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CULTURA POLITICA

TITOLO

UNA RIFLESSIONE SULLA DEMOCRAZIA Pierfranco Pellizzetti
  Seminari di Cultura politica
DATA 11/04/2004
LUOGO Genova

PRIMA GIORNATA
LE DINAMICHE DEL CAMBIAMENTO

globalizzazione vs riflessività
finanziarizzazione
deterritorializzazione delle imprese
individualismo consumistico
antipolitica
“pensiero unico”
esclusione vincitori e vinti
fine delle soluzioni regolative del ‘900
“scambio keynesiano” (alleanza tra borghesia produttiva e lavoro organizzato)
“paradigma fordista” (la figura del lavoratore si sovrappone a quella del consumatore)
crisi del Welfare State (sicurezza contro accettazione del capitalismo)
modello postfordista (impresa a rete e lavoro destrutturato)

post 1989: democrazia sotto pressione (ma ha vinto la libertà o il capitalismo?)
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LE DINAMICHE DEL CAMBIAMENTO
PRIMA GIORNATA
Sintesi del pomeriggio seminariale di sabato 20 marzo 2004
di Valerio Vassallo
Sebbene anche prima del XV secolo, estese aree del globo avessero conosciuto fasi di significativa integrazione economica e culturale, (nell’ambito di quelle compagini politico-territoriali eterogenee unificate dal dominio militare, ovvero gli imperi dell’età premoderna), sarà a partire dall’epoca delle grandi esplorazioni geografiche e dell’espansione marittima e commerciale dell’Europa che si creeranno le condizioni per la nascita di un vero e proprio “sistema-mondo”, in grado di integrare, sotto l’egida dell’egemonia europea, ancorché con livelli differenti di penetrazione e di coinvolgimento, le parti geograficamente e antropologicamente più distanti del pianeta.

(Cfr il concetto di “Economia-mondo” in F. Braudel e I. Wallerstein: “La storia della modernità tra il XV ed il XVIII secolo si sviluppa secondo una duplice dinamica: quella dell’estensione a tutta la terra dell’ economia-mondo europea e quella del succedersi dei centri dominati di questa economia- mondo, giacché questa si organizza, … in maniera gerarchizzata attorno a un centro …” Voce “Braudel Ferdinand” in Dizionario di scienze storiche di André Burguière)

L’elemento di discontinuità rispetto al passato nel grado di coesione tra le diverse civiltà umane sviluppatesi fino ad un certo momento della storia in modo relativamente autonomo e indipendente, è dato dalla progressiva riduzione delle distanze fisiche e delle distanze comunicative, acceleratasi nel corso del XX secolo e resa possibile da due importanti rivoluzioni (o evoluzioni?) tecnologiche: quella che ha riguardato la logistica e i trasporti e quella che ha riguardato il trattamento e la trasmissione, (soprattutto elettronica), delle informazioni. (“Information and Communication Technology”)

Concentrando l’analisi sulla seconda metà del XX secolo, tre fenomeni, in particolare, meritano considerazione per avere determinato la rottura degli equilibri ovvero delle “armonie sistemiche” che si erano consolidate nei tre decenni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale:

a) il crollo dell’Unione Sovietica, con la fine della “guerra fredda”
b) la crisi dello Stato sociale con l’abbandono del “modello keynesiano” ed il trionfo del cosiddetto “turbocapitalismo” (per usare un’efficace definizione fornita dal politologo USA Edward Luttwack)
c) il superamento del modo di produzione “fordista” reso obsoleto dai processi di automazione che hanno fortemente modificato dimensione e caratteristiche dell’apporto dalla forza lavoro umana al processo produttivo.


