1. Per la verità siamo già presenti. I repubblicani europei (un’associazione fondata dopo che Giorgio La Malfa si è candidato con Forza Italia, con il centro destra) siedono al Parlamento europeo con la deputata Luciana Sbarbati che fa parte del terzo gruppo del Parlamento europeo, quello liberal-democratico forte di 52 deputati. In Italia esistono già decine e decine di consiglieri comunali e provinciali.
Ci presenteremo alle prossime elezioni europee, politiche e locali.
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2. Detto ciò è, però, vero che siamo fieri del nostro passato perché, come tutti i liberal-democratici, se ci voltiamo indietro non abbiamo nulla di cui farci perdonare: errori in politica tanti, ma tradimenti dei principi credo mai.
I liberal-democratici, con Mazzini e con Cavour, furono le locomotive dell’Unità nazionale, del Risorgimento, guidarono per mezzo secolo il paese fin alla vittoria della prima guerra mondiale, alimentarono le file dell’antifascismo più autorevole (Croce, Salvemini, Einaudi, Sforza, ecc.ecc.), contribuirono alla ricostruzione del paese sempre schierandosi con le scelte più moderne e più rispettose dei principi di libertà: la Nato, la Ceca, le Nazioni Unite, la Cee .
Ma c’è una ragione per la quale ciò è accaduto ed è perché i liberal-democratici sono sempre stati dei patrioti non dei nazionalisti. “Patria” per loro significa unità, indipendenza ma anche libertà.
Non basta l’identità di lingua, di razza, di religione che può essere anche pericolosa (questa è la nazione) ma occorre riconoscersi in un insieme di regole condivise, accettate che tutelino e rispettino i diritti propri e degli altri: di qui l’esigenza che i liberal-democratici hanno posto sempre per l’esistenza di Statuti (si pensi a quello albertino) e di Costituzioni (si pensi a quella della Repubblica). Al riguardo si parla per l’appunto di un “patriottismo costituzionale” che, non a caso, connota gli Stati federali, gli Stati Uniti d’America, la Svizzera, Stati i cui cittadini parlano lingue diverse, appartengono a ceppi diversi, professano religione diverse.
La patria dei liberaldemocratici è in continuo divenire perché è in grado e vuole coinvolgere tutti coloro che la vivono e la sentono come tale replica de relogios condividendone le regole.
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3. Ebbene, in prospettiva (e la tragica storia dell’oggi lo dimostra) c’è bisogno di tanto “patriottismo costituzionale” perché l’Europa sarà multietnica, multi-linguista, multi-religiosa, o non sarà.
Per questa ragione un liberal-democratico non si riconosce nei messaggi e nei contenuti di un partito leghista che fa, invece, l’apoteosi dell’unità di ceppo: in Italia si sono inventati anche la Padania che non esiste e noto è il consequenziale antieuropeismo della Lega.
E poi diciamoci la verità. Non solo è essenziale mantenere le differenze, ma è impossibile che scompaiano le differenze: Palermo non sarà mai Vilnius e Vilnius non sarà mai Madrid. Neppure Carlo Magno patek philippe replica e tanto meno Napoleone riuscirono a trasformare l’Europa in un unico indistinto. Da Machiavelli a Guizot l’idea è sempre stata quella di Europa come patria delle diversità. Ma è essenziale uno scheletro costituzionale comune, come sostiene Habermas.
Ma non ci si riconosce, neppure, nel messaggio di Alleanza Nazionale che, nonostante tutti gli apprezzabili sforzi, concepisce ancora l’Europa come un’unione di Stati, di Nazioni: certo il ceto politico italiano deve saper difendere anche i nostri interessi nazionali ma deve traghettare il Paese in un nuovo Stato nel quale vi saranno i cittadini europei (come esistono gli statunitensi): di qui la conseguenza che la Costituzione europea deve essere ispirata alla regola che si governa a maggioranza (e non con l’unanimità).
Ma proprio perché i liberal-democratici amano le regole (per sé e per gli altri) naturale è la loro contrapposizione ai partiti azienda, quale è Forza Italia: i capi azienda le regole le dettano agli altri, non le subiscono. Di qui l’insofferenza di S. Berlusconi per “il conflitto d’interessi” che è la sua vera grande anomalia rispetto alle regole e alla prassi costituzionali europee; di qui la nostra contrarietà ai progetti di riforma costituzionale che corrono il rischio di avviarci a una (rissosa) democrazia plebiscitaria.
