi, rimane essenzialmente limitata nelle sue ripercussioni all'area sciita, per quanto possa essere importante in se stessa. Questi filosofi rimangono praticamente sconosciuti, non solo nel mondo cristiano-occidentale, ma anche nel resto del mondo islamico.
Di fronte all'Islam della sharia e all'Islam dei sufi la filosofia arabo-islamica non ha avuto alcuna possibilità di svilupparsi e incidere ulteriormente. Non giunse ad avere validità normativamente accettata e non riuscì a sviluppare strutture e istituzioni dominanti e durevoli, per esempio nel contesto dell'università. La filosofia arabo-islamica ha una grande storia, ma non "fa" storia nell'Islam. Essendo stata sentita ben presto come un corpo estraneo tanto dai dotti religiosi quanto dai sufi, essa ha potuto avere un influsso temporalmente e sostanzialmente limitato per lo sviluppo dell'Islam.
Forzando un poco i termini si può concludere: di fatto già nel dodicesimo secolo si giunge a prendere congedo dalla filosofia arabo-islamica, e questo, come solo molto più tardi si potrà vedere, è un evento fatale per lo sviluppo intellettuale dell'Islam.
3. Inizio della filosofia medioevale cristiana
Già pochi decenni dopo la morte di Ibn Ruƒd, traduttori e scuole di traduttori (una grande scuola sorge nella Toledo adesso di nuovo cattolica) rendono accessibili alla cristianità latina i suoi commentari delle principali opere aristoteliche. Il tredicesimo secolo apparterrà filosoficamente alla scolastica cristiana! Anche se Averroè non ha fatto scuola nell'Islam, tanto più ha fatto scuola nella cristianità. Un segno di questo è che i suoi scritti sono stati conservati soprattutto in traduzione latina (oltre che ebraica). Infatti, anche se per la filosofia arabo-islamica rappresenta un punto conclusivo, egli costituisce però un punto di inizio per la filosofia medioevale cristiana.
L'orientalista francese Ernest Renan (1831-1892), nella sua pionieristica opera giovanile Averroès et l'averroïsme (1852), che per prima ha dimostrato l'enorme influsso di Averroè sulla filosofia ebraica (soprattutto Maimonide) e sulla scolastica, crede di poter constatare tracce di averroismo già nella prima metà del tredicesimo secolo. Ricerche più recenti hanno stabilito che nell'Occidente latino Averroè era sconosciuto prima del 1230 e che solo intorno a quell'anno venne tradotto per la prima volta nella cerchia della corte imperiale siciliana; in seguito vennero eseguite molte altre traduzioni nell'ambito dell'Università di Parigi, che era allora il centro erudito della cristianità. A partire dalla metà del secolo è presumibile che tutti gli scolastici abbiano avuto a disposizione l'insieme dei suoi commentari aristotelici.
Proprio questa filosofia occidentale, stimolata soprattutto dalla massa delle traduzioni di Aristotele e dei commentari arabi, e praticata proprio da teologi, ma praticabile anche indipendentemente dalla teologia, è responsabile di quella nascita dell'intellettuale alla quale lo storico francese Le Goff ha dedicato un libro pregevole e intelligente. La comparsa di questo nuovo tipo socio-professionale nelle rinascenti città del dodicesimo e tredicesimo secolo è per lui un momento decisivo nella storia dell'Occidente. Si tratta del nuovo ceto dei professori universitari, che svolge "il suo nuovo lavoro intellettuale come correlazione di ricerca e insegnamento nello spazio cittadino e non più nello spazio conventuale". È proprio a confronto con la filosofia degli "arabi" che i magistri delle università fecero l'esperienza di un pensiero autonomo.