Il disordine mondiale

Mentre 4/5 dell’umanità, perlopiù abitanti dei paesi “in via di sviluppo”, non ha adeguato accesso ai benefici ed ai vantaggi connessi alla crescita dell’economia mondiale, nei paesi ricchi si assiste ad un processo di assottigliamento della classe media e di progressiva pauperizzazione dei lavoratori impiegati nei cicli produttivi più tradizionali, particolarmente esposti al ricatto della delocalizzazione, nonché alle conseguenze sociali dei processi di automazione.
(Notoriamente la liberalizzazione del movimento dei capitale a fronte di livelli di tutela sociale estremamente eterogenei presso i diversi paesi partner del commercio internazionale, implica, a parità di altre condizioni, uno spostamento dei centri di produzione verso quei paesi in cui il costo del lavoro ovvero le tutele sociali sono inferiori)

Esempio paradigmatico delle conseguenze di tale processo è il cambiamento intervenuto nel rapporto tra gli emolumenti percepiti dai manager (Chief Executive Officer) e quelli percepiti dai dipendenti meno qualificati, nelle aziende multinazionali, passato, secondo alcune stime, da 45:1 nel 1980 a 550 :1 nel 2002 (Cfr.G. Chiesa e M. Villari Superclan: Chi comanda nell’economia mondiale pag. 40).

L’evoluzione degli ultimi trent’anni caratterizzata, secondo la terminologia del celebre sociologo britannico Anthony Giddens dalla transizione da una fase di “modernità semplice”, (basata su un modello di sviluppo di tipo prevalentemente quantitativo), ad una fase di “modernità complessa”, (basata su un modello di sviluppo di tipo prevalentemente qualitativo, che maggiormente deve fare affidamento sulle capacità intellettuali, critiche e creative, del singolo individuo lavoratore), pone delle questioni e solleva dei problemi cui la forma fin qui assunta dai processi di globalizzazione, cioè quella del “Washington consensus” (ovvero della ”globalizzazione americana”) non è in grado di dare risposte soddisfacenti.

In particolare sembra contrastare con la necessità di valorizzare il capitale umano, destinando coerentemente risorse adeguate alla sua formazione e riqualificazione continua, (fattore tanto più indispensabile quanto più si considera la dimensione dinamica e “immateriale” della moderna economia), la condizione di crescente precarietà e di incertezza alla quale sono esposti settori vieppiù consistenti della popolazione attiva, anche nei paesi tradizionalmente all’avanguardia dello sviluppo economico.

Il fatto che, nei paesi suddetti, nonostante la maggiore disponibilità ed accessibilità, rispetto al passato, di servizi e di beni di consumo, prevalgano aspettative negative riguardo al futuro soprattutto delle generazioni più giovani, è indicativo di un mutamento importante e preoccupante di prospettiva storica rispetto al passato.

A questo drammatico mutamento di prospettiva la politica, che è chiamata ad opporre dei rimedi efficaci, sembra stentare ad individuare una via: “quadrare il cerchio”, come recita il titolo eloquente di un recente saggio di Ralf Dahrendorf, coniugando l’aumento del benessere economico con l’accrescimento della coesione sociale e la salvaguardia della libertà politica, è un compito particolarmente difficile, cui le moderne democrazie potranno fa fronte solamente a condizione di riuscire a contrastare, con un slancio di passione civile, le tendenze eversive che le oligarchie finanziarie, con l’ausilio dei mezzi di comunicazione di massa, perlopiù alfieri del “pensiero unico”, stanno ponendo in essere. controllo.
(Si tenga conto che già nel 1991 gli investimenti delle imprese americane in Ricerca & Sviluppo superavano gli investimenti in capitale fisso)

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SECONDA GIORNATA
I PRINCIPI DEL CAMBIAMENTO
tendenze autoritarie (apatia del cittadino)
l’interesse pubblico diventa l’interesse privato delle nomenclature (nazionali e internazionali)
la capacità organizzativa dell’élite dominante disorganizza i gruppi sociali (dominazione)
spazio del potere e della ricchezza cosmopolita, gente comune radicata nei luoghi (derive castali)
paradigma tecno-economico: l’informazione come materia prima (asimmetrie informative)
assiomatica degli interessi (laissez faire globale)
rivoluzione dell’information technology e ristrutturazione capitalistica: società in rete
globalizzazione delle attività economiche strategiche
flessibilità, precarietà, individualizzazione del lavoro
organizzazioni a rete
sistema dei media pervasivo (virtualità reale)
trasformazione dei fondamenti materiali della vita
lo spazio dei flussi fuori controllo
il laissez faire fuori controllo: minaccia
non assicura un’equa ripartizionedelle opportunità economiche e dei risultati raggiunti
non produce beni di natura collettiva
i mercati funzionano in modo imperfetto (ad es. quelli finanziari, del lavoro e immobiliari)
le motivazioni economiche non sono le sole a dirigere il comportamento umano
la democrazia come controllo del potere
- regole per governare
- legittimazione della protesta
- partecipazione