Certo la funzione di governo deve essere garantita nella sua autonomia, ma altro è consegnare l’intero Parlamento nelle mani del premier attribuendo a questi (e non al Presidente della Repubblica, come è oggi) il potere di scioglierlo: il Parlamento sarebbe sotto un continuo ricatto.
Il nostro primo punto fermo è, quindi, l’ancoraggio a una Europa che si riconosca in regole e in istituti, comunemente condivisi, effettivamente rispettati e che, nel solco della tradizione, non si avvii verso scelte che non hanno precedenti e che possono breitling replica essere solo pericolose.
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4. Proprio per questo, perché diamo un forte peso ai principi e alle regole costituzionali, la nostra adesione all’Europa non è stata mai determinata solo da ragioni economiche.
Non è il caso di ricordare, più di tanto, i programmi di Mazzini e di Cavour: per loro il ricongiungimento dell’Italia all’Europa significava la fuoriuscita da secoli di soggezione, di depressione e la riacquisizione di un ruolo fra i paesi civili ed evoluti.
Ma, anche nei tempi più recenti, per i liberal-democratici l’Europa non è stata solo la Comunità economica del carbone e dell’acciaio o l’area di libero scambio.
E’ l’Unione fondata sui valori della filosofia e della cultura greca, sulla grande tradizione giuridica romana ma anche sul confronto che i grandi cristiani ebbero con quei valori, fondandone di nuovi. Si pensi solo a Platone e a S. Agostino ma anche a S. Tommaso e a Aristotele.
Il primo, Platone, nel libro IX della Repubblica, a proposito dell’anima razionale scrive: “Colui che afferma l’utilità dell’essere onesti sostiene che bisogna agire e parlare in modo tale che l’uomo interiore (“O entós ántropos) sia reso forte il più possibile così da riuscire a dirigere la bestia dalle molte teste”.
Non occorrono parole per mettere in luce l’importanza di questo pensiero per la storia dell’umanità e dell’umanesimo.
Ebbene questo che per Platone era uno spunto, una riflessione si pone al centro di una delle due opere maggiori di S. Agostino, le Confessioni, che, nella loro forma e nei loro contenuti, sono una novità assoluta in quanto nessuno, prima di S. Agostino, aveva fatto “confessioni”.
Nelle celebri parole che S. Agostino rivolge a se medesimo e all’uomo in generale” ritorna in te stesso, all’interno dell’uomo abita la verità”, sta l’uomo nuovo, l’uomo che ha scoperto l’interiorità e nasce l’uomo europeo che scopre i due uomini che porta dentro di sé: l’uomo da cui cerca di fuggire e l’uomo che vorrebbe essere.
L’uomo, quindi, non può essere ristretto e collocato in alcun modo nelle sola dimensione del mondo fisico.
Non è come ritenevano i Greci un microcosmo (Platone nelle Leggi aveva scritto “Ciascuno di noi esseri viventi è come un mirabile burattino costruito dagli dei non si sa se per gioco o per qualche mirabile motivo”) ma è un macrocosmo contenuto in un microcosmo” (come scrissero i filosofi cristiani della Cappadocia “quell’essere che contiene in sé, pur nella sua piccolezza, una straordinaria grandezza”).
E nella sua straordinaria grandezza sta il concetto chiave del Cristianesimo, ossia il concetto di “uomo come persona” con tutte le conseguenze che ne derivarono, nei secoli, e ne derivano.
Da questo punto di vista non capisco le perplessità manifestate da qualcuno sul riconoscimento fondante di tutte quelle tradizioni.
Noi lo possiamo dire perché è chiaro lo sfondo e il contesto nel quale si collocano che è quello della nostra tradizione laica: guai se l’Europa si presentasse al mondo arroccata su un’asserita razza che non esiste, o su una delle fedi professate. Neppure la religione cristiana può diventare una bandiera, deve restare una fede. In Europa ognuno deve professare, in libertà, la fede che più lo convince (o nessuna) purchè rispetti le regole che uguale libertà riconoscono a tutti.