Così la cristianità eredita la filosofia araba dell'Islam. Nessun filosofo arabo ha stimolato quanto Averroè la discussione degli scolastici: per esempio sull'eternità del mondo, sull'intelletto attivo e sul rapporto di ragione e fede. Il suo significato preminente è mostrato dal fatto che, all'incirca dal 1250 ,egli viene citato, senza essere chiamato per nome, semplicemente come "il commentatore" di Aristotele. Gli scolastici utilizzano dovunque i suoi commentari, per comprendere i difficili e compatti testi aristotelici con l'aiuto delle sue spiegazioni precise ed esaurienti; fino al ventesimo secolo, nelle edizioni delle opere della scolastica Aristotele viene citato secondo le suddivisioni di Averroè.
Mentre Alberto Magno parafrasa soprattutto Avicenna, Tommaso d'Aquino è il primo grande scolaro e insieme il più importante avversario di Averroè. Egli utilizza largamente i suoi commentari di Aristotele e al contempo si distacca nettamente dalle sue dottrine non ortodosse, analogamente a quanto aveva fatto un secolo prima al-˛azzål [Al-Gazzali]: per esempio dall'idea aristotelica di una materia eterna, nonché dalla concezione neoplatonica, ripresa da al-Fåråb⁄ [Al-Farabi] e da Avicenna, di un unico intelletto attivo universale (il nous divino) che mette in attività l'intelletto passivo dell'uomo, fino a quando con la morte si distacca nuovamente dall'anima individuale, la quale non può quindi essere considerata immortale.
Alain de Libera ha elaborato la tesi secondo cui, accanto all'intellettuale "organico" inserito nell'università, viene sempre più sviluppandosi anche l'"intellettuale critico", non disposto a vincolarsi fin dal principio all'università, alla chiesa o allo stato. Contemporaneamente de Libera spezza una lancia per i teologi: "Se per 'filosofia' si intende la prassi dell'argomentazione, allora alla fine dei conti i teologi medioevali hanno filosofato tanto quanto i filosofi 'di professione', se non di più. È oggi una verità evidente che la filosofia analitica sia sorta nel Medio Evo, e precisamente fra i teologi". Questo autore avanza una tesi che vale per i teologi come per i filosofi: "L'università medioevale è il luogo della ragione". Il "predominio della disputatio" è, a suo avviso, "l'elemento unificante di tutte le impostazioni filosofiche del Medio Evo"; "la legge della discussione vale per tutti". Il gusto della discussione intellettuale si viene poi allargando ad ampi strati della popolazione.
4. Non Rinascimento, ma continuazione del Medio Evo
Allora naturalmente nessuno poteva immaginare quali conseguenze doveva avere per la storia universale il fatto che già nel basso Medio Evo l'Islam, fino a quel momento tanto progredito, abbia mancato l'aggancio culturale all'umanismo europeo. Già nel tredicesimo e quattordicesimo secolo, e ancor più nel Rinascimento europeo, l'individuo riconosce, rispecchiandosi nell'antichità, il proprio valore autonomo come personalità terrena e storica. Già qui compare un'umanità libera e autonomamente responsabile. Quello che nel basso Medio Evo era iniziato con la "nascita dell'intellettuale", trova un ampliamento nell'Umanesimo con la scoperta dell'uomo naturale e del libero cittadino. Già qui si manifestano dovunque un nuovo spirito di inventiva tecnica e un'aspirazione al benessere materiale, che sono la base per lo sviluppo del commercio e dell'industria (che diventano ora le fonti principali di ricchezza al posto dell'agricoltura), e che danno occasione a nuove forme di investimenti e di istituzioni bancarie. Nella "casa dell'Islam", invece, dall'Anatolia fino all'India, anziché alla nuova immagine europea dell'uomo e del mondo si è interessati soprattutto alle nuove armi inventate in Europa.