le trasformazioni della democrazia
la democrazia contemporanea(costruita dalla politica)
contratto sociale capitale - lavoro - Stato
emancipazione attraverso i diritti
dinamiche inclusive
Stato sociale
pluralismo
individuo “fine” della politica
dalla democrazia alla postdemocrazia(nella sincope della politica)
Stato-nazione
cittadinanza
politica rappresentativa
governo della economia
inclusione/militanza
individualismo democratico
società civile forte
spazio dei flussi
“votano i mercati”
elezioni come “gara tra marchi”
compromesso con il capitalismo finanziario
esclusione/apatia
individualismo del free rider (egoista razionale)
società civile frammentata
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PRINCIPI DEL CAMBIAMENTO
SECONDA GIORNATA
Sintesi del pomeriggio seminariale di sabato 27 marzo 2004
di
Valerio Vassallo

La prima affermazione delle dottrine neoliberiste ed ultraindividualiste che formano il nucleo fondamentale del cosiddetto “pensiero unico”, (Ignacio Ramonet ) è collocabile temporalmente tra la fine degli Settanta e l’inizio degli anni Ottanta del Novecento, periodo che vide l’avvento al potere di Magareth Thatcher nel Regno Unito e di Ronald Reagan negli Stati Uniti.
Sarà tuttavia solamente verso la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, rispettivamente, con il crollo del muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica, che i fautori del “turbocapitalismo”, (per usare una felice espressione di Eduard Luttwak), consolideranno la propria egemonia.
Galvanizzati dallo sfacelo del modello antagonista, gli integralisti del mercato, annunceranno all’opinione pubblica mondiale la necessità improcrastinabile di procedere ad una drastica rimozione dei vincoli normativi e sociali, che, negli anni del secondo dopoguerra, caratterizzati dallo sviluppo del welfare, erano stati adottati per compensare almeno parzialmente le profonde sperequazioni e le asperità della selezione sociale che lo sviluppo capitalistico inevitabilmente produce. Vincoli in grado sì di temperare in senso equitativo la fondamentale ed insopprimibile cifra individualistica del sistema, ma suscettibili di sacrificare, nella visione neoliberista, quegli animal spirits, ovvero quei “vizi privati”, al cui libero dispiegamento, secondo il celebre apologo del filosofo moralista Bernard Mandeville, l’umanità deve la sua prosperità. Dinanzi al generale discredito nel quale parvero incorrere i valori di equità sociale, alla luce del fallimento storico dei regimi del cosidetto “socialismo reale”, i fautori delle teorie più ardite e improbabili sul trionfo dell’Occidente ebbero facile gioco nel guadagnare la ribalta dei media e nell’imporre la propria interpretazione della storia.
La tesi circa “la fine della storia”, quale che fosse l’ intento provocatorio di chi l’aveva formulata (Francis Fukuyama 1989) ben sintetizza lo spirito trionfalistico che si diffuse nei circoli intellettuali liberisti e conservatori nei primi anni Novanta. Anni contraddistinti altresì, sul piano dell’ideologia, dalla convinzione (l’assiomatica degli interessi) che, al di là del privato interesse dei singoli individui non vi possa essere alcun interesse concreto degno di essere perseguito, rappresentando la società null’altro che una chimerica astrazione, cui sarebbe ingenuo voler imputare un interesse proprio distinto da quello particolare degli individui o dei gruppi che di volta in volta si trovano ad amministrane le sorti.