In questo senso ci spingono gli insegnamenti imperituri che pervengono dalla tradizione greca, da quella romana e da quella cristiana, tutti ispirati nella loro formulazione (quale che siano state le mutevoli vicende della storia) alla tolleranza e alla convivenza: il grande imperatore svevo Federico II non distingueva tra i suoi sudditi arabi, ebrei e cristiani e tutti protesse e valorizzò.
Ovviamente questo impianto così netto e inequivocabile è proprio di chi i replica omega valori dello Stato laico ha sempre propugnato e difeso senza i cedimenti di altre forze, pur amiche, che hanno una finitimità specifica con il mondo cattolico (e a volte confondono libertà con privilegio) e senza i cedimenti di chi, pur essi amici, avendo qualcosa da farsi perdonare per il passato, non sono, nel presente, altrettanto rigorosi nel propugnare e difendere i principi e le distinzioni.
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5. E a proposito di distinzioni e di principi intendo, qui, immediatamente precisare che gli stessi non possono essere pretermessi neppure quando si parla di questioni economiche o di interessi.
Proprio per il rispetto ai nostri maggiori (il rigore di Einaudi, di Ernesto Rossi, di Ugo La Malfa), ma anche per il rispetto dei risparmi degli italiani, per il timore dell’inflazione (la peggiore delle imposte che colpisce soprattutto i più deboli) non ci siamo mai permessi di criticare la nostra nuova moneta, l’Euro, di parlare male dell’Euro, di addossare all’Euro le responsabilità di scelte non fatte o fatte male: sono temi troppo delicati per consentire l’uso e l’abuso della retorica.
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6. Alla fine del 2001 era diffusa la paura che le nuove monete fossero troppo pesanti, le nuove banconote troppo grandi, le procedure per la transizione troppo complicate. Per fortuna, era tutto sbagliato: l’introduzione dell’euro è avvenuta senza caos e già prima della fine di gennaio (del 2002) la vecchia, logora carta moneta era quasi scomparsa dalla circolazione. Ci siamo abituati al nuovo sistema con la facilità di bambini di fronte a un nuovo gioco.
Al successo organizzativo ha fatto seguito il successo politico e civile; il Vecchio Continente ha trovato qualcosa di tangibile e di comune, in grado non solo di attutire le fiammate inflazionistiche del caro-dollaro e del caro-petrolio, ma anche di attutire differenze di carattere storico e di far aumentare l’interesse di paesi esterni all’ingresso nell’Unione Europea. Non è un caso che l’euro cominci ormai a essere accettato nei negozi di paesi esterni all’Unione monetaria, persino nella Gran Bretagna così attaccata alla sua sterlina.
C’è però un male oscuro dell’euro, un mugugno indistinto ma diffuso: è opinione corrente che il cambiamento di moneta avrebbe consentito di nascondere aumenti assai marcati di alcuni prezzi, da quello della pizza a quello della tazzina di caffè. Per questo, una componente irrazionale di nostalgia induce una parte non trascurabile degli italiani a guardare alla nuova moneta con una certa ostilità.
6.1. Ci sono però almeno tre motivi per dire di no alla nostalgia. Il primo è che l’euro ci ha difeso dalle tempeste e dalle tensioni di un mondo inquieto. Oggi guardiamo con preoccupazione a un’inflazione che è sotto al tre per cento, ma non molti anni fa il suo valore era circa doppio e questo già rappresentava un successo; e non solo la lira avrebbe rischiato di far la fine del peso argentino ma è facile immaginare che, senza l’euro, l’attuale debolezza dell’economia tedesca avrebbe travolto il marco e sprofondato l’Europa nel disordine monetario.
6.2. Il secondo motivo è che l’euro impedisce le politiche economiche facili, basate su svalutazioni successive, che sono alla base del declino economico di paesi come l’Italia. Non avendo più una moneta nazionale, non possiamo più lasciarla cadere, recuperando così, sia pure per poco tempo, la competitività perduta. Non è un caso che proprio dopo l’introduzione dell’euro si è cominciato a parlare seriamente di politiche per lo sviluppo e dell’importanza dell’istruzione e della ricerca.
6.3. Il terzo motivo è che l’euro ci obbliga ad andare avanti sulla strada dell’unità politica: il patto di stabilità, così come era formulato, risulta troppo rozzo e troppo rigido e ci vuole un meccanismo politico per modificarlo. La Banca Centrale fa fatica a governare da sola l’economia e bisogna creare un ministero economico europeo in grado di dialogare con le autorità monetarie. La moneta, insomma, si rivela assai più che un mezzo di pagamento; è un’istituzione politico-sociale che determina la necessità di altre istituzioni.