Nei secoli successivi l'Islam rimane, intellettualmente, nel paradigma medioevale degli ulama e dei sufi (P IV). Le sue élites e i suoi esponenti si accorgono troppo tardi che in Europa si annuncia un cambiamento di paradigma epocale, che alla lunga costringerà sempre più alla difensiva l'area culturale improntata all'Islam. Già nel dodicesimo e tredicesimo secolo, quando nella teologia aveva cominciato a giocare un ruolo del tutto nuovo il "lume" della ragione, erano stati piantati i semi dell'Illuminismo che poterono svilupparsi nell'area culturale cristiana, mentre contemporaneamente venivano soffocati nell'Islam. A dare il tono intellettuale nel mondo islamico non sono più pensatori indipendenti come al-Fåråb⁄, Ibn S⁄nå, Ibn Ruƒd e Ibn Îald¨n. Una visione più razionale del mondo non riesce ad affermarsi. Dominano il campo i tradizionalisti, rigidamente legati al Corano e alla Sunna. E poiché, nonostante i buoni punti di partenza, sotto la dominazione musulmana non possono esserci pensatori indipendenti nel campo della filosofia, della concezione dello stato e infine anche della scienza naturale, perciò non vi sarà neppure un Rinascimento, una Riforma, un Illuminismo.
Già allora nell'Islam venne resa impossibile una nuova libertà di pensiero e di azione, una creatività del produrre e del vivere; già allora venne frenata la dinamica della cultura, della scienza e della tecnica islamica; già allora venne impedita e ritardata di molti secoli la "nascita dell'intellettuale".
Non sono state dunque, come molti musulmani hanno a lungo ritenuto, soltanto forze esterne (crociate, invasioni mongoliche, colonialismo) a provocare il declino dell'Islam nel basso Medio Evo e nei secoli successivi. È stato essenzialmente un inaridimento dall'interno, ed è stata la vittoria sulla filosofia e sulla teologia riportata da un'ortodossia ostile alla ragione e alla libertà, a bloccare fondamentalmente, nell'ambito dell'Islam, lo sviluppo di una scienza e tecnica moderna già alla vigilia del Rinascimento europeo. Là dove le università e gli istituti di istruzione sono interamente dominati da una scienza giuridico-teologica tradizionale fossilizzata, non può sorgere il gusto della discussione intellettuale. Là dove i pensatori non possono respirare intellettualmente, non svilupperanno nuove idee, innovazioni scientifiche, invenzioni tecniche o iniziative sociali. Là dove non è consentita nessuna autocritica, si resta incatenati all'esistente e si oppone resistenza ad ogni illuminismo. Il politologo musulmano di provenienza siriana Bassam Tibi (dell'Università di Göttingen) ha avuto il coraggio di cercare le cause principali dell'umiliante improduttività della cultura islamica nello stesso terreno in cui si radica e di darne una formulazione radicale:
"In realtà Ibn Khaldun è stato [...] l'ultimo grande pensatore nell'Islam. Fino all'incontro con la modernità, con i suoi effetti tanto militari quanto coloniali, gli Ottomani erano quasi esclusivamente assorbiti dalle loro conquiste militari. Per cinque secoli nell'Islam non c'è stato nessun pensatore degno di nota".
5. È colpa dell'Islam?
È dunque dell'Islam stesso la colpa dell'impressionante improduttività intellettuale del mondo islamico? Una risposta così unilaterale non è quella che lo stesso Bernard Lewis dà alla sua domanda: "Che cosa è andato storto?". Almeno per l'alto Medio Evo, infatti, è incontestabile che i grandi centri della civiltà e del progresso non erano le antiche culture dell'Oriente e neppure le più giovani culture dell'Occidente, bensì il nuovo mondo che si era interposto tra queste e quelle: la cultura dell'Islam. Fu qui che allora vennero riscoperte le scienze antiche e create nuove scienze; fu qui che sorsero nuove industrie e che produzione e commercio raggiunsero proporzioni fino ad allora sconosciute; fu qui che anche l'arte e la poesia riattinsero alti livelli. Fu nell'Islam che i governi e le società raggiunsero un tale grado di tolleranza da offrire rifugio agli ebrei perseguitati e persino ai cristiani eterodossi. Bernard Lewis sottolinea:
"L'Islam medioevale offriva certo soltanto una libertà limitata a paragone con gli ideali moderni e ancor più con la prassi moderna delle democrazie più sviluppate, ma offriva di gran lunga più libertà di qualunque dei suoi predecessori e dei suoi contemporanei e anche della maggior parte dei suoi successori".