L’interesse generale è per sua natura astratto e quindi, secondo la visione propria delle dottrine neoliberiste più estreme, ineffabile e chimerico almeno quanto la società stessa, concetto da cui promana ed al quale è riconducibile; perciò esso è destinato a cedere il passo, ovvero a soccombere confondendosi con ogni interesse privato concreto, che abbia la forza e la spregiudicatezza di proporsi al pubblico come “interesse generale”.
Se, dal punto di vista delle trasformazioni strutturali, il periodo considerato è stato contrassegnato dalla diffusione delle rivoluzione informatica e dalla progressiva automazione di gran parte dei processi produttivi a maggiore intensità di lavoro, sul piano sociale si è assistito ad una radicale ridefinizione delle relazioni industriali, a tutto vantaggio del capitale, il cui potere contrattuale si è enormemente accresciuto anche grazie alla liberalizzazione intervenuta nella circolazione dei flussi finanziari e del commercio internazionale.
I trend emergenti sul piano sociale e politico espongono la democrazia ad un rischio involutivo dalle conseguenze imprevedibili: all’ideale democratico di partecipazione politica e di mobilitazione civile, prevalente nella cultura politica occidentale, almeno fino alla fine degli anni Settanta, si è andata sostituendo una concezione elitista del potere, cui corrisponde nelle masse un atteggiamento vieppiù apatico ed indifferente verso le forme tradizionali di impegno politico.
Al servizio di tale concezione del potere, ovvero delle élites economico-politiche dominanti che ne sono portatrici, opera gran parte dei moderni mezzi di comunicazione di massa, la cui straordinaria capacità persuasiva, utilizzata per imbonire ed omologare ideologicamente il pubblico perlopiù passivo e atomizzato della televisione risulta, per molti versi, più capillare e quindi subdolamente efficace degli strumenti di coartazione del consenso più diretti, di cui la storia, purtroppo, non ha cessato di fornirci esempi.
La pressione congiunta di questa molteplicità di fattori concorre ad una ridefinizione al ribasso del concetto di democrazia, sia dal punto di vista del metodo, che dal punto di vista dei valori. Nell’era della “post-democrazia”, le stesse consultazioni elettorali, culmine del processo democratico, in quanto strumento di selezione del ceto politico e di legittimazione dei governi, sembrano esercitare una influenza sempre meno determinate sulla scelta dei grandi indirizzi di politica economica e sociale.
In un mondo sempre più globalizzato ed interdipendente il potere
decisionale di cui è formalmente investito il corpo elettorale nei paesipiù avanzati sembra, ahimé, potersi esercitare nell’ambito di uno spettro vieppiù circoscritto e limitato di opzioni; opzioni peraltro in larga misura predefinite a monte rispetto al processo democratico stesso ovvero determinate in una sfera, quella dei mercati, di fatto sottratta all’ effettiva capacità di condizionamento del cittadino elettore e dei governi nazionali.
Di qui la formidabile spinta in Europa alla formazione di un’aggregazione politico territoriale sempre più ampia investita del compito di esercitare quelle prerogative sovrane che gli Stati nazionali non sono più in grado di esercitare proficuamente
di fatto, il trasferimento delle leve autentiche del potere su un piano diverso ed inaccessibile rispetto all’agorà ovvero alla sua proiezione virtuale negli organi rappresentativi degli Stati democratici priva di qualsiasi rilevanza la politica intesa come sfera del “discorso pubblico sulle scelte collettive”.