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7. L’euro risulta così non un punto d’arrivo bensì una tappa intermedia sulla via di un continente più unito.
L’Euro è una moneta, è un misuratore e quindi di per sé non può essere causa di nulla. Tanto è vero, che pur avendo la stessa moneta (l’euro), i diversi paesi dell’Europa hanno avuto e hanno aumenti di prezzi, inflazione tra loro diversi. Noi siamo sopra la media europea (che è al 2,0) e quindi la colpa non può essere dell’Euro.
E’ vero, invece, che “in occasione” dell’ingresso nell’Euro alcuni paesi hanno vigilato di più e altri di meno; noi siamo fra i secondi.
E perché? Perché non si sono avuti chiari i nessi che esistono, per esempio, tra economia e fisco.
Il governo avrebbe potuto ammonire che i rincari (superiori ahimè alla media europea, il che significa che altri ha bene o almeno meglio governato il passaggio all’euro) avrebbe voluto trovarli nei maggiori ricavi, fiscalmente rilevanti, che era come ricordare la esistenza in capo a qualsiasi governo della potestà tributaria.
La potestà tributaria spetta anche ai governi autoritari ma quelli liberali si connotano per saperla usare con equità nei confronti della generalità dei consociati.
Ebbene, Tremonti ha preferito la via dei condoni,che, pur numerosi e reiterati, non interessano coloro che le imposte le pagano con le ritenute (e non sono solo i lavoratori subordinati): con il che ai rialzisti ha garantito, per anni, l’immunità fiscale, a bassissimo costo.
E questa scelta non è imputabile alla “cattiva Europa”, all’euro ma è tutta nazionale, è tutta “domestica” tant’è che , a scanso di equivoci, “condono” è parola intraducibile in inglese, in francese, in tedesco, in spagnolo.
Con il 2,8 per cento, rispetto al 2% dell’intera Europa i prezzi italiani corrono a una velocità che è del 30% superiore alla media e, per fare un esempio, a più del doppio di Germania e Austria (1,1 e 1,3).
L’inflazione? Non colpisce tutti allo stesso modo: favorisce chi ha debiti e danneggia chi ha prestato i suoi soldi; ferisce chi dipende da un reddito fisso e premia chi è abbastanza forte o protetto da poter imporre il proprio prezzo.
E pesa di più su chi spende nei beni che rincarano maggiormente. In una parola, la deriva dei prezzi non è mai uguale per tutti.
L’istantanea, delle spese degli italiani è così uno spaccato delle disuguaglianze e della crisi del potere d’acquisto. Rivelatore il dato sulle spese per l’acquisto di alimenti. Meno abbiente è un nucleo familiare o un ceto sociale, più elevata è questa quota e dunque più forte l’impatto degli aumenti dei beni alimentari. Qui i numeri ufficiali danno la riprova che, negli ultimi anni, i ceti deboli sono stati più colpiti dai rincari: secondo Eurostat, nel ’94 il 20% più povero della popolazione italiana vedeva “requisito” in alimenti il 30% delle sue spese (la fetta più alta in Europa dopo il solo Portogallo); nel ’99, segno di sviluppo, si era scesi al 23%; ma secondo l’Istat nel 2002 il valore era già risalito al 27,7%. Così l’inflazione ha colpito di più chi aveva di meno. Infatti, quel 20% di italiani a più alto reddito, e che dedicano agli alimenti l’11% del proprio portafoglio, hanno risentito meno della corsa degli alimenti.
Spia della crisi del potere d'acquisto è poi la parte di reddito familiare che se ne va per l’abitazione, inclusi acqua, luce e gas. Nel ’99 questa voce era il 22,5% delle spese dei meno benestanti e il 25% della fascia più privilegiata; con i dati sul 2002 i valori erano rimbalzati invece al 38,2% per i primi e al 35% per i secondi. E’ evidente quindi la marcia diversa dell’iniquità.