A che cosa, allora, attribuire la colpa dell'improduttività intellettuale del mondo islamico nell'epoca moderna? Nemmeno Bernard Lewis dà una risposta precisa a questa domanda. Io vorrei rispondere in linea di principio nel modo seguente: La colpa non è dell'Islam come tale; la colpa non è neppure di un determinato paradigma, finché è adeguato al suo tempo; la colpa è della perpetuazione di un paradigma al di là dell'epoca a cui è adeguato. Facciamo il confronto: il paradigma degli ulama e dei sufi è altrettanto adeguato per l'Islam del Medio Evo quanto lo è il paradigma cattolico-romano per la cristianità medioevale. Ma l'ostinarsi in questo paradigma, in condizioni temporali del tutto mutate, al di là del Medio Evo, conduce ad una asincronia e così ad un'improduttività intellettuale. Questo (prescindendo dall'arte barocca) vale per la chiesa e la teologia della Controriforma e dell'antimodernismo, ma vale altrettanto per l'Islam dell'età moderna, che in modo non dissimile rifiuta una Riforma e un Illuminismo. I paradigmi religiosi hanno una forte capacità di tenuta e di sopravvivenza, specialmente in presenza di una forte istituzionalizzazione della vita religiosa; nel sistema romano così come nel mondo islamico questa persistenza ha avuto per conseguenza l'improduttività intellettuale. È solo nel diciannovesimo secolo che nell'Islam si giunse ad un rinnovamento.
6. La nascita dell'intellettuale viene recuperata
Nell'Ottocento, prima in India, poi anche in Egitto e nell'Impero Ottomano si sviluppò un "modernismo" islamico. I riformatori musulmani si rendono conto sempre più chiaramente che per la modernizzazione sono di importanza fondamentale uno stato forte e una società produttiva e saldamente integrata. Occorre perciò introdurre adeguati programmi sociali, giuridici ed educativi, capaci di scalzare il ruolo tradizionale delle élites religiose, conducendo proprio in tal modo ad un sistema giudiziario ed educativo moderno. Non sono più gli ulama, in effetti, bensì le nuove élites politiche educate all'occidentale (militari, funzionari, proprietari terrieri) e l'intellighenzia politica, tecnica e letteraria in rapida crescita, ad impegnarsi attivamente per l'adozione della tecnica militare europea e per la modernizzazione dell'economia e dell'educazione. Qui pertanto la "nascita dell'intellettuale" viene recuperata. Per farlo si devono abbandonare le forme medioevali della cultura islamica, non certo l'Islam stesso. A parere dei riformatori, l'Islam ha bisogno piuttosto di essere rinnovato, anche a riguardo dei principi spesso trascurati della nazionalità, del patriottismo e dell'attivismo etico. Gli intellettuali turchi ed arabi erano convinti del declino della cultura islamica e della necessità di riforme secondo il modello europeo.
Ma nel corso del Novecento questo atteggiamento si è notevolmente modificato tra gli intellettuali islamici. Anche in Europa, infatti, oggigiorno ci si pongono domande come queste: Oggi per gli intellettuali islamici la cultura europea ha ancora il valore di un modello? Gli intellettuali europei sono ancora un modello? Esiste ancora il tipo del grande intellettuale? In Inghilterra - se si prescinde da figure come Bertrand Russell - si preferiva sempre parlare, anziché di intellettuale, dello scholar [studioso], che attende alla sua attività scientifica nell'isolamento aristocratico del College. Persino in Francia il tipo dell'intellectuel engagé del formato di uno Zola o di un Sartre è diventato una rarità; proprio qui, tuttavia, vivono alcuni giovani intellettuali musulmani che sostengono posizioni piuttosto audaci anche in relazione all'esegesi del Corano. In Germania molti intellettuali, che un tempo mostravano inclinazioni decisamente socialiste, dopo la "svolta" del 1989 sono diventati muti. E in molti paesi europei si viene oggi allargando la chatting class, che nei talk shows televisivi fornisce un surrogato delle serie discussioni venute a mancare nel parlamento o nell'università.
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