Dalle origini del potere politico all’affermazione della democrazia
L’affermazione di una sfera specifica della politica, delimitata e distinta rispetto alle altre dimensioni del vivere sociale, avviene in concomitanza col progredire della divisione sociale del lavoro che rende possibile la trasformazione della gerarchia naturale, di per sé instabile, in quanto basata perlopiù su risorse relativamente effimere come la forza fisica od il prestigio personale, in gerarchia politica fondata sulla istituzionalizzazione e sulla trasmissione, operata secondo rituali determinati, dell’autorità del collettivo posta al servizio dell’individuo ovvero del gruppo dominante.
Il potere politico, che Hobbes assimilava al mostro biblico Leviathano, per la sua titanica capacità di sovrastare e di annichilire qualsiasi individuo con l’autorità che gli deriva dal collettivo di esercitare il monopolio tendenziale dell’uso legittimo della violenza, conoscerà una prima episodica esperienza di democratizzazione presso i greci, nell’Atene del VI secolo, nella quale le rivendicazioni dei ceti emergenti, eversive rispetto all’ordine aristocratico tradizionale, trovarono espressione ideologica e culturale nel pensiero dei sofisti (Protagora, Gorgia, Trasimaco) e nell’apoteosi delle pratiche comunicative dell’agorà e del teatro, rispettivamente con l’arte retorica e l’arte tragica.
La democrazia greca, nella sua rappresentazione ideale, costituisce un modello al quale si ispirarono, soprattutto a partire dal Secolo dei lumi, tutti quanti coloro che propugnavano l’abbattimento dell’ordine aristocratico nobiliare; un ordine sempre più inadeguato a riconoscere le legittime aspirazioni di quanti, borghesi emergenti o aristocratici cadetti, non trovavano nelle ferree maglie della società tradizionale, basata sulla gerarchia dei ceti, uno spazio idoneo alla libera affermazione della propria individualità ed una via di accesso decorosa alle leve del potere politico costituito.
Quanto il modello greco di democrazia potesse differire dalle esigenze proprie della società civile emergente dalla crisalide dell’Ancien Régime risultò presto evidente alla luce, tra l’altro, dell’analisi compiuta da uno degli spiriti più acuti del primo Ottocento: Benjamin Constant, uomo politico e pensatore liberale francese. Egli, contrapponendo “la libertà degli antichi”, ripresa nella teoria della “volontà generale” di Jean Jeaques Rousseau, alla “libertà dei moderni”, evidenziò come la prima, corrispondendo ad una fase storica in cui la dimensione comunitaria risultava prevalente rispetto alla dimensione civile, non poteva soddisfare le aspirazioni dell’uomo moderno; “uomo” determinato a portare a termine il suo programma di emancipazione dai vincoli e dalle tutele esercitate dell’organismo collettivo, attraverso l’abbattimento delle istituzioni dell’ordine corporativo feudale ereditato dal passato per affermare a tutto campo la propria sfera individuale di autonomia nei confronti del potere di condizionamento proprio della comunità, non meno che nei confronti del potere coercitivo del sovrano.
Tra l’Ottocento e il Novecento si compie, la parte più importante del percorso della moderna democrazia, un percorso, peraltro, dalla traiettoria imprevedibile suscettibile in ogni momento disegnare il profilo discendente di una parabola.
Ma quali sono le tappe di questo percorso?
Attraverso l’affermazione e la garanzia dei diritti civili di libertà, (elemento davvero distintivo e discriminante della nozione moderna di democrazia, intesa come “democrazia liberale”), passando per il riconoscimento a tutti i cittadini dei diritti politici (suffragio universale) e l’estensione dei diritti sociali (welfare state,) nel corso dell’ultimo secolo si è venuto strutturando il concetto moderno di cittadinanza
Un concetto che trova nella democrazia come sistema di governo, (pessimo, ma comunque, stando a quanto ci è dato conoscere, il migliore, per citare Churchill) la sua dimensione istituzionale più idonea; dimensione comprensiva della seguente tipologia di regole:
a) Regole per governare che limitano il potere circoscrivendone gli ambiti e le modalità di esercizio (principio di legalità, quale requisito per l’esercizio razionale del potere; Max Weber).
b) Regole per salvaguardare i diritti dell’opposizione ad esercitare la critica e la protesta legittima in vista della possibilità, per chi rappresenta contingentemente la minoranza di diventare, in un momento successivo maggioranza.
c) Regole per garantire la più ampia partecipazione dei cittadini al godimento dei diritti civili, sociali e politici attraverso azioni positive volte a rimuovere gli ostacoli di ordine materiale che si frappongono al libero dispiegamento della persona umana. (Misure di promozione sociale: dinamiche inclusive volte all’allargamento della “cittadinanza”)