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8. E oggi viene da chiedere? I dati del 2003 non sono certo confortanti e sono sotto gli occhi di tutti
2000 2001 2002 2003 2004 ITALIA EU 15 2000 2001 2002 2003 2004
3,1 1,8 0,4 0,3 CRESCITA PIL 3,6 1,7 1,1 0,8
2,6 2,3 2,6 2,8 INFLAZIONE 1,9 2,2 2,1 2,0
1,4 0,1 -0,7 -0,5 PRODUTTIVITA’ DEL LAVORO 1,6 0,5 0,8 0,8
1,7 1,7 1,1 0,8 CRESCITA DELL’OCCUPAZIONE 2,0 1,2 0,4 0,0
10,4 9,4 9,0 8,8 DISOCCUPAZIONE 7,8 7,4 7,7 8,1
53,7 54,8 55,5 - TASSO DI OCCUPAZIONE 63,4 64,1 64,3 -
-0,6 -2,6 -2,3 -2,6 -2,8 DEFICIT 1,0 -0,9 -1,9 -2,7 -2,6
110,6 109,5 106,7 106,4 106,1 DEBITO 64,1 62,8 62,5 64,1 64,4
Le previsioni per il 2004 non sono incoraggianti. La crescita “manterrà un passo lento”. Per quanto riguarda le politiche di bilancio, “il governo continua ad affidarsi a misure una tantum”.
Il deficit rimane “Molto alto” ed è “causa di preoccupazione” perché, secondo l’Europa, sfonderà il tetto del 3%. Anche un altro dato mette l’Italia nel gruppo dei Paesi in ritardo, quello dell’inflazione che resterà superiore alla media europea mentre rimane irrisolto uno dei problemi storici: la disparità tra Nord e Sud con un reddito che, nel Mezzogiorno, è ancora al livello del 68 per cento di quello medio italiano.
L’Agenzia di “rating” Standard and Poor’s conferma la sua valutazione negativa sulla situazione del nostro paese e dice testualmente: “L’Italia non è riuscita a rimpiazzare le misure una tantum con provvedimenti di più lunga durata destinati a limitare il deficit di bilancio e permangono preoccupazioni sulla sua capacità a sostenere le posizione fiscale”.
Il Commissario europeo agli affari economici, Solbes, il 10 febbraio scorso ha dichiarato: “La maggior parte del risanamento è prevista per gli ultimi anni del programma il che potrebbe richiedere una riduzione senza precedenti della spesa primaria a meno che il Governo non sia portato ad aumentare la pressione fiscale”.
Insomma, scarsa crescita, irrisolta la disparità tra Nord e Sud (con un reddito che, nel Mezzogiorno, è ancora al livello del 68 per cento di quello medio italiano), troppe inique una tantum e inflazione più alta che nella media europea.
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9. Ebbene, questa essendo la situazione, circa tre settimane fa Berlusconi ha proposto di ridurre drasticamente le imposte e in particolare ha proposto di ridurre le aliquote a due, il 23 e il 33% (la seconda applicabile a coloro che hanno un reddito superiore ai 160 milioni): ricordo che oggi l’aliquota massima è del 45%.
L’uscita di Berlusconi ha prodotto una generale afasia quasi che non si osasse seguirlo in tanta avventura ma neppure contraddirlo: unica lodevole eccezione chi ha chiesto di iniziare dai redditi più modesti e ha posto, almeno, un problema di equità.
E’ vero, invece, che chi propone di ridurre le tasse non chiude la discussione (salvo a inseguirlo sulla strada scivolosa di una irresponsabile gara al “di più”) ma la apre, legittimando una serie di interrogativi.
Il primo è, ancora una volta, una nota di sorpresa perché le modalità e il contenuto dell’annuncio ingenerano il convincimento che si possano risolvere i problemi con un unico provvedimento, con un colpo di bacchetta magica.
In realtà i problemi sono più complessi e le soluzioni più articolate. Ricordo che se le tasse italiane assommano a circa il 42 per cento del prodotto interno lordo, vi sono membri dell’Unione Europea che superano detta soglia ma si tratta di Paesi che usano la spesa pubblica in maniera più efficiente di noi, sostenendo, ad esempio le attività di ricerca, la preparazione dei lavoratori, la continuità (e non l’estemporaneità) nelle spese per infrastrutture. Soggiungo che, anche ad immaginare che i consumatori seguano alla lettera le indicazioni del Presidente del Consiglio, l’effetto di stimolo della loro spesa sull’economia, sulla produzione italiana non sarebbe totalitario perché un 30.35 per cento del valore dei beni in vendita proviene dall’estero.