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TERZA GIORNATA
IL GOVERNO DEL CAMBIAMENTO
il cambiamento, sfida della democrazia “una democrazia mondiale è un’utopia, un mondo di democrazie non lo è“ (Ralf Dahrendorf)
la sfida della complessità
la sfida dell’antinomia sviluppo/solidarietà
la sfida dell’alterità irriducibile
la sfida dei valori
la sfida del glocale
la sfida della governance
la sfida della forma-partito

le varietà di capitalismi
modello renano
banca
capitale paziente
concertazione
fronte comune contro le minacce
modello wall street
borsa
speculazione
competizione
scommessa sul rischio
la “rivoluzione di Giulietta e Romeo”
(individuo vs. tradizione-coercizione):le tre punte di lancia dell’Occidente
rivoluzione femminile e individualista
rivoluzione informatico-comunicazionale
omogeneizzazione accelerata dei costumi
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IL GOVERNO DEL CAMBIAMENTO
TERZA GIORNATA
Sintesi della giornata seminariale di sabato 3 aprile
di Valerio Vassallo

Dinanzi alle numerose sfide della modernità complessa, evoluzione e superamento di quella che era stata la modernità semplice, caratterizzante la prima fase della società industriale, (contraddistinta dalla fabbrica di massa, dal mercato di massa e dal partito di massa), si configura l’urgenza di adottare nuovi e più flessibili strumenti di governo del cambiamento sociale, riconducibili alla nozione di “governance multilivello”, basata sul paradigma del network alternativo al modello centralizzato e gerarchico di organizzazione caratteristico del passato(modello cibernetico centro - periferia).

sfida della complessità
La transizione dalla modernità semplice a quella complessa comporta l’obsolescenza del partito centralistico, come luogo privilegiato della socializzazione politica. Per contro si dilatano i confini della sfera pubblica politica nella quale, soprattutto grazie alla diffusione delle nuove tecnologie informatiche, nascono e si moltiplicano reti informali ed associazioni di cittadini, spesso trasversali rispetto alle ideologie ed ai partiti tradizionali, in cui il confronto delle opinioni, in assenza di strutture gerarchiche precostituite, si può svolgere in modo più libero ed aperto.

Il tramonto del modello fordista e, con esso, della corrispondenza tendenziale tra le nozioni di impresa, intesa come attività economica organizzata al fine dello scambio di beni e servizi, azienda, intesa complesso dei beni organizzati da un’impresa per l’esercizio di una determinata attività, e la fabbrica, intesa come luogo della produzione e del lavoro, comporta una crisi profonda delle forme tradizionali di organizzazione del lavoro con quanto ne consegue in termini di parcellizzazione delle filiere produttive e di atomizzazione del mercato del lavoro e di declino dei sindacati.

Sfida dell’antinomia sviluppo/solidarietà
Se, per alcuni decenni, il confronto tra i blocchi non consentiva di cogliere appieno le differenze tra i vari modelli di capitalismo esistenti, nel corso dell’ultimo periodo la consapevolezza di tali differenze è apparsa più evidente: semplificando si possono distinguere due modelli: il modello “renano”, basato sulla banca di investimenti, il capitale paziente e la concertazione, prevalentemente orientato alla stabilità e quello “Wall Street”, basato sulla banca commerciale, le attività speculative borsistiche, il rischio e la competizione, prevalentemente orientato all’innovazione.

Sfida dell’alterità irriducibile
Sul piano culturale i processi di globalizzazione comportano una spinta formidabile verso la omogeneizzazione delle abitudini di consumo, dei costumi e dei valori di riferimento. Senonché, mentre sul piano dei modelli di consumo l’omologazione può procedere in maniera relativamente spedita e quasi indolore, a fronte di adeguate disponibilità economiche, sul piano dei costumi e dei valori la globalizzazione americana deve fare i conti con la resistenza e la capacità di reazione delle culture e delle identità locali; identità legate ad una visione comunitaria e (perlopiù) patriarcale del mondo, rispetto alla quale i valori individualistici dell’Occidente, recanti con sé, quale ultima e più rivoluzionaria conseguenza, l’emancipazione della donna, hanno un impatto dirompente.

Sfida dei valori
Nella transizione dall’epoca del compromesso keynesiano a quella dell’egemonia neoliberista si verifica un avvicendamento nei valori di riferimento: dallo spirito egualitario all’individualismo più estremo. In economia si assiste alla transizione dal paradigma keynesiano, coerente con un quadro di economia mista, al recupero delle politiche del laissez faire, funzionali ad una visione darwiniana della società, basata sull’idea di un mercato senza vincoli e regole, il cui verdetto, in termini di distribuzione del reddito, sempre meno dovrebbe essere esposto all’ “arbitrio” dell’azione correttiva e redistributrice dello Stato; Stato che, secondo la celebre dottrina del filosofo politico Robert Nozick, dovrebbe diventare sempre più “minimo” ovvero limitato e circoscritto alle sue funzioni primarie ed essenziali: quelle proprie di un’agenzia preposta alla garanzia della sicurezza, dell’ordine pubblico e della giustizia e quindi priva delle risorse necessarie a finanziare le azioni e gli strumenti di promozione sociale, che rappresentano invece l’elemento distintivo e qualificante del moderno Stato sociale, sviluppatosi nell’era del “compromesso keynesiano”.

Sfida del glocal
Con la globalizzazione muta il rapporto tra l’impresa ed il territorio. Se il 70% dei fattori che determinano la competitività di una azienda dipendono dal territorio, l’unica via per contrastare il processo di delocalizzazione e sradicamento delle imprese è investire nello sviluppo delle dotazioni infrastrutturali del territorio e nella promozione a livello locale dei cosiddetti “milieux di innovazione”, luoghi fisici e virtuali idonei a favorire un raccordo più sistematico tra le attività di ricerca e sviluppo, sempre più indispensabili per preservare la competitività di un “sistema- paese” (o di un “sistema-regione”, ed il mondo delle imprese.

Sfida della forma partito
La tendenza emergente vede sconfitti i modelli tradizionali di organizzazione politica basati sulla gerarchia come elemento di integrazione; l’applicazione alla sfera dibattito pubblico dell’organizzazione politica del paradigma del network crea le premesse per l’affermazione di un modello di partito innovativo: il “partito rete” quale strumento di autoespressione della società civile articolata in circoli, forum virtuali, gruppi tematici ecc.

IL PARADIGMA DEL NETWORK
Scrive il sociologo catalano Manuel Castells, circa la nozione di “rete”:
“il network è un insieme di nodi interconnessi. Si tratta di forme molto antiche dell’attività umana, ma hanno preso nuova vita nel nostro tempo e sono diventati reti informazionali alimentate da Internet. I network, grazie alla loro intrinseca flessibilità e adattabilità - due elementi cruciali per la sopravvivenza e la prosperità in un ambiente in rapido cambiamento -, presentano vantaggi straordinari come strumenti organizzativi... Per gran parte della storia umana le organizzazioni capaci di riunire risorse per scopi definiti centralmente, raggiunti mediante l’implementazione di obiettivi in catene verticali e razionalizzate di comando e di controllo, si sono dimostrate superiori a quelle del network. Queste erano primariamente la riserva della vita privata, mentre le gerarchie centralizzate erano i feudi del potere e della produzione. Oggi l’introduzione di tecnologie d’informazione e comunicazione permette ai network di dispiegare la loro flessibilità e adattabilità... Allo stesso tempo queste tecnologie consentono il coordinamento di obiettivi e la gestione della complessità“





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Socio fondatore del Gruppo di Volpedo e del Network per il socialismo europeo .