In secondo luogo l’abbassamento di cui si discute (due sole aliquote, al 23 e al 33) costa decine di miliardi e senza ridurre di altrettanto la spesa pubblica incide, peggiorandoli, sul disavanzo pubblico e sul debito, esponendo l’Italia alle possibili sanzioni dell’Europa. Ora, anche ad ammettere che queste possano essere ammorbidite o moderate (ma la Commissione europea, in un documento che sarà pubblicato il 7 aprile segnala il rischio che il disavanzo italiano già nel 2004 superi il 3% del PIL), scatterebbe il giudizio negativo dei mercati ed essendo il nostro debito quasi doppio di quello francese e tedesco (il 106% del PIL rispetto al 64% medio dei 15), l’Italia potrebbe essere declassata dalle agenzie internazionali di rating con un immediato aumento dei tassi di interesse pagati dal Tesoro per i nuovi prestiti e, quindi, con un ulteriore peggioramento dei conti pubblici.
A fronte di questi rischi occorre procedere con cautela e con equità nell’impiantare la riforma dell’Irpef su due aliquote, 23% fino a 100.000 euro e 33% sopra e non solo perché la progressività sarebbe fortemente ridotta.
Occorre, cioè, considerare che, ovviamente, la sensazione (oggi) di maggiore povertà e di maggiore insicurezza non è uguale per il 6% degli Italiani, i più benestanti, e per i più poveri e per coloro (il 28% circa degli Italiani) che si collocano tra i 15.000 e i 31.000 euro all’anno, oggi tassati con l’aliquota del 31%.
La scelta, proprio perché essa presenta dei rischi (non è neppure certo che alle aliquote diminuite corrispondano più alti redditi dichiarati), occorre farla là dove il gioco vale la candela e quindi con riguardo alla prima aliquota (del 23 per cento) che, diminuita, può avere effetto immediato e consistente sulla domanda, sull’aumento delle spese: infatti, sono le famiglie con redditi bassi che possono essere incentivate a spendere di più nel breve periodo sostenendo l’andamento dell’economia, mentre l’abbassamento dell’aliquota marginale dal 45 al 33 gioverebbe a meno del 5% degli Italiani, che già spendono ciò che vogliono spendere.
In sintesi, trasferendo sul sistema attuale le nuove aliquote, un reddito di 15.000 euro risparmierebbe 662 euro l’anno, 957 uno di 25.000, 3.912 uno di 50.000, 8.212 uno di 120.00 euro. In altri termini, il 10% più povero dei contribuenti vedrebbe aumentare il suo reddito disponibile di qualche decimale di punto; il 10% più ricco ci guadagna quasi il 7%.
Ora se si pensa che scelte improvvisate e non ben guidate possono aumentare anche l’inflazione (che in Italia è già più alta che nella media europea) occorre evitare che il risparmio di 662 euro oggi sia “eroso” tra pochi mesi dall’aumento dei prezzi, con il che, per il consumatore-contribuente, al danno si aggiungerebbe la beffa di avere subito delle lusinghe elettorali in cambio di nulla.
In sintesi, con riguardo a questi temi delicatissimi è bene evitare di “dare i numeri”; è meglio ragionare muovendo dai numeri.
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10. La frontiera della giovane Unione europea dal 1° maggio scorso si è spostata a est, come due secoli fa andò spostandosi a ovest quella della giovane federazione americana. Possiamo interrogarsi sul valore economico dell’allargamento, pur sapendo quanto sia difficile separarlo da quello politico, culturale e strategico.
Da qualche anno, consumatori,imprenditori e governi dell’Unione sono in preda alla malinconia che paralizza e sfianca. Così, nel segno dell’umore nero vedono anche l’ingresso nel loro mercato di dieci nuovi Paesi. Dovrebbero invece vedervi un’occasione provvidenziale, perché, con l’ingresso di quei Paesi, tutta l’Europa si arricchisce della miscela di bisogni, risorse, istituzioni, in cui sta il segreto della crescita economica.
In primo luogo, i bisogni. I nuovi entranti aggiungono meno del 5% al prodotto lordo dell’Unione, ma il 20% alla sua popolazione. Il divario tra le due cifre misura il dislivello da colmare: bisogno di case confortevoli, mobilimigliori, elettrodomestici, automobili, vestiti, viaggi, strade, aeroporti. Dunque più lavoro e più investimenti, un immenso cantiere.
In secondo luogo, le risorse: un buon livello d’istruzione combinato con stipendi e salari fortemente competitivi. E’ la stessa combinazione, seppure in forma meno pronunciata, che fa la fortuna delle economie asiatiche.
In terzo luogo, le istituzioni: una democrazia ritrovata, una legislazione moderna e omogenea alla nostra, mercati flessibili e reattivi. Una gigantesca opera di ricostruzione è già stata compiuta dal crollo del sistema sovietico a oggi, trascinata proprio dalla prospettiva dell’ingresso nell’Unione.
Giova, infine, la dimensione dei nuovi Stati membri: dei dieci entranti, sei sono meno popolati dell’Irlanda che oggi è – Lussemburgo a parte – il Paese più piccolo dell’Unione. Da molti anni i Paesi piccoli sono i più vitali e dinamici in Europa: sono liberi da illusioni di autosufficienza e restii a tenere forzosamente in vita compagnie di bandiera inefficienti nell’industria e nei servizi.
Non è vero che l’allargamento avvantaggi i nuovi a spese dei vecchi.
Per le imprese europee in cerca di mercati ove vendere impianti, servizi e prodotti sofisticati, o di un ambiente in cui insediarsi con propri investimenti, le nuove regioni dell’Europa sono il mercato migliore: sono un trampolino verso altri Paesi dell’oriente europeo, come Ucraina, Russia, Georgia.
L’ampliamento dell’Unione obbligherà i vecchi a completare riforme economiche faticose ma necessarie: alleggerire pesanti apparati pubblici, moderare i lussi, riconvertire le produzioni, accentuare la concorrenza, ridurre le protezioni.
Sono passi indispensabili alla sopravvivenza economica e politica dell’Europa, imposti dalla globalizzazione e dalla decenza, prima e più che dall’allargamento.
Il cammino che si apre sarà lungo. Se il gruppo dei nuovi crescesse di 5 punti l’anno più di noi (per esempio, loro al 7, noi al 2 per cento) ci metterebbe più di dieci anni solo per raggiungere il nostro reddito medio pro capite. La sfida per i nuovi entranti è di far durare i loro vantaggi competitivi abbastanza a lungo da colmare il ritardo. Così fecero l’Italia negli anni ’50 e ’60, e l’Irlanda negli anni ’80 e ’90. L’ampliamento non dà un effimero tonico congiunturale, cambia strutturalmente l’economia europea.
L’Europa è spesso incerta se soffrire o godere del proprio declino.
L’allargamento le regala un gruppo di Paesi il cui declino durò decenni, che credono all’Europa più di quanto sembriamo crederci noi in questo momento, che possono scuoterci dall’umore nero e dalla malinconia.
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11. E a questo proposito una ulteriore e ultima considerazione.
Per combattere ogni possibile malinconia e superare l’istintiva (e cinica) tentazione di non credere all’Europa e di non occuparsene è sufficiente riandare alla parole con cui Benedetto Croce intravedeva il processo dell’unione europea nel 1932: “per intanto, già in ogni parte d’Europa si assiste al germinare di una nuova coscienza, di una nuova nazionalità (perché, come già si è avvertito, le nazioni non sono dati naturali, ma stati di coscienza e formazione storiche); e a quel modo che, or sono settant’anni, un napoletano dell’antico Regno o un piemontese del regno subalpino si fecero italiani, non rinnegando l’esser loro anteriore ma innalzandolo e risolvendolo in quel nuovo essere, così e francesi e tedeschi e italiani e tutti gli altri s’innalzeranno a europei e i loro pensieri indirizzeranno all’Europa e i loro cuori batteranno replica patek philippe per lei come prima per le patri più piccole, non dimenticate ma meglio amate” (Storia d’Europa nel secolo XIX, Laterza, 1932).
Certo ci voleva tutto la cultura, la saggezza, la forza morale e intellettuale di Croce per antivedere una Europa unita, quando, nel 1932, essa era dominata dai peggiori totalitarismi, e altri ne sarebbero venuti.
Ma a noi non è necessario tanto, è sufficiente assai meno: basta volerlo.